Yoshe Kalb – un viaggio sincero tra gli ebrei polacchi

Yoshe Kalb

(foto di Mara Giacalone)

Yoshe Kalb è un romanzo atipico di Israel Singer. La storia resta di lato mentre le vite delle comunità yiddish esprimono le proprie contraddizioni.

 

di Salvatore Greco

 

La riscoperta di Israel Singer da parte dell’editoria italiana sembra stare conoscendo una fortuna particolare negli ultimi mesi. Anche solo un paio di anni fa non mi sarei mai aspettato di vedere uno scaffale intero colmo di titoli di Singer e per altro quasi nessuno del più famoso Isaac Bashevis. Dopo Acciaio contro acciaio sembra doveroso continuare a omaggiare il ruolo di Israel Singer come narratore principe del mondo ebraico polacco dando spazio alla sua opera maggiormente calata nell’universo yiddish: Yoshe Kalb, riproposto di recente da Adelphi.

Yoshe Kalb è un romanzo profondamente diverso dalle altre opere di Singer, non conosce la loro vastità di orizzonti né l’ostinato incaponirsi della Storia nel condizionare le vite e le vicende dei protagonisti. È un romanzo invece che esce pochissimo dal mondo degli ebrei polacchi e dalle sue dinamiche interne a volte così staccate dal mondo circostante, e le descrive nelle loro contraddizioni con toni sinceri, disincantati e con la profondità quieta che solo un narratore interno può avere, oltre al vantaggio ruvido di essere stato scritto e pubblicato prima dell’Olocausto, elemento che permette a Yoshe Kalb di essere un ritratto sull’universo privato degli ebrei polacchi sciolto dagli inevitabili filtri che la letteratura di questo tipo ha introdotto dopo quell’immane tragedia.

Yoshe Kalb non segue il tempo dei gentili, nessun riferimento è fatto a mesi e anni secondo il calendario gregoriano ma solo secondo quello ebraico, il lettore meno avvezzo a queste cose riuscirà a collocarlo intorno a fine Ottocento tramite gli sparuti riferimenti –che appaiono solo quando strettamente necessari- al mondo laico circostante, un mondo in cui le terre polacche sono saldamente sotto il controllo degli imperi prussiano, russo e austro-ungarico.

Le vicende di Yoshe Kalb hanno inizio proprio sul territorio controllato dalla dinastia asburgica, alla corte chassidica di Rabbi Melech, un rispettato e venerato santone che svolge il ruolo di autentica autorità spirituale e anche temporale della comunità ebraica di Nyesheve, in Galizia. Da Rabbi chassid qual è, Melech fonda maggiormente la propria autorità su una forma di esasperato misticismo piuttosto che dello studio della Torah accurato fino ai limiti Yoshe Kalbdel maniacale, caro all’ebraismo ortodosso. In qualche modo Melech è per la sua comunità un re taumaturgo come quelli francesi nel XVII secolo e come tale si comporta. La sua corte, sostantivo che non merita virgolette, è un circo variegato di mendicanti, faccendieri, studiosi e approfittatori, un mondo nel quale il rispetto della legge talmudica –citata a ogni pie’ sospinto- e in generale il vivere ebraico sono elementi che penetrano ogni aspetto della vita sociale, ma non per questo la comunità non è pervasa da ogni tipo di desiderio ed esigenza materiale. È in questo quadro pittoresco di citazioni dotte e sigari, di rimandi alle Scritture e generosi banchetti, che troviamo Rabbi Melech indaffarato a organizzare le nozze della sua figlia più giovane e ultima nubile, Mesele. Tale matrimonio, combinato con il giovane Nahum, rampollo di una famiglia rabbinica di un lontano shtetl sotto controllo zarista, per Rabbi Melech in realtà è poco più di un fastidioso ingombro, una pratica da sbrigare prima di convolare alle sue di nozze –dopo la scomparsa della terza moglie- che sarebbero sconvenienti da celebrare con una figlia ancora nubile. I due matrimoni infine si celebrano e pure a distanza ridotta l’uno dall’altro, ma le cause sulla comunità non sono indifferenti.

