Wit Szostak – tra Cracovia, l’Italia e le tracce del mito

Wit Szostak

Wit Szostak. Foto di Mikołaj Starzyński

Intervista con Wit Szostak, scrittore e filosofo cracoviano innamorato della sua città e della cultura mediterranea, indagatore dei grandi temi dell’umanità.

di Salvatore Greco e Francesco Annicchiarico

Nel panorama letterario contemporaneo polacco la figura di Wit Szostak emerge per eleganza della sua prosa e profondità dei temi che affronta. Cracoviano impenitente e innamorato della sua città, Szostak è autore di dieci romanzi che vagano tra le infatuazioni mediterranee e quelle mitteleuropee e polacche alla ricerca di storie che vadano al cuore dei grandi quesiti della vita attraverso il filtro incessante dei grandi miti e archetipi culturali su cui si salda la cultura europea. In esclusiva per PoloniCult, ci ha raccontato il suo modo di intendere la letteratura, la filosofia, la musica e altre cose senza le quali la vita sarebbe meno interessante. Qui abbiamo pubblicato in esclusiva per PoloniCult un estratto in italiano del suo romanzo Gli aruspici (Wróżenie z wnętrzności).

SG: Come hai iniziato a scrivere? Ritieni che esista qualcosa come lo “scrittore professionista” e ti definiresti tale?

È difficile individuare l’inizio di qualcosa, se lo si fa da sempre. Sin da bambino mi piaceva immaginare storie che poi riportavo con cura su carta, e a volte le illustravo pure. Non erano nulla di speciale, soprattutto tracce delle mie letture del momento, imitazioni di alcuni motivi letterari. Poi verso la fine degli anni Novanta mi sono messo in testa di scrivere un romanzo. Ero eccitato, sentivo che avrei scritto centinaia di pagine di testo che mi avrebbero tenuto al lavoro per mesi e mesi. Dopo un anno, il romanzo era pronto. Non era un granché, ma ero orgoglioso di averlo portato a compimento. Ho sentito di essere pronto a passare il guado. Non molto tempo dopo ho fatto il mio debutto con un racconto. Era il 1999.

Non si può negare l’esistenza degli scrittori di professione. Se con questa definizione intendiamo le persone che si guadagnano da vivere scrivendo, beh, esistono. Ne conosco molti che hanno intrapreso questa strada, ad alcuni va alla grande, ad altri così così mentre altri ancora peggio. Io non ho mai preso questa decisione, non ho mai trasformato la scrittura nella mia unica fonte di sostentamento. Lavoro all’università, sono un filosofo, scrivo nei ritagli di tempo. Ammiro alcuni amici scrittori che hanno corso il rischio e l’hanno fatto in un momento in cui per loro le cose erano davvero difficili. Tuttavia, sono convinto che la mia di decisione non sia stata dettata solo dalla paura. Credo che per me la scrittura sia un’avventura difficile da incasellare. Non riesco nemmeno a immaginare di trasformare questa attività in un obbligo da rispettare a ogni costo. Nella scrittura, come del resto in tutto ciò che faccio, non c’è nemmeno l’ombra della routine. Sono in grado di scrivere intensamente per mesi, alcuni dei miei libri sono venuti fuori addirittura nell’arco di settimane, e poi fermarmi per un anno o due senza sentire nemmeno il bisogno di scrivere. Ogni volta che finisco un libro non so ancora se sarà l’ultimo, e il pensiero di non scrivere più nulla nella vita non mi spaventa particolarmente. Per questo le scadenze, gli obblighi, gli anticipi pagati e gonfiati mi stresserebbero troppo. Per mettermi a scrivere un nuovo libro devo sentire davvero una grande determinazione, una forte convinzione di dover scrivere proprio quella storia.

