Tutti i russi amano le betulle è un romanzo che viaggia tra identità e culture, tra l’Azerbaigian e la Germania, passando per la Russia e per la Polonia.
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di Violetta Giarrizzo
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Tutti i russi amano le betulle, scritto in tedesco ed acclamato in Germania, dove è stato insignito del premio Klaus-Michael Kuehne e il premio Anna Seghers, con il suo titolo divertente e vagamente ruffiano, è il romanzo d’esordio di Olga Grjasnowa, giovanissima scrittrice dall’identità culturale fluida e multisfaccettata, Edito in Italia da Keller editore, più che un romanzo, lo si potrebbe definire un’autobiografia romanzata dell’autrice, che trae liberamente ispirazione della sua esperienza, non esattamente lineare, di vita. Nata nel 1984 a Baku, in Azerbaigian, da una famiglia russa di religione ebraica, nel corso della sua vita ha viaggiato e vissuto tra l’Azerbaigian, la Russia, la Polonia, per stabilirsi in Germania. E la Germania è proprio il paese nel quale ci troviamo all’inizio di questo bizzarro libro, catapultati nella non facile quotidianità della protagonista Maša, una sorta di alter ego dell’autrice. Maša, azera ebrea di origine russa, vive a Francoforte con Elias, il suo ragazzo tedesco, e insieme conducono una vita da giovane coppia spiantata, fotografo lui, studentessa e promettente interprete delle Nazioni Unite lei. Maša si definisce ”disciplinata e avida di successo” ed è una giovane donna testarda e risoluta con un doloroso passato alle spalle: ancora bambina è stata costretta a fuggire con i genitori dall’Azerbaigian durante il conflitto di Nagorno Karabakh. Qualche flebile ricordo dell’infanzia del protagonista funge da strumento per introdurci al quadro geopolitico dell’area, al conflitto tra azeri, armeni ed ebrei e le stragi avvenute tra i quei popoli.
Maša parla cinque lingue che usa come strumento di difesa nella vita personale e quella professionale. Fin da piccola, si rende conto del potere derivante dal padroneggiare la lingua di un paese nel quale si sentirà sempre straniera, la Germania, fin dalle estenuanti code per richiedere i documenti negli uffici pubblici con i genitori, appena arrivati a Francoforte anni e anni prima: ”Accompagnai i miei genitori all’ufficio stranieri e là imparai che sapere le lingue è potere. Chi non parlava tedesco non aveva voce e chi biascicava qualche parola non otteneva la dovuta attenzione. Le richieste venivano accolte o respinte in base all’accento più o meno forte”. Traduttrice inconsapevole fin da bambina, si rende conto che con il suo bagaglio linguistico avrebbe potuto sopravvivere nella maggior parte dei paesi del mondo e nel corso della sua vita impara a studiare le lingue con assiduità e dedizione per tentare un giorno una carriera diplomatica.
I primi capitoli del libro sono un brulicare di personaggi: Sami originario di Beirut, l’amico turco Cem, giovani idealisti pieni di speranze come Maša ed Elias, freschi e permeati da una gioia di vivere nonostante le difficoltà di realizzarsi ed un futuro incerto, ed accomunati dal un simile destino di immigrati. Ma un dramma, una brusca svolta del destino fanno precipitare la trama e la vita di Maša in un turbinio di eventi inaspettati.
La narrazione subisce un’improvvisa accelerata e l’introspezione, le riflessioni sul futuro lasciano il posto ad episodi che si accavallano, senza un vero e proprio senso logico. La nostra protagonista decide di partire, abbandonando i radiosi sogni di lavorare alle Nazioni Unite e accettando un piccolo incarico da traduttrice a Tel Aviv dove ha diversi parenti fuggiti dall’Azerbaigian. Apparentemente alla ricerca delle proprie radici e di un contatto con il suo passato, piomba nella più completa confusione (e il lettore insieme a lei), perdendo in qualche modo la lucidità che la contraddistingueva all’inizio del romanzo. Qui vediamo Maša alle prese con un lavoro che non è quello sognato ed immaginato per anni in un ambiente multiculturale sì, ma in un paese in cui si sente più estranea ancora, continuamente altalenante tra la voglia di rimanere e le nuove e disparate conoscenze, tra cui la relazione con una giovane artista ebrea, Tal, e la voglia di ritornare alla sua vita di prima che, però, non esiste più.
Un libro la cui copertina strizza l’occhiolino a un lettore convinto di avere tra le mani un romanzo che, chissà, forse si prende gioco con ironia degli stereotipi dei paesi dell’Est, oppure un racconto di un viaggio on the road alla Ogni cosa è illuminata, e invece si trova scaraventato con forza in un vortice di tematiche appassionanti, attuali e dure, ma trattate in modo superficiale. Un patchwork di luoghi comuni sull’immigrazione, sul razzismo, sull’integrazione, e il multiculturalismo, passando per la tematica LGBT, che culminano nella depressione e nella crisi d’identità della protagonista. Mi è sinceramente parso di riemergere dall’apnea al termine di questo romanzo, confusa e turbata dall’ammasso di personaggi e di argomenti trattati. La narrazione serrata e qualche dialogo brillante agevolano sicuramente la lettura di questo libro, dove non mancano riflessioni interessanti e spunti originali, soprattutto nella parte ambientata in Germania. Ma il personaggio di Maša non subisce pressoché nessuna evoluzione, nonostante lo smarrimento dei suoi punti di riferimento, stanca un po’ la sua presunzione e una sorta di superiorità nei confronti della vita. I personaggi che la circondano mancano di spessore, spesso appaiono proprio come un’incarnazione degli stereotipi che l’autrice sembra voler respingere.
Tornando, infine, al titolo del romanzo, giunta agli ultimi capitoli mi sono chiesta perplessa a cosa facesse si riferisse esattamente, dal momento che la cultura russa viene toccata molto marginalmente, né tanto meno si nominano mai le betulle, quando ho incontrato il dialogo che ha chiarito i miei dubbi, forse uno dei più toccanti dell’intero libro. Si svolge con Ismael, un fotografo palestinese conosciuto durante tragitto nella Striscia di Gaza dove Maša svolge l’attività di traduttrice volontaria:
”Che aria hanno i tedeschi?”
”Non ne ho idea”
”E i russi che aria hanno?” Gli chiesi.
Alzò le spalle, rispose: ”Hanno l’aria di gente che ama le betulle”.