Victory Park, terra di tutti e di nessuno.

Victory Park

Un vivido e appassionato ritratto di Kiev nel 1984 nell’ultimo libro targato Voland

di Violetta Giarrizzo

”Il tempo del romanzo è il 1984, l’ultimo anno dell’Unione Sovietica nella sua forma più vera, quella staliniana, solo di poco modificata dai successivi governanti. È già corrosa dalla corruzione, ha abbondantemente esaurito i margini di stabilità, ma la sua facciata monumentale ancora regge, trasmettendo la sensazione di un’immutabilità dell’ordine costituito”.

Così si apre Victory Park, il nuovo romanzo di Aleksej Nikitin, scrittore di lingua russa nato a Kiev. Si tratta del secondo romanzo dell’autore edito dai tipi di Voland, che già nel 2013 si era interessata al suo mondo letterario pubblicando Istemi, e proposto nella collana Sírin, dedicata agli autori slavi. Entrambi i romanzi sono stati tradotti da Laura Pagliara, un’impresa sicuramente non facile, considerando la varietà del linguaggio che abbraccia Aleksej Nikitin e i numerosi e ostici riferimenti culturali della vita quotidiana nell’Unione Sovietica.

Istemi e Victory Park sono accomunati dai luoghi e dal preciso periodo storico che fa da sfondo alle vicende dei personaggi: una Kiev non ancora intaccata dalla perestrojka, eppure già alla vigilia della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Una Kiev grigia, sul punto di collassare, stanca ma ancora palpitante. Descrive un vuoto ideologico, la mancanza di riferimenti e uno spaesamento generale nella vita quotidiana.

Le pagine di Victory Park sono popolate da personaggi loschi, di dubbia moralità: dai trafficanti di droga e refurtiva occidentale, agli svuotati e giovani reduci di guerra in Afghanistan, tra le pagine si respira uno spaesamento generale, una tensione vitale e un profondo vuoto ideologico.

”Con un tempo diverso, senza la pioggia, se per esempio fosse stata una calda serata di maggio, si sarebbero messi tutti comodi su quel che restava delle panchine sfasciate, tra la ruota panoramica e gli autoscontri, a passarsi in cerchio un paio di spinelli e qualche bottiglia di vodka. Cosi, invece, si stringevano rattrappiti sotto il tetto dell’autodromo, divisi in gruppetti diversi, a chiacchierare oziosamente, tirando in ballo vecchie notizie, perché nel parco non succedeva niente di nuovo da un pezzo. Il parco della Vittoria è una palude sonnacchiosa”.

Composto da un collage di trame e sottotrame e da un incessante brulicare di personaggi secondari all’ombra del celebre Parco della Vittoria di Kiev, il romanzo manca di una vera e propria coerenza narrativa. A tratti risulta straniante ma perfettamente riconducibile alla volontà di Aleksej Nikitin di presentare l’istantanea di un paese e della sua società in declino, sull’orlo di grandi e disastrosi cambiamenti. Le tre parti in cui è suddiviso si presentano come un caotico e malinconico collage di personaggi e situazioni che si alternano tra momenti farseschi ed epiloghi drammatici.

Il fulcro attorno al quale ruota l’intera narrazione potrebbe forse essere ricondotto a Pelikan e Baghila, due giovani studenti dell’Università uniti da una grande amicizia nata alla scuola elementare con le ricerche del rifugio sotterraneo dei partigiani. La storia si dipana a partire dalle vicende dei ragazzi e del compleanno della bella Irka, giovane ragazza amata da Pelikan e contesa tra svariati pretendenti. È la sera del suo compleanno e vediamo i diversi personaggi affaccendati, ognuno a modo loro, nell’organizzazione della festa. Pelikan è alla ricerca disperata di un regalo che gli verrà servito quasi su un piatto d’argento: delle Puma ”rosse, quasi scarlatte, misura trentasei”, introvabili altrove e costosissime per le sue tasche di studente spiantato.

E poi troviamo Vilja, il giovane fotografo e farcovščik improvvisato (una sorta di rivenditore di merce occidentale) identico a Michail Bojarskij, attore e cantante russo amatissimo negli anni Ottanta nell’Unione Sovietica. Vilja fa incetta di cuori delle giovani casalinghe di Kiev spacciandosi per l’artista grazie al suo bel paio di baffi e si ritrova puntualmente invischiato in situazioni paradossali.

Ma incontriamo anche Alabama, lo scaltro trafficante con la sua affascinante Karinè e Fëdor Aleksandrovič, patrigno di Irka, frustrato attorucolo di serie B che decide di organizzare una festa memorabile per i diciotto anni della figliastra. Una festa grottesca, in cui lui, come un Trimalchione moderno, cerca di ostentare una raffinatezza e una ricchezza che però non possiede, avendo sperperato i risparmi per il ridicolo ricevimento per novanta persone, tra zuppe, tartine al caviale e litri di vodka di contrabbando.

Victory Park è un libro intessuto di figure border line le cui peripezie sono tratteggiate dall’autore ora con scherno e distacco, ora con una tenerezza quasi materna, in cui il Parco della Vittoria funge da vero punto d’incontro tra il passato e il cambiamento. Un luogo emblematico nella periferia di Kiev, a metà strada tra il quartiere tradizionale e arretrato di Očerety e il quartiere sovietico Komsomol, fervente di giovani studenti e professionisti ed enti burocratici, nel pieno del progresso.

Nella sua interessante postfazione al romanzo, Marco Puleri descrive il parco come una terra di nessuno, dove si incontrano ”i frequentatori abituali del parco, che incarnano il caleidoscopio di popoli, storie, successi e disgrazie che hanno caratterizzato la storia dell’URSS”.

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