Nahum, il quattordicenne sposo di Mesele, dimostra in ogni occasione la sua ortodossia, la sua totale dedizione allo studio delle Scritture e un ferreo e sincero disinteresse per le cose terrene, a cominciare dal rapporto con la moglie. Malka, la giovane orfana che diverrà quarta moglie dell’anziano Rabbi Melech, è il suo totale opposto: non dimostra alcun rispetto per le consuetudini della comunità, è irriverente e ribelle nei confronti del marito e delle tradizioni, porta con sé una sensualità dirompente e totalizzante che finisce per turbare persino il pio Nahum che finirà per cedere alle lusinghe mai conosciute della carne e commettere adulterio con la nuora salvo poi fuggire nella notte in cui quest’ultima muore di parto.

Il libro a questo punto cambia quasi completamente scenario, Nyesheve è lontana, lontanissima, e c’è invece un modesto villaggio ebraico con la sua modesta sinagoga, centro di una comunità modesta ma fondamentalmente buona, lontana al contempo dalle elucubrazioni e dai vizi di Nyesheve. Tra gli smaliziati mendicanti che bivaccano dentro e fuori la sinagoga ce n’è uno che si comporta in modo strano: non mendica, non impreca, non contratta sulle elemosine, sta solo sulle sue a recitare salmi tra sé. Per una serie di circostanze diventa assistente dello scaccino della sinagoga che lo porta a vivere con sé, gli assegna i lavori più umili e gli dà il nomignolo di Yoshe Kalb, ovvero Yoshe il tonto. Lo scaccino è un uomo modesto che non rinuncia agli espedienti per vivere, è vedovo e ha una figlia di nome Zivyah, non particolarmente intelligente e animalesca. La donna a un certo punto, stanca dei rifiuti mostrati alle sue attenzioni da parte di Yoshe Kalb, si concede rozzamente in cambio di cibarie a dei contrabbandieri ai quali il padre concede il cimitero come magazzino per i loro affari. La città nel frattempo viene colpita da un’epidemia che uccide i bambini come mosche e le cause che la comunità riesce a trovare sono in qualche peccato inconfessato: presto si scopre che tale peccato è la gravidanza illegittima proprio di Zivyah. Per la città inferocita, guidata dai suoi membri più pii e più impulsivi, i macellai, l’unico responsabile non può che essere che quello Yoshe Kalb, il forestiero che lo scaccino ha generosamente ospitato in casa sua. Il tonto misterioso viene processato, ma la sua confessione non è mai completa, è elusiva, eterea, degna di un uomo estraneo alle cose del mondo, eppure è una confessione. Viene costretto a un matrimonio riparatore che salvi la città dal peccato e la donna dalla vergogna, ma Yoshe Kalb come Nahum sparisce nel nulla.

È un esercizio facile, quasi automatico, per il lettore trovare una continuità tra Nahum e Yoshe Kalb, uguale è la remissività dei due, uguale la tendenza a separarsi dalle cose mondane con naturalezza e assieme severità. La terza parte di questo denso romanzo in qualche modo punta a chiudere il ciclo: Nahum torna a Nyesheve, si fa riconoscere dalla moglie ed è pronto a tornare alla sua vita precedente dopo anni di vagabondaggio dei quali non vuole fare accenno. Una fatalità vuole che Nahum sia riconosciuto come lo Yoshe Kalb fuggito da Bialogura, la cittadina dove aveva trovato rifugio, e la questione dell’identificazione dell’uomo misterioso diventa un caso di stato che si mischia a una dura contesa rabbinica che vede coinvolto Rabbi Melech. La conclusione, che non svelo per non rovinare la lettura del romanzo, è lampante e surreale allo stesso tempo, una risposta-non risposta pienamente degna del caravanserraglio yiddish ricreato da Singer lungo tutto il libro.

Yoshe Kalb è un romanzo drammatico, che conosce la morte, il dolore, la scomparsa e la strage persino. Tuttavia è anche un romanzo grottesco, comico e beffardo. Racchiude insomma in sé quasi un compendio della vita del mondo ebraico polacco in cui la religiosità portante e la mondanità ricercata sono le due leve insopprimibili della dialettica vitale, esistenti l’una in funzione dell’altra e una necessaria all’altra. Senza i tormenti di una scissione impossibile tra i richiami del mondo e le profondità della Legge non può esistere Nahum, non può esistere Yoshe Kalb, non può esistere il mondo come Singer lo conosceva e l’ha descritto.

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