La presentazione di Pięć razy o przekładzie di Małgorzata Łukasiewicz permette di affrontare un viaggio affascinante nel mondo complesso e multivocale della traduzione.
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di Francesco Cabras
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Małgorzata Łukasiewicz è una germanista, apprezzata traduttrice, fra gli altri, di Adorno, Habermas, Nietzsche, Gadamer, Sebald ed Hesse.
I cinque saggi che compongono questo libro sono riflessioni su altrettanti aspetti capitali con cui ogni traduttore si confronta continuamente: cos’è la traduzione e perché si traduce (I-II); qual è il rapporto che intercorre tra lettura, traduzione e scrittura? Che rapporto ha il traduttore con l’autore del libro che affronta e come si configurano i suoi spazi di libertà d’azione nei confronti del secondo? In cosa si differenzia il traduttore da un comune lettore (in fondo il traduttore è prima di tutto un lettore, come insegna Gayatri Spivak quando afferma che “la traduzione è la più intima delle letture”, riallacciandosi acutamente a un’affermazione di Gadamer: “La lettura è una traduzione”) (III)?; qual è il rapporto che lega la traduzione e l’alterità, nel momento in cui la prima è un medium che mette in contatto due Weltanschauungen differenti (IV)? È possibile una storia della letteratura pensata come storia delle traduzioni (V)?
Offrire una definizione univoca di “traduzione” non è affatto scontato e l’autrice, dopo aver passato in rassegna nel secondo capitolo una serie infinita di definizioni, perlopiù metaforiche e ci sarebbe da interrogarsi sul perché della cosa, offerte dalla teoresi, si limita, saggiamente e con piglio “minimalista”, ad assumere la traduzione come un atto consistente nel “formulare in un’altra lingua ciò che è stato formulato nella lingua dell’originale” (p. 61). Tra le tante definizioni proposte, credo sia utile soffermarsi almeno su un ambito metaforico, invero capace di forte penetrazione anche nel cosiddetto “senso comune”: quello della “fedeltà”. È a tutti nota l’affermazione di Gilles Ménage (1613-1692): “Le traduzioni sono come le donne: o sono belle, o sono fedeli”. Lori Chaberlain ha rovesciato la prospettiva di una simile affermazione: ricorrendo a categorie di genere, si potrebbe anche dire che, seguendo la prospettiva di Ménage, all’originale spetta un ruolo “maschile”, creativo, mentre alla traduzione compete un ruolo “femminile”, subordinato, secondario. Senonché, il valore della fedeltà è positivo e necessario alla “stabilità” solo in una comunità patriarcale, che vede l’infedeltà come una minaccia ai propri equilibri interni; in una situazione di lotta per l’emancipazione invece l’infedeltà diviene un mezzo di lotta, di rivolta verso l’esistente e di rivendicazione dei propri diritti a una creatività autonoma, svincolata dal dominio “maschile”.
Una tale interpretazione è in fin dei conti la riformulazione più aggiornata e insieme un tentativo di giustificazione, sulla scorta dell’apparato concettuale elaborato da teorici dei gender studies, di una situazione che la critica letteraria (non solo moderna) aveva già rilevato: il traduttore non può essere un “lettore incolpevole”, non legge nel vuoto: quando traduce è consapevole della storia della letteratura scritta nella lingua dalla quale traduce; è consapevole del sistema linguistico del singolo autore che si accinge a tradurre, per cui ad esempio chi traduce Proust non traduce semplicemente il “francese”, bensì il “francese di Proust”; tiene conto della lingua di destinazione e finanche del pubblico che leggerà la traduzione; ha davanti a sé il patrimonio che la propria lingua gli offre per tradurre un determinato autore (qui la sua libertà sarà massima e soprattutto in questa situazione lo si potrà paragonare all’autore). Fin qui alcuni elementi che spiegano in parte le “libertà” o le “infedeltà” imprescindibili dell’atto traduttivo, ma se tali “infedeltà” possono sembrare a prima vista più obblighi dettati da fattori esogeni alla volontà del traduttore, che dire allora di autori che traducono se stessi? È ad esempio il caso di Nabokov quando traduce dal russo all’inglese il proprio romanzo Disperazione. Preparando la seconda edizione inglese del romanzo, lo scrittore ha rimesso le mani sulla prima traduzione, anche quella peraltro da lui stesso allestita, comportandosi nel modo seguente: “[Nabokov] accentuò alcune caratteristiche dell’originale e della prima edizione della traduzione (ad esempio i giochi di parole e le allitterazioni, già presenti nel testo russo, sono state non solo restituite in inglese, ma addirittura moltiplicate)” (p. 75). Łukasiewicz (p. 77) conclude che il fenomeno dell’autotraduzione non è rilevante perché mostra come la traduzione possa spingersi a gradi di libertà che la portano talvolta davvero lontano dall’originale, bensì per dimostrare come la lingua di destinazione stessa, insieme ai lettori che fruiranno della traduzione, impongono al traduttore alcune “infedeltà”.
