Twarz è l’ultimo film della giovane e apprezzata regista Małgorzata Szumowska.
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di Lorenzo Berardi
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Twarz è il settimo lungometraggio della cracoviense Małgorzata Szumowska, ritenuta oggi una delle esponenti più interessanti di una nuova generazione di cineasti polacchi. Una regista dalla cifra stilistica riconoscibile e che da qualche anno riesce a realizzare film capaci di dividere l’opinione pubblica trattando temi complessi in modo coraggioso e provocatorio. Ciò che accomuna le ultime opere di Szumowska, come avevamo già evidenziato recensendo uno dei suoi film di maggiore successo di pubblico e critica, è il delicato rapporto che lega il corpo umano allo spirito. Un’interazione reciproca nella quale a un’improvvisa fragilità dell’uno corrisponde talvolta un irrobustimento dell’altro, ma il cui legame a doppio filo corre il rischio di spezzarsi per le eccessive sollecitazioni. Questo film, ispirato a larghe linee a una storia vera, non fa eccezione e mette in scena un trauma personale che innesca un prima e un dopo nella vita del protagonista.
‘Twarz’ in polacco significa ‘faccia’: un titolo semplice, come quello dell’opera precedente di Szumowska, Ciało (Corpo) vincitore dell’Orso d’argento per la regia alla Berlinale 2015. Tuttavia, il titolo scelto per il mercato internazionale, Mug, assume una molteplice sfaccettatura. ‘Mug’ è un termine slang anglofono che può significare molte cose: il grugno di un brutto ceffo, un volto sgradevole e indigesto, una bocca che straparla, un sempliciotto credulone.
Il protagonista, Jacek Kalisztan, prima e dopo l’incidente che ne trasforma la vita, è tutte queste cose assieme. Confinato in un remoto angolo della campagna polacca, il giovane diviene una sorta di benvoluto ribelle presso una comunità bigotta il cui unico obiettivo è quello di costruire una gigantesca statua in onore di Gesù Cristo, Re di Polonia. Ed è proprio alla realizzazione di questa statua, più alta di quella del Cristo Redentore a Rio de Janeiro, che lavora Jacek come scalpellino tuttofare. Un mestiere che il giovane, capellone e appassionato dei Metallica, svolge in modo meticoloso ma con ironico distacco in un cantiere condiviso con manodopera del luogo e zingari che parlano un polacco per lui incomprensibile.
La malvagità del banale
Al netto di interpreti perlopiù eccellenti, quello che manca – consapevolmente – a Twarz è una continuità narrativa. La sceneggiatura saltella qua e là da una situazione conclusa in sè alla seguente con stacchi a volte bruschi che la splendida fotografia accentua anziché mascherare. Ci sono innumerevoli scene e inquadrature di grande poesia alternate a improvvisi momenti triviali. Un escamotage che serve a sottolineare il contrasto fra la bellezza dei luoghi e l’assuefazione di chi vi vive un’esistenza senza prospettive. La colonna sonora non fa altro che rinforzare questa sensazione usando come leitmotiv un arcinoto successo dance di Gigi D’Agostino proposto persino in una frastornante rivisitazione folk per archi e fiati in un momento cruciale del film.
Sarà anche questa una scelta voluta di regista e sceneggiatori, tuttavia è innegabile come i personaggi principali di Twarz siano tratteggiati in modo ora grottesco ora stereotipato. I campagnoli bigotti e ipocriti che affollano docili la chiesa del paese, covano un’aggressività latente pronta a esplodere in battute razziste o in furibonde liti su un’eredità. La sorella buona samaritana che apprezza la patina anticonformista del fratello e vorrebbe vederlo rifarsi una vita più soddisfacente altrove. Emblematica è la figura di Dagmara, l’esuberante ma insicura fidanzata del protagonista. La ragazza è intrappolata in un contesto provinciale, però nulla fa per sfuggirvi. Anzi, legittima le convenzioni, dapprima scandalizzando il prossimo e poi correndo pudica a confessarsi.
Persino l’enigmatico Jacek, nonostante l’efficace recitazione di Mateusz Kosciukiewicz, lascia perplessi proprio per questa sua anima incerta, al tempo stesso ribelle e conformista. Sembra che desideri restare nel rassicurante paesello natale del quale è personaggio integrante e dove ama prendersi gioco di chi lo circonda. La possibilità di scappare, magari alla volta di Londra come suggeriscono canzonandolo i suoi parenti, pare remota e mai davvero cercata. Non c’è voglia di riscatto sociale in Jacek, ma un’apatia mascherata dal sarcasmo, da un look pop-metallaro (perché in fondo cosa c’è di più ovvio di una t-shirt dei Metallica?) e dalla musica ascoltata a tutto volume sulla sua 126 rossa mentre i bambini del luogo lo inseguono urlando “Satanista!”.
Nel film emerge una visione estremamente critica della chiesa cattolica e del potere da essa esercitato su gente che lo accetta passivamente per incapacità di metterlo in discussione. La regista sceglie la via dell’ironia per ridicolizzare le gerarchie ecclesiastiche, dall’annoiato prete di campagna agli alti prelati esperti di sacre scritture, ma meno ferrati su altri temi. La colossale statua di Gesù Cristo Re di Polonia (ispirata a quella che dal 2010 veglia su Świebodzin nel nord-ovest del Paese) come massimo traguardo al quale tutta la comunità è chiamata a contribuire tende a oscurare la vicenda umana di Jacek tanto che alla fine ci si chiede chi sia il protagonista del film. Il ‘volto’ del titolo è infatti anche quello del gigantesco Gesù di calcestruzzo il cui sguardo deve a ogni costo essere rivolto al santuario della Vergine Nera di Częstochowa, come un vescovo convinto suo malgrado che gli operai zingari siano musulmani spiega a un gruppetto di ingegneri.
Un film a muso duro
Twarz è un’opera a tratti divertente, ma che di certo non rassicura e lascia un sapore amarognolo in bocca allo scorrere dei titoli di coda. Non ci sono vincitori in questa pellicola, ma tutti ne escono sconfitti e anzi ancora più assuefatti allo status quo. I prodigi della moderna chirurgia restituiscono Jacek ai suoi luoghi e alla sua gente, ma non a quell’identità e a quella vita per lui tutto sommato accettabili sottrattegli da un banale incidente sul lavoro. Nonostante la sua forza di volontà interiore o forse il suo rifiuto di vedersi cambiato per sempre, l’uomo sarà percepito in maniera diversa dal prossimo e privato di quel poco che aveva saputo conquistarsi. E neanche il completamento della statua di Gesù Cristo più grande del mondo, verso la quale Jacek mantiene un atteggiamento indifferente nonostante gli abbia rovinato la vita, sarà un vero e proprio successo per la comunità.
Chi è in cerca di rassicurazioni sul senso della vita e sui benefici portati dalla scienza al quotidiano si rivolga altrove. Chi invece vuole immergersi in un angolo di Polonia rurale – per quanto reso con toni talvolta grotteschi – lontano anni luce dai grattacieli di Varsavia e dalla bambagia di Cracovia, saprà apprezzare Twarz. La vena sarcastica e talvolta quasi macabra del film lo rende infatti a suo modo gradevole per un pubblico adeguatamente preparato. In fondo è anche grazie a opere come questa che la cinematografia polacca contemporanea è divenuta fra le più innovative e coraggiose in Europa. Małgorzata Szumowska non ha alcun timore di esprimere le proprie idee sul grande schermo e, in quanto tale, è destinata a dividere i propri connazionali generando un dibattito su temi sui quali l’odierna Polonia ha necessità di interrogarsi.