So bene che è un approccio poco professionale. E per questo motivo, nonostante abbia molti libri alle spalle ormai, non mi sento uno scrittore professionista. Penso che se qualcuno mai gridasse “C’è uno scrittore in sala?” non reagirei. Al massimo mi guarderei intorno alla ricerca di uno scrittore senza pormi nemmeno il problema che si possa trattare di me. Ho sempre la sensazione di avere ancora tutto da fare, come se mi preparassi continuamente a debuttare. Ed è per questo che è per me sempre un’avventura così affascinante.

SG: Nella vita fuori dalla letteratura, sei un professore di filosofia. Questi due mondi si incontrano mai? E se lo fanno, vanno d’accordo?

Il mio primo libro è uscito nel 1999 e ho iniziato a insegnare nel 2000. Da vent’anni conduco dunque una doppia vita e la relazione tra queste due strade ha una sua precisa dinamica. All’inizio credevo che ciò che scrivevo sarebbe stato completamente separato da ciò di cui mi occupo in filosofia. Per questo, tra le altre cose, ho scelto uno pseudonimo con cui firmare i miei romanzi e racconti, e col mio vero nome firmo i miei lavori di filosofia. Il racconto, ovvero il mythos, e il pensiero, ovvero il logos, sono compagni di strada. Molti pensano che siano due sentieri separati. Eppure, oggi più che mai sento che sono sempre più vicini tra loro e che sempre più spesso entrino in contatto. Mi affascina questa loro strana vicinanza, la loro reciproca ospitalità e la loro diffidenza strisciante. Alla fine, al mythos si giunge per fede, mentre al logos per ragionamento. Fede e ragione hanno una storia comune tempestosa, piena di tensione e di incomprensioni. Ultimamente mi arrovello sul mythologos, cerco le connessioni spezzate. Il mio ultimo romanzo, Poniewczasie, è il primo libro che avrei potuto firmare con entrambi i cognomi.

FA: Nei tuoi romanzi è possibile ritrovare molti personaggi che cercano una propria realizzazione altrove rispetto al luogo in cui si trovano. Qualcuno la cerca nel passato, qualcun altro su un’isola quasi deserta, qualcun altro ancora in una stazione abbandonata o in una fascinazione mediterranea. Per te la letteratura è fuga? Magari verso un non luogo, per dirla con Marc Augé?

Credo che nella vita di ognuno ci siano delle fughe, forse ogni vita è in sé una fuga. Secondo Nietzsche, ogni tentativo di dare alla vita un qualche senso esteriore, che superi la constatazione che la vita è vita, è proprio una fuga dalla vita stessa. E chi non ha mai provato a cercare un senso alla propria esistenza? Forse il senso della fuga ha un movimento opposto: non quello da un luogo verso un non-luogo, ma il tentativo di trovare un luogo dopo aver lasciato un non-luogo che ci ha illusi.

Michel Foucault nel suo Spazi altri mostra i non-luoghi come brecce nello spazio: alla fine l’apoteosi dell’eterotopia per lui è una nave, un frammento di spazio che fluttua e non ha un posto suo. Marc Augé parla di aeroporti, supermercati, stazioni, per lui persino la città è un non-luogo. In questo senso la letteratura esiste fuori dalla differenza tra luogo e non-luogo.

Cerco di essere prudente nel formulare tesi universali, ma mi sento vicino all’asserzione, comune a molti artisti europei degli ultimi decenni, secondo cui la condizione dell’uomo è un continuo peregrinare e l’impossibilità di mettere davvero radici e risiedere in qualsiasi posto. In questo senso la letteratura è strada, accompagna l’uomo nella sua condizione di nomade. Nella sua Teoria del romanzo Lukács ha scritto che „la forma romanzo esprime il sentimento di nomadismo trascendentale meglio di qualunque altra possibile”. Mi sento di condividere particolarmente questa affermazione. Se dunque il nostro posto, per quanto suoni paradossalmente, è nel nomadismo, la letteratura che lo prende sul serio non può essere di regola una fuga ma un movimento verso quell’unico posto disponibile per noi.