Personalmente non condivido in toto questa lettura: sia pure ammissibile che alcuni giochi di parole sono impossibili da rendere nella lingua di destinazione (è spesso il caso di Beckett che dalla metà degli anni ’40 prese a scrivere i propri testi in due lingue, inglese e francese, suggerendo peraltro ai traduttori in altre lingue di compulsare entrambe le versioni, pp. 74-75), ma il caso di Nabokov presentato sopra pare smentire almeno in parte le affermazioni dell’autrice. È piuttosto la volontà dell’autore che s’impone prepotentemente, intervenendo su alcune caratteristiche salienti del testo.
Qualche altro esempio: quando Piotr Kochanowski (1566-1620) tradusse splendidamente in polacco la Gerusalemme Liberata del Tasso, operò di propria iniziativa delle forzature sul testo del poeta sorrentino che, con buona pace di molti studiosi dei decenni passati, non possono essere giustificati sempre e soltanto per presunte carenze della lingua polacca a quell’altezza cronologica. Se pigliamo il celebre episodio della morte di Clorinda (XII 59-68), ci rendiamo conto di come il traduttore (l’autore del poema in polacco?) sposti il focus dell’intero episodio dal “sangue”, parola tematica in Tasso, ai giochi di Fortuna, parola tematica in Piotr Kochanowski. “Sangue” in Tasso compare ben sette volte (anche con soluzioni derivative, come “essangue”) contro le sole tre occorrenze del testo di Kochanowski (mai derivative, peraltro). Eppure il polacco del XVI secolo sapeva benissimo come dire “sangue” [krew], né mancavano tutti i suoi possibili derivati… Evidentemente a Piotr Kochanowski non interessava sottolineare gli aspetti più cruenti e finanche sensuali dell’episodio tassiano, concentrandosi sul gioco di Fortuna (szczęście in polacco), che si beffa crudelmente del malcapitato Tancredi, facendolo combattere a sua insaputa con la donna che ama.
Si è parlato più sopra di alcune caratteristiche della “lingua” e della “tradizione” d’arrivo che parrebbero a prima vista limitare la libertà del traduttore, obbligandolo a determinate scelte. Il caso di Piotr Kochanowski è ancora una volta istruttivo. Egli tradusse non solo Tasso, ma anche Ariosto. La traduzione del Furioso non ricevette l’ultima mano dal suo autore (traduttore?) e fu pubblicata postuma. Ora quello che mi pare più significativo qui è che il Tasso è stato tradotto da Piotr Kochanowski in ottave di endecasillabi, mentre l’Ariosto fu tradotto in ottave di tridecasillabi, verso che nel sistema della tradizione poetica polacca è paragonabile all’endecasillabo italiano.
Come abbiamo appena visto, il traduttore può dunque prendersi la scena, operare scelte importanti e che di solito pertengono all’autore soltanto, anche quando si trova a gestire elementi che il senso comune ci suggerisce implicati dalla tradizione o dalla lingua; Kochanowski ha deciso di mantenere l’endecasillabo nella sua traduzione di Tasso, mentre ha scelto di impiegare il tridecasillabo in quella di Ariosto. Il ruolo del traduttore si fa insomma da femminile maschile, per dirla con la Chamberlain.
Passiamo brevemente al panorama italiano: agli albori della nostra tradizione poetica la traduzione artistica o poetica è fenomeno abbastanza raro. Citando Gianfranco Folena, diremo che traduzione poetica “significa «imitazione», Nachsingen, che investe necessariamente le strutture del significante, trasponendole per analogia oltre che in una lingua diversa in un diverso sistema di forme e di generi letterari [corsivo mio]”. Quando Giacomo da Lentini traduce Folchetto di Marsiglia nella canzone Madonna, dir vo voglio, nel rispettare sostanzialmente la lettera del trovatore, opera sistematiche “potature” (l’espressione è sempre di Folena) dei versi in levare, che da decasillabi provenzali divengono settenari italiani; senza scendere oltre nel tecnico, si possono dire cose non dissimili della canzone Umile core di Iacopo Mostacci, “traduzione”, nelle prime tre stanze, di Lunga sazon ai estat vas amor, canzone provenzale di incerta attribuzione.
