#LibriCheAspettiamo – Wit Szostak – Cudze słowa

Cudze slowa

Cudze słowa è il nuovo libro di Wit Szostak, un romanzo corale che riflette sull’identità e sul modo in cui la raccontiamo.

di Salvatore Greco

Wit Szostak non esiste. Mi chiedo se l’uomo che porta il suo volto si girerebbe se qualcuno per la strada lo chiamasse così. Di sicuro non lo chiamerà mai così nessuno in un ufficio pubblico, nessun ente previdenziale gli manderà mai un estratto conto a quel nome. Perché Wit Szostak è una creazione letteraria con cui l’autore firma le sue creazioni letterarie. Un nome d’arte, un’identità diversa, separata da quella dell’uomo che tutti i giorni prepara la colazione ai suoi figli, prende il tram e insegna filosofia all’università. Faccio questa premessa perché, nel suo ultimo romanzo, tutta l’attenzione di Szostak è intorno a ciò che le parole degli altri dicono di noi. Se la realtà di ciò che siamo è l’insieme di ciò che gli altri osservano di noi, allora cosa non siamo se parole altrui? O, per dirla con il titolo originale del romanzo, cudze słowa?

Szostak non è nuovo a questo tema del raccontare l’identità dall’esterno, arriverei persino a dire che è un filone importante della sua opera, adesso che è arrivato al suo tredicesimo romanzo. In Wróżenie z wnętrzności (Aruspici) ci offre il filtro sul mondo un uomo muto per scelta, disabituato alla parola da più di vent’anni. In Sto dni bez słońca (Cento giorni senza sole), un accademico di mezza tacca si incaponisce a raccontarsi un mondo di brillanti intellettuali e vita conviviale che esiste solo nella sua testa. In fondo è fatto tutto di parole altrui, e Cudze słowa porta all’estremo questo ragionamento, in un modo abbastanza convincente anche se non privo di qualche spigolatura.

Il protagonista di Cudze słowa, pubblicato come tuttii i romanzi di Szostak dai tipi di Powergraph, si chiama Benedykt Ryś, ma non lo vediamo mai in prima persona. Coerentemente con il titolo e il progetto del romanzo, di Benedykt parlano solo persone che non sono lui, che lo hanno conosciuto e, a vario titolo, amato. Ognuno dei sette narratori racconta l’uomo, il mentore, l’amante, il figlio, il compagno di scuola, ognuno dando la sua visione del protagonista.

E dunque chi è Benedykt? Non è facile dirlo con certezza, nemmeno dopo che sette persone diverse ce l’hanno raccontato, o forse proprio per questo. La persona che emerge dalle pagine è certamente un uomo brillante, capace di lasciare solchi profondi in chi l’ha conosciuto, prima come ragazzino pieno di ambizioni e prospettive, poi come studente geniale con una prospettiva accademica segnata nel mondo della filosofia cracoviana e non solo, infine come ristoratore appassionato ed eccentrico.

Alla fine della sua breve vita (non è uno spoiler, che si parli di Benedykt ex post è chiaro dalle primissime righe del romanzo), il protagonista ha infatti scelto di realizzare la sua visione della vita in un ristorante di spirito mediterraneo. L’ha chiamato Isola, l’ha piazzato vicino al centro di Cracovia, e ha proposto ai suoi ospiti una cucina mediterranea ecumenica, fusione di suggestioni italiane, greche, balcaniche, ma anche turche o marocchine. Le pagine che parlano di Isola sono dense di una retorica a volte un po’ melensa e sicuramente turistica, specie agli occhi di lettori che sul mediterraneo ci sono cresciuti. Non credo sia però una rimostranza da consegnare all’autore, come non lo era per Sto dni bez słońca l’ossessione del giovane accademico per ottenere una giacca di vero tweed. Anzi, quando Szostak ci mette di fronte a qualcosa di così irritantemente stereotipato, è sempre un segnale da cogliere. Il racconto di Isola infatti spetta ai due narratori più giovani, Jan e Weronika, che lo adulano oltre misura. Lui perché allievo poco più che adolescente, incantato dall’aura del maestro, lei perché innamorata persa dell’uomo maturo, cuoco, filosofo e viaggiatore. Né Jan né Weronika sono in grado di discernere e, persino quando sono spaesati rispetto a quello che Benedykt fa di Isola, seguono la corrente con un incanto difficile da spezzare.

Probabilmente più gustosi a una prima lettura sono i frammenti destinati al padre di Benedykt, che sulla tomba del figlio rimugina sugli errori da genitore fatti e mani riparati. Oppure quelli di Jakub, compagno di giochi d’infanzia di Benedykt, allevato nelle vessazioni della nonna e cresciuto disturbato al punto da ridurre la sua vita in miseria e al vagabondaggio. Per finire con Magda, per Benedykt compagna di studi e di vita per un certo periodo, la donna che gli ha dato un figlio, e che più di tutti gli altri narratori messi insieme si interroga sulle parole.

Narratori diversi tra loro portano con sé lingue diverse. Forse la qualità più evidente di Cudze słowa risiede proprio nel modo in cui Wit Szostak ha saputo scolpire il linguaggio di ognuno dei suoi personaggi, rendendoli tutti perfettamente riconoscibili, plausibili ed espressione della personalità di ognuno. Non è mai facile, in un romanzo corale, riuscire a distinguere le voci e il loro contributo, questo a Szostak riesce meravigliosamente.

Cosa ci rimane infine di Cudze słowa? Arrivati all’ultima pagina, la sensazione è che non sappiamo ancora bene chi sia stato Benedykt Ryś, e non lo sapremo mai. Sappiamo un po’ di più di chi l’ha conosciuto, e possiamo provare a farlo per gioco su di noi, con risultati niente affatto scontati. Non credo che, con quest’opera, Szostak avesse l’intenzione di creare un romanzo olistico in cui gli elementi alla fine si compongono da sé. L’identità è una cosa più complessa del diorama di impressioni che gli altri hanno di noi. Cudze słowa si ripone a scaffale con questa apparentemente semplice, ma poco confortante, verità.

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