FA: In un modo o nell’altro i tuoi personaggi sono isolati dalla realtà, soprattutto dalla nostra realtà contemporanea dominata dai social media e dall’ossessione per la condivisione delle proprie opinioni. Pensi che riflettere su questi temi sia superfluo per raccontare la nostra società?

Ho l’impressione che tutto ciò accada in superficie. Ho il presentimento, ma non escludo che possa sbagliarmi, che descrivere i destini delle persone che lavorano nelle multinazionali e passano la vita su Facebook o Twitter sia un po’ sterile. È solo la superficie dell’oceano, le onde che si vedono. Mi sembra che si debba scendere più in profondità, allontanare le persone dalle loro scenografie e dare loro altri strumenti, inventare per loro una lingua nuova. Sento che la lingua dei social network, le sue diagnosi, non comunichino nulla. Una banalità rimanda all’altra e tutto rimane molto superficiale. Imparo molto di più di una persona, del suo essere errante, quando leggo di lui o lei fuori dalla sua confort zone, come potrebbe essere un suo post condiviso su Facebook. Io provo a togliere le decorazioni che a volte scambiamo per essenza della contemporaneità. Solo facendo così emergono le correnti sotterranee, i tremori, le tensioni.

SG: In una precedente intervista hai raccontato del ruolo del mito nella tua opera. Nei tuoi romanzi appaiono soprattutto miti classici e domande universali derivate dalla corrente greco-latina, e più raramente temi provenienti dal romanticismo polacco. Qual è la tua posizione verso questa tradizione? Condividi l’asserto del famoso verso di Lechoń “e che io veda nella primavera la primavera e non la Polonia”? 

Cerco il mito ovunque, sono i miti stessi che mi attirano a sé. A volte inizio a scrivere qualcosa solo in apparenza non del tutto mitico, e all’improvviso mi rendo conto che la scrittura mi porta verso i simboli, i miti, gli archetipi. Mi sono misurato di recente con il romanticismo polacco, e la mia intera trilogia cracoviana in particolare è intrecciata a quei temi, in particolare Dumanowski. I miti scorrono nelle nostre vene, sono come scritti nel nostro DNA e non c’è modo di disfarsene. Quando ho iniziato a sentire in me stesso alcuni toni del romanticismo polacco ho iniziato a tremare, ed è così che è venuto fuori Dumanowski, la storia di un finto eroe polacco che è depositario del senso nazionale di tutto il XIX secolo, un periodo in cui la Polonia non esisteva sulle mappe d’Europa. È una cosa curiosa, ma dopo aver scritto questo romanzo questa febbre romantica è come passata. E, cosa di cui sono molto contento, nella primavera vedo la primavera e non la Polonia. La scrittura mi ha guarito.

SG: Scrivi spesso in prima persona e i tuoi personaggi sono spesso ambigui se non addirittura esplicitamente sgradevoli. La critica ci ha insegnato da decenni a distinguere tra narratore e autore, ma come ci si sente, mentre si scrive, ad appaltare il tuo io a questi personaggi?

Se fossi come i miei personaggi avrei una personalità molto ricca e di certo tutte le loro voci risuonerebbero in me da dentro. Uso la narrazione in prima persona perché mi dà maggiori possibilità di penetrare nella complessità di un individuo. Ritengo che siamo l’intreccio di molte voci che si mostrano come tali in varie situazioni, risuonano con varie intonazioni e in vare circostanze. Racchiudiamo molti volti, molte maschere, con ogni individuo abbiamo relazioni diverse e tutto questo si riflette nella nostra lingua; con un bambino si parla in un modo, all’amante si sussurra in un altro e un altro modo ancora è quello con cui si parla di letteratura. E questo multilinguismo fa parte di noi, ognuno di noi è una torre di Babele. La polifonia che ho scoperto grazie agli studi di Michail Bachtin mi affascina da anni e provo a praticarla in letteratura.