Mi si obietterà, non del tutto a torto, che gli esempi proposti sono tutti casi-limite, di traduzione artistica o d’autore, appunto…un poeta “fa poesia” e ha tutto il diritto di intervenire come meglio crede sul testo che “traduce”.
Controbatto che in una simile obiezione manca forse un po’ di profondità storica (ed è questo peraltro l’unico piccolo appunto che mi sento di fare al libro di Łukasiewicz, forse troppo sbilanciato in prospettiva sincronica): anzitutto l’idea che la traduzione possa essere più o meno fedele è un portato del Cristianesimo. Le religioni classiche non avevano libri ispirati (o ritenuti scritti) dagli dei; i libri erano semmai libri sugli dei, ma non erano libri degli dei (genitivo soggettivo). Quando il libro sacro divenne parola di Dio ci si pose il problema di un’aderenza perfetta a tale parola; solo allora e non prima. Per misurare la distanza che separa gli antichi dalla concezione cristiana dal libro sacro, basterà citare Erodoto II 53: “Da chi nacque ciascuno degli dei, se tutti esistessero da sempre e quali siano le loro forme, fino a poco fa, per così dire fino a ieri, non si sapeva. Penso infatti che Esiodo e Omero siano più vecchi di me di quattrocento anni e non di più. Sono stati loro infatti ad aver composto per i Greci una teogonia, attribuendo agli dei i loro epiteti, dividendo i loro onori e le loro competenze, indicando le loro forme”. Già questo passo basta a rilevare l’abisso tra la mentalità dei Greci e quella di Tertulliano, che in Apologeticus XVII 1 ssg. afferma che “Affinché potessimo avvicinarci in modo più completo ed efficace tanto a Dio, quanto alle sue disposizioni e alla sua volontà, egli utilizzò lo strumento della scrittura [instrumentum litteraturae]” dove instrumentum per i giuristi romani è tutto l’insieme dei materiali che venivano usati per istruire delle cause. Assolutamente inconciliabile dunque con questo modo d’intendere il Libro di Dio e su Dio, è quanto leggiamo non solo in Erodoto, ma anche in Esiodo, che definisce esplicitamente le Muse che lo ispirano capaci di dire «cose false simili al vero». Riusciamo a immaginarci i Padri della Chiesa sostenere qualcosa di anche solo lontanamente simile a quanto affermato da Esiodo quando si riferiscono alla Bibbia, cioè a quel libro che deve essere instrumentum, insieme di “prove” che dimostrino l’esistenza di Dio e trasmettano agli uomini le Sue volontà? Fa infine il paio con le parole di Tertulliano, la celebre lettera di S. Gerolamo a Pammachio conosciuta anche con il titolo di De optimo genere interpretandi, dov’è detto esplicitamente che, se per quanto riguarda gli autori classici è lecito rendere piuttosto il senso che la lettera del testo, per quanto concerne la Bibbia persino la semplice successione delle parole è mysterium divino e quindi da conservare, non bastasse già l’obbligo di tradurre ad verbum, cioè, per usare un’espressione corrente, “letteralmente”.
Prima di affrontare il Medioevo, pronto a riservarci sorprese, fermiamoci un po’ sulla cultura Romana.
Il latino aveva sostanzialmente due parole fondamentali per indicare l’attività del tradurre (ne esistono anche altre, ma meno frequenti e rilevanti): vertere e interpretor, con il sostantivo derivato interpres. Partiamo dal primo: vertere significa prima di tutto “rovesciare, far ruotare” (pensiamo al “pollice verso” ad esempio) e in seconda battuta è il verbo della metamorfosi; chi è versus (rivolto), viene radicalmente trasformato: vertit comas significa ” ha cambiato colore ai capelli”, così come incendia gentes in cinerem vertunt significa che “le fiamme hanno mutato le persone in cenere”; chi è versus insomma non è più ciò che era prima. Per di più, il vertere è spesso legato a un intervento soprannaturale (si pensi a Giove che nell’Amphitruo plautino in Amphitruonis vertit sese imaginem, cioè “assume le sembianze di Anfitrione”, ma potremmo anche dire “si trasforma in Anfitrione”); vertere è il verbo principe delle Metamorfosi ovidiane, dove ricorre spessissimo insieme a mutare (e anche questo verbo, con i suoi derivati, ad esempio mutatio, può indicare in latino l’operazione del tradurre). Vertumno è infine a Roma il dio capace di assumere qualsiasi forma, il “muta – in – tutto” (vert(it) in omnis). Restiamo ancora un po’ in compagnia dei poeti latini, prima di tornare a riflettere sulla traduzione: quando Ovidio, nel II libro delle Metamorfosi, ci racconta la trasformazione di Callisto in orsa, ci informa anche (II 485) che mens antiqua […] mansit (Callisto conservò l’antica mens). Ora mens è grossomodo l’insieme di quelle qualità che noi moderni diremmo costituire la “personalità” di ogni singolo individuo; Callisto s’è trasformata in orsa, eppure continua a pensare come una donna, sente come una donna, soffre come una donna…Qualcosa di quanto era nella Callisto umana è sostanzialmente rimasto nella Callisto donna; lo stesso accade a Lucio, il protagonista delle Metamorfosi apuleiane, mutato in asino per la sua esiziale curiositas, che continua a guardare il mondo circostante con gli “occhi”, i sentimenti e i pensieri di un umano.
