Uscito nei cinema nel 1968, Żywot Mateusza è la resa cinematografica polacca di un apprezzato romanzo norvegese.
di Mara Giacalone
Qualcuno si potrebbe chiedere cosa accomuni la Norvegia e la Polonia. Sicuramente molte più cose di quanto non potremmo a primo impatto pensare. Una cosa è abbastanza chiara, in entrambe le culture è presente una certa sensibilità e melancolia nel dipingere l’umano – non uguale, ovviamente, ma c’è. E un esempio ne è la coppia libro-film di oggi.
Żywot Mateusza è il titolo di un film per la regia di Witold Leszczyński uscito nel 1968 che vuole essere la resa cinematografica di un romanzo uscito pochi anni prima – nel 1957 – ad opera del maestro norvegese Tarjei Vesaas con il titolo Fuglane (in italiano “Uccelli” per i tipi di Iperborea).
Come si evince dal titolo polacco, il film ruota intorno alla vita di Mateusz (Franciszek Pieczka), il protagonista. Siamo davanti ad un uomo non giovane che vive con la sorella Olga (Anna Milewska) – o Hege, nell’originale – in una piccola e spoglia casa vicino al bosco e al lago. Vivono lontano dal centro abitato, elemento non trascurabile all’interno del ben ampio respiro esistenzialista di Vesaas e ben reso dal regista, il quale ci mostra questa abitazione che giace in mezzo ad una natura incontaminata, al margine della normalità della comunità. Come al margine sono i due fratelli. Mateusz non lavora, non fa nulla, non è in grado di fare qualcosa. È quello che definiremmo lo scemo del villaggio, colui che anche se prova e riprova non riesce, che pensa a spendere i soldi in caramelle, che quando c’è il temporale si chiude in bagno, che gira in barca. Un perditempo, in poche parole. E questa sua situazione e posizione sociale si riflettono nella condizione della sorella, la quale non ha potuto aspirare a nulla di più che lavorare a maglia per poter stare accanto a Mateusz. È lei che porta a casa il pane, che guadagna e fa da madre, da punto fisso nella tremolante vita dell’altro. La loro esistenza si trascina da un giorno all’altro dove ogni giorno è uguale a quello precedente fino alla svolta: un uccello – una beccaccia, per la precisione – passa sopra casa loro. Questo coglie Mateusz di sorpresa, perché gli uccelli non cambiano passo facilmente e lo interpreta come un segno, come qualcosa che deve accadere. E qualcosa di fatto accade. Un giorno, mentre è sul lago con la sua barca mezza rotta, è costretto a fermarsi su un isolotto e qui incontra due ragazze, Ewa e Anna, le quali sono straniere e non conoscono la sua “fama”: questo gli permette di indossare i panni dell’uomo perfetto, maschile e forte invece che debole ed eterno bambino. Questo incontro rimane però un episodio unico ma dà a Mateusz l’idea di fare il traghettatore ed è così che entra in scena Jan (Wirgiliusz Gryń), colui che distruggerà il già precario equilibrio casalingo. Si presenta come passeggero e, una volta che Mateusz lo ha portato a riva, lo invita a fermarsi a casa sua. L’uomo è tutto il contrario del povero protagonista, è un uomo con la U maiuscola, è un taglialegna, simbolo di virilità, e non ci vuole molto per capire che tra lui e Olga scatta qualcosa. Mateusz, sottile osservatore, se ne accorge e inizia ad avere incubi in cui la sorella lo abbandona. Tali sogni si fanno sempre più ossessivi portandolo a tentare un gesto disperato per attirare l’attenzione di Olga…
Come si evince dal riassunto della trama, la storia si costruisce su un climax sempre più drammatico che porta all’inevitabile fine. Il testo rende ciò attraverso una scrittura scarna e affilata, il film attraverso una serie di espedienti visivi e sonori che rendono giustizia al testo. Prima di tutto il bianco e nero. La mancanza di colori esprime quell’esistenza vaga e incolore dei due fratelli. Trasmette al contempo serenità e angoscia in un mix che coinvolge emotivamente e ci fa entrare nella testa di Mateusz dove le cose sono o bianche o nere, perché non c’è spazio per i pensieri complicati, i ragionamenti. In Mateusz c’è un candore di fondo che è quello dell’outsider, dell’ultimo, elemento caro a Vesaas e all’umanesimo nordico ma che non si allontana da quelle note malinconiche di cui è portavoce il cinema polacco. Altro elemento è la musica. Leszczyński compie una scelta particolare e si rifà ad un compositore italiano, Arcangelo Corelli. La stranezza non risiede nella provenienza dell’appena citato, quanto alla sua collocazione storica in quanto visse tra il 1653 e il 1713, violinista e compositore barocco. Non si tratta di omonimia, è proprio lui. Una scelta che potrebbe strappare un sorriso, abituati come siamo alla modernità, ma credo che sia un’ottima scelta che va di pari passo con il b/n della pellicola e con quell’aurea di classicismo baroccheggiante del romanzo stesso. La musica – nello specifico l’opera 6 N° 8 – accompagna senza essere presenza ingombrante, si fa spazio tra i ben più lunghi e pesanti silenzi e solo in alcuni momenti diventa simbolo, fondendosi con Mateusz, diventando quasi cupa e pesante. Un altro “dettaglio” di cui tenere conto è la lingua. I dialoghi e le parole sono elementi inseriti ed utilizzati tra i silenzi; il polacco del film è ridotto all’osso, semplice fin quasi scarno. Le battute brevi, frammentarie. Mateusz sembra soppesare ogni singola parola da lui pronunciata, le sue frasi sono come lame di coltello, per citare il libro.
Nel complesso, il film è davvero ben riuscito e rende quasi piena giustizia al romanzo. “Quasi” perché sarebbe impossibile una resa perfetta anche e perché mancano tante cose. Punto primo, il titolo. La traduzione polacca si concentra sul soggetto – Mateusz – semplificando notevolmente la faccenda. In norvegese Fuglane è “gli uccelli”, andando a mettere l’accento sul simbolismo di cui il testo è intriso. Mateusz è legato in modo indissolubile alla beccaccia. La vede passare sopra casa sua e poco dopo la vede vittima di un cacciatore. Il collegamento tra l’uccello e l’uomo è immediato e infatti Mateusz ci si immedesima pienamente e non potrebbe essere altrimenti: lui, così bloccato a terra da quelle che sono le gerarchie e gli status sociali e dall’altra parte la beccaccia, che vola, ma che compie un volo ”sbagliato”, in quanto cambiando il suo percorso è, in certo senso, deviata dalle altre beccacce, come Mateusz lo è dalla società. Seguendo la scelta della traduzione polacca, perdiamo questo elemento, e lo perdiamo anche nel film dove la relazione dei fratelli è messa in primo piano a discapito della vita interna di Mateusz. Questo non fa guadagnare punti negativi alla pellicola, che rimane comunque un ottimo esempio di quell’umanesimo dell’ultimo, dell’outsider che è molto presente in tutto il nord, però, agli occhi di chi è lettore attento di Vesaas, non passa inosservato.
Vincitore del premio Złota Kaczka nel 1968 e del Polne Kwiaty nel 1969, Żywot Mateusza è un film da vedere, per prendersi una pausa dalla frenesia del mondo contemporaneo e per perdersi in uno scenario che potrebbe essere la Norvegia ma anche una zona dei Mazury, un mondo naturale dove la vita scorre lenta e pacata.