I legami con le mie voci narranti sono complessi. Ritengo che nessuno di loro sia il mio alter-ego. In generale è come se mi sfilassi una corda, una voce, un’inquietudine o una mancanza. Sono corde che risuonano in me solo ogni tanto, se non piuttosto raramente. Non sono mai dominanti. La letteratura mi permette di guardare come sarebbe una persona in cui quella voce diventi dominante. È il caso di Błażej di Wróżenie z wnętrzności per esempio. A volte sentirei il bisogno estremo di una fuga totale, ma a chi non è mai successo? L’idea di lasciare tutto, partire, iniziare tutto da capo. Nella mia vita questa voce viene smorzata dalla malinconica affermazione di Kavafis che nella poesia Città scrive: “questa città ti seguirà”. Eppure, ho dato una possibilità a questa voce di esprimersi nel racconto di Błażej. In una stazione abbandonata, ovvero in un non-luogo.

SG: Il ritmo della tua narrazione è sempre meravigliosamente melodico e regolare come in una composizione rinascimentale. Tu sei anche un musicista, per cui ti chiedo: qual è l’influenza dell’elemento musicale nella tua scrittura? Ascolti musica mentre scrivi?

Non sono un musicista, ho suonato vari strumenti, ma solo a livello amatoriale. Su questo tema le informazioni che si trovano in rete esagerano drammaticamente le mie qualifiche. Amo la musica, indubbiamente, per me la lingua stessa è una precisa forma di musica. Lavoro spesso alla ricerca dei ritmi, delle armonie, delle ripetizioni; il lavoro musicale con la lingua per me è molto importante mentre scrivo. Posso dire che scrivendo canto in silenzio. E sì, ascolto molto spesso musica mentre scrivo. A seconda delle circostanze, ascolto Bach, musica popolare polacca, free jazz. La musica mi ispira. Uno degli scopi segreti della mia scrittura è raccontare la musica. Non tanto come tema, anche se a volte nei miei libri appaiono dei musicisti o la musica stessa. Mi interessa di più come la musicalità penetri la frase letteraria, come amministri non solo il suono di un paragrafo ma anche la costruzione dell’intero romanzo.

SG: Cracovia che in sogno si trasforma in Venezia, un viaggio a Firenze che cambia la vita di uno dei protagonisti, continue evocazioni italiane e mediterranee appaiono nei tuoi romanzi. Qual è il tuo rapporto con il nostro paese?

Amo il mediterraneo e amo l’Italia. La mia relazione con questi posti è semplice, anche se non facile: vivendo in questa lontana terra settentrionale chiamata Polonia, ai confini dell’Europa, mi sento un figlio illegittimo, postumo o semplicemente un parente povero e alla lontana dell’Italia e dell’Ellade. Presso di voi ci sono le nostre radici, ancora oggi attingiamo al succo di quello che è accaduto attorno al mediterraneo negli ultimi duemila anni. Ricordo il mio primo viaggio in Italia: stavo lavorando al mio dottorato e assieme a mia moglie e a degli amici avevamo affittato un appartamento nel Chianti. Un giorno Siena, un altro Firenze. Ricordo lo sbalordimento per tutta quella pittura, quell’architettura, ricordo di aver avuto la sensazione di essere in realtà anche io originario di quei luoghi e che proprio in quelle correnti intellettuali e artistiche, sviluppatesi così lontano dalla mia casa, oltre i boschi e le montagne, lì ci fossero le mie origini. Da quella volta torno regolarmente in Italia. Wróżenie z wnętrzności l’ho scritto quasi tutto in Sicilia. Scrivevo di notte, nell’uliveto ingiallito che circondava la nostra casa, guardavo l’Etna e Taormina, il mare scuro come vino e scrivevo di Błażej e Mateusz. Forse è per questo che la terra di questa storia, che si svolge sulle montagne polacche, è così illuminata da un sole che pare mediterraneo? Ma l’Italia per me non è solo quello che ho nominato fin qui. Adoro Fellini, sono cresciuto con i suoi film. Fellini, Bergman e Tarkovskij: sono loro ad aver costruito il mio immaginario cinematografico. Mentre Italo Calvino è uno degli scrittori più importanti della mia gioventù letteraria. Ha avuto un’influenza importante sulla mia formazione letteraria e torno spesso sulle sue Lezioni americane. E non potrei vivere senza olio d’oliva.

