Reportage di esordio di Kamil Bałuk, Wszystkie dzieci Louisa è una storia spigolosa che parla di inseminazione artificiale ed esistenze ricomposte.
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di Salvatore Greco
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Le opere prime di solito portano con sé tracce evidenti dell’esperienza ancora da farsi, piccoli peccati di ingenuità o inesattezze che sanno di acerbo, ma nulla di questo sembra riguardare Wszystkie dzieci Louisa (Tutti i figli di Louis, Dowody na istnienie 2017), eccellente esordio editoriale del giovane Kamil Bałuk, nuova leva del reportage polacco.
Ventinove anni, una laurea in lingua nederlandese e una in sociologia oltre al diploma alla Scuola di Reportage formano il curriculum con cui Bałuk si presenta in libreria: esordiente sì, ma con un solido retroterra alle spalle. L’insegnamento della Scuola lo si percepisce chiaramente nel rigore con cui compone il suo reportage, riportando fonti precise e mantenendo la dovuta distanza rispetto agli eventi narrati, ma quello che colpisce di più è la naturalezza della sua penna unita a una vena letteraria sbarazzina non sempre riuscita agli altri autori di reportage.
Formato alla professionalità di un genere dai toni molto definiti ma anche capace di porre l’accento sul carattere letterario (in senso estetico) dell’opera, anche nella scelta dei temi Bałuk ha puntato a sparigliare le carte rispetto ai canoni classici del reportage. Innanzitutto l’ambientazione, quella dei civilissimi (e quindi apparentemente noiosissimi) Paesi Bassi, così lontani nello spirito dall’esotismo africano ma anche dall’eterno dibattito sulle sorti dei Paesi ex-socialisti; e poi la vicenda stessa di Wszystkie dzieci Louisa, che non tocca i piani distanti di grandi e irrisolti questioni storico-politiche ma pone il focus su storie umane, personali, di interesse e respiro più grande, ma comunque legate al destino di uomini con nome, cognome e una propria vita. E sono proprio le vite di quei figli di Louis che Bałuk racconta, prendendoli per mano e accompagnandoli nella ricomposizione di un’esistenza spezzata che unisce tutti loro, gente diversa per origini, vocazioni e tutto, uniti però dal dna, essendo tutti figli nati da un donatore di sperma, dallo stesso donatore per tutti loro, quello che oggi chiameremo Louis.
Uno dei punti di forza di Wszystkie dzieci Louisa è la struttura che l’autore gli ha donato, quella scalata frastagliata verso la consapevolezza che fa sì che si legga questo reportage con il gusto di un libro giallo, solo che alla fine non ci sono maggiordomi assassini o stanchi ispettori svedesi, ma la ben più amara irrisolutezza della vita vera. Tutto comincia con le immagini e le storie di Maaijke, Bjorg, Matthijs, Henrik e gli altri, ragazzi nati quasi tutti nella prima metà degli anni Ottanta, figli di Louis e di un inganno, quello perpetuato da un medico senza troppi scrupoli deontologici nei confronti di un microcosmo variegato di madre sole e coppie infertili. Coperte da una legge ambigua sull’anonimato del donatore, infatti, le cliniche per l’inseminazione nei Paesi Bassi hanno avallato con leggerezza gravidanze generate da donatori non corrispondenti alle schede e attivi ben oltre la soglia massima consentita. E nel caso dei figli di Louis è proprio questo che succede: la scoperta avviene pian piano, con il passo di un thriller ben articolato, c’è un’intera generazione -ben duecento casi- di feti fecondati artificialmente, tutti figli dello stesso donatore, Louis, a qualcuno venduto come italiano, greco, olandese bianco e istruito, padre di famiglia. Ma Louis, che è tutti questi e nessuno di essi, è un uomo di mezza età, originario del Suriname, privo di istruzione superiore e affetto dalla sindrome di Asperger.
La scoperta di essere figli in provetta dunque si accompagna a quella di una ricerca ingrata e faticosa, fatta attraverso le cliniche stesse, associazioni, squallidi programmi tv che vendono sentimenti un tanto al chilo, e che porta a un’amara conclusione: i figli di Louis sono figli di un pazzo, di un maniaco con tendenze autistiche che ha portato avanti un piano con candido orrore: avere più figli possibile per essere il più virile degli uomini.
Avere tanti figli era il mio sogno più grande, volevo averne più di chiunque altro, essere migliore degli altri uomini.
Come meccanismo di ricostruzione i figli di Louis fanno gruppo tra loro, con Bałuk e il lettore che diventano quasi soci onorari, si fanno chiamare halfies perché sono fratelli a metà, uniti da un destino biologico per parte di padre che però è l’unico filo che li lega. Certo, qualcosa li rende simili, il colore degli occhi o qualche tratto del viso o del carattere, ma per il resto sono figli di ambienti diversi, con storie lontane tra loro e atteggiamenti radicalmente opposti. Wszystkie dzieci Louisa li racconta tutti, con pacatezza e presenza, dando volti e nomi concreti a storie e persone che di identità hanno disperatamente bisogno e che ritrovando sé stessi nella ricerca del loro padre biologico affrontano situazioni difficilmente immaginabili in altri contesti. E svelano anche piccole ipocrisie, del tutto umane, che forse sarebbero risparmiate a dei personaggi letterari, ma questo per fortuna è un reportage.
La conoscenza di Louis, deus ex machina di tutte queste vite sventurate, avviene piano, per passi scomposti, prima tramite le reazioni degli halfies combattuti tra la voglia di conoscerlo e un certo disprezzo nei suoi confronti e poi attraverso l’incontro tra lui e l’autore, una conversazione in cui tutto cambia radicalmente. Se fino a quel momento, pur nel rispetto della giornalistica distanza dai fronti, ogni tipo di empatia andava necessariamente verso i figli, quando Louis entra in campo strappa la penna di mano a Bałuk e racconta la sua versione dei fatti in un modo che difficilmente si può eludere. Senza girarci attorno: Louis è un uomo folle, ma ci sono una lucidità nella sua follia e un candore nel suo orrore che equilibrano prepotentemente questa storia senza permetterci di separare con nettezza manichea vincitori e vinti, buoni e cattivi, manovratori e vittime del destino. Sarebbe troppo facile.
Non sono una brava persona. Come potrei se non sono per niente in grado di provare empatia?
Quando uno dei miei superiori che era scortese con me si è ammalato gravemente, mi ha fatto piacere. Qualcuno mi ha detto che non era opportuno, ma perché? Dopotutto non lo amavo. […]
Ho deciso di non sposarmi, ho reagito male al divorzio dei miei genitori e ogni matrimonio in fondo è minacciato dal divorzio. E poi per quale miracolo avrei potuto conoscere qualcuno? Non uscivo mai, non frequentavo caffetterie, discoteche, non andavo mai in vacanza. Le uniche donne che conoscevo erano quelle che vedevo al lavoro.
Nessuna di loro avrebbe mai detto di me che sono “un tipo a posto”. Ripetevano sempre la stessa cosa: “Penso che tu sia una brava persona, ma sei anche strano”. È difficile dire perché non me ne accorgessi io stesso. Tuttora, se faccio qualcosa di sconveniente, non mi rendo conto di farlo. Forse si tratta del mio modo di parlare o di come reagisco. Tutte queste convenzioni sociali di cui le persone fanno semplicemente esperienza io devo studiarle con tanto di esempi […]
Per me è importante anche il mio cognome. […] Ci siamo solo noi con questo cognome, perlomeno scritto in questo modo. […] Sapevo che qualcuno avrebbe dovuto dargli una continuazione, i miei parenti maschi hanno tutti problemi con il mettere su famiglia: Willy è omosessuale, Rudi un solitario, Ronald si è sposato tre volte, ma non ha figli. Quindi la responsabilità è caduta su di me, sapevo che dopo di me il cognome della stirpe si sarebbe estinto. Dovevo tramandarlo alla generazione successiva, ma come?
Sì, lo so che in quanto figli di un donatore di sperma non avrebbero preso il mio cognome, ma quello dei loro genitori. Non mi era sfuggito, ci torneremo dopo.
Il secondo motivo è che volevo tramandare i miei geni, perché come ritengo che il senso della vita di una gallina sia portare le uova in grembo, altrettanto penso che la natura chieda a ogni essere vivente di tramandare i propri geni alla generazione successiva. Che cosa ne faranno poi loro questo non è un mio problema.
Ma il terzo motivo è il più importante. Ci sarà qualcuno che si ricorderà di me? Che ricorderà del fatto che sono esistito? Volevo tramandare me stesso. Volevo che ci fossero al mondo delle persone che mi potessero ricordare. Che qualcuno possa un giorno andare sulla mia tomba e dire: “mi dispiace che sia morto”. Che qualcuno metta in ordine le mie cose dopo la mia morte, meglio se lo fa con cura, una parte la distribuisca, una la dia in beneficienza, una la tenga per sé. Che i miei figli si prendano cura dei miei album di vecchie foto. È la storia della mia famiglia, senza alcun valore per un estraneo, e divento triste quando penso che dopo la mia morte possa toccare a degli estranei togliere le mie cose dagli scaffali. È compito dei figli questo. Vorrei che lo facesse qualcuno di loro. Che un giorno un qualche nipote potesse dire: “Lo voglio conservare, apparteneva al nonno”.
Mi chiedi perché è così importante per me?
Perché in fin dei conti sono umano.
Sono tanti i temi che rendono Wszystkie dzieci Louisa un libro possente, innovativo nella tradizione, foriero di un successo di pubblico notevole, ispirato da una luce che ha portato una colonna del reportage come Mariusz Szczygieł a farsene padrino personale oltre che accademico. Si può partire da lontano e fare i conti con un senso di sporco raramente attribuibile ai paesi nord-europei o anche porsi domande profonde sul senso e l’opportunità di pratiche come quella dell’inseminazione artificiale da donatore anonimo. Ma si può anche affrontare queste storie, quelle di Maaike, Bjorg, Matthijs, Henrik e gli altri, senza pretendere di dar loro significati universali e raccoglierle invece come voci stanche di chi ha vissuto la propria giovinezza cercando un senso irraggiungibile di identità ricomposta. Si può insomma farne quello che si può sempre fare di un grande reportage, perché Wszystkie dzieci Louisa lo è. E dal suo autore è lecito aspettarsene presto altri.