SG: Se non è una domanda indiscreta mi piacerebbe sapere quale libro hai adesso sul comodino e cosa ti piace leggere in generale.

Non ho un comodino, ma solo una grossa mensola piena di libri che minaccia di crollare, e un giorno mi schiaccerà probabilmente. Inizio a leggere molti libri, ma non sono molti quelli che porto a compimento. Sono assetato di nuove scoperte e illuminazioni. Mi sveglio ogni giorno con la speranza di incappare nel Grande Romanzo che cambierà la mia vita. Ultimamente però leggo perlopiù filosofia, molta saggistica. Ma ci sono anche autori di letteratura come Edmond Jabés, Bruce Chatwin, Patrick White, Ingeborg Bachmann. È un campione del tutto casuale, sicuramente fra un mese sarà completamente diverso.

Per quanto riguarda la letteratura polacca torno sempre a Schulz e Leśmian, giro attorno a loro ossessivamente da anni. Stimo molto Myśliwski e Buczkowski. E poi leggo gli scrittori miei amici, ma le altre novità letterarie le frequento più raramente.

FA: Chi abiterebbe nel Panteon letterario e artistico di Wit Szostak?

È una domanda difficile e di regola evito di rispondere. Una scelta del genere è sempre limitata. Ci sono molti autori che ammiro e che hanno avuto una certa influenza sul mio modo di scrivere. Da alcuni di loro torno con ammirazione a intervalli di anni, altri sono infatuazioni un tempo importanti, ma che oggi fanno parte del passato. Non sono mai stato in grado di scegliere nemmeno i dieci scrittori più importanti per me, ma capisco che una mappa delle ispirazioni e delle fascinazioni permette di dire qualcosa di un autore, presentandolo innanzitutto come lettore. E quindi partendo da Omero e Cervantes passando in poesia a Leśmian, Kavafis e Saint-John Perse. Per la prosa direi Bruno Schulz, Dostoevskij, Joyce, Garcia Marquez, Borges, Mann, Sebald… Si potrebbe andare avanti a lungo ma anche così non esaurirei la lista dei creditori. Scorro con lo sguardo le mensole della mia biblioteca e scorgo altri dorsi di libri che suggeriscono cognomi che dovrei aggiungere all’elenco. Ma basta. E mi fermo solo alla letteratura, ma dopotutto ci sono anche la pittura, il cinema (di cui per altro ho un po’ già parlato), e il teatro. Di certo ci sono anche il rinascimento italiano, impossibile non nominare anche Jerzy Nowosielski, il teatro di Kantor. E poi anche… no, basta così.

Lista dei principali romanzi di Wit Szostak:

  • Oberki do końca świata (2007 PIW, 2014 Powergraph)
  • Sto dni bez słońca (2014 Powergraph)
  • Wróżenie z wnętrzności (2015 Powergraph)
  • Zagroda zębów (2016 Powergraph)
  • Chochoły (2010 Lampa i iskra boża, 2018 Powergraph)
  • Dumanowski (2011 Lampa i iskra boża, 2018 Powergraph)

I diritti dei libri di Wit Szostak sono di proprietà dell’autore e di Wydawnictwo Powergraph e rappresentati in esclusiva per l’Italia da Nova Books Agency s.c. Per informazioni e richieste: agent@novabooksagency.com

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