Torniamo a Ovidio, che nel primo libro delle Metamorfosi ci racconta di come Pirra e Deucalione, dopo il diluvio con il quale gli dei spazzarono via un’umanità empia e dimentica delle loro prerogative di déi, unici sopravvissuti, gettando alle loro spalle dei massi diedero vita a una nuova generazione di uomini. I sassi prendono a mutarsi in uomini e così racconta Ovidio (Met. I 407 ssg.): “Quella parte delle pietre che era terrosa e umile per qualche umore, si muta nella funzione di corpo; ciò che è solido, si muta in ossa, e ciò che già era vena, mantiene lo stesso nome”. Alcune “parti” dei sassi si sono sì trasformate, ma al contempo non sono mai sparite del tutto, continuano ad esistere e ciò che è appena nato (gli uomini) assomma inevitabilmente in sé due caratteristiche: quelle delle pietre da cui sono nati e quelle sortite dalla loro metamorfosi.
Ora se questa è la configurazione culturale all’interno della quale si muovevano i Romani, è molto complicato (per usare un eufemismo) interpretare la loro letteratura e il loro atteggiamento nei confronti della traduzione con le nostre categorie “etiche” di “fedeltà” e infedeltà. A qualsiasi studente liceale viene insegnato che Plauto e Terenzio “tradussero” le proprie commedie a partire da originali greci; senonché quando si affronta una lettura in parallelo dei pochi frustoli papiracei che ci hanno conservato scampoli degli originali greci e dei passi che di tali frammenti si vorrebbe fossero traduzioni, i poveri studenti sono quantomeno perplessi (e come dar loro torto!). Gli autori latini si abbandonano a interventi profondi sugli originali greci: non li “traducono” parola per parola, alla maniera in cui farebbe ad esempio un traduttore italiano a cui sia stata commissionata una traduzione da Shakespeare da una compagnia che la voglia mettere in scena. Gli autori latini cambiano spesso e volentieri i titoli dei loro modelli, i nomi dei protagonisti delle commedie, tagliano intere parti di testo per riformularle completamente, aggiungendo o togliendo caratterizzazioni a determinati personaggi; contaminano, cioè fondono intrecci di opere diverse…le polemiche letterarie tra i commediografi che ci sono rimaste (luoghi densissimi di polemica letteraria sono i prologhi terenziani) non recano traccia di accuse legate alla maggiore o minore “fedeltà” tenuta dall’autore nei confronti dell’originale, ma riguardano semmai considerazioni inerenti la struttura stessa della commedia oppure la liceità della “contaminazione”.
L’interpres dei romani invece, lungi dall’essere assimilabile totalmente al nostro “interprete”, è piuttosto una figura di “mediatore”, innanzitutto di mediatore economico, come conferma già la linguistica, che fa derivare la parola dalla stessa radice di pretium. L’interpres è colui che “sta in mezzo” (inter-) a due o più parti in causa alla ricerca di una mediazione che comporterà necessariamente la rinuncia a qualcosa, da parte di entrambe le parti, onde giungere a una soluzione che sia per entrambe soddisfacente. La natura “commerciale” dell’interpres emerge anche da un passo ciceroniano del De optimo genere oratorum che diverrà un punto di riferimento per la cultura occidentale in fatto di teoria della traduzione. Lo riporto qui sotto nella traduzione di Maurizio Bettini:
“Ho tradotto (converti) dagli oratori attici due nobilissime orazioni […] ma non le ho tradotte (converti) come un interprete (interpres), ma come un oratore (orator); con gli stessi pensieri e con le loro forme e figure, ma con parole adatte al nostro uso linguistico. Facendo questo non mi è sembrato necessario tradurre parola per parola, ma ho conservato la qualità di tutte le parole e il loro significato (non verbo pro verbo necesse habui reddere, sed genus omne verborum vimque servavi). Infatti non mi è parso che io dovessi contare al lettore le parole, ma piuttosto restituirgliene il peso (non enim ea me adnumerare lectori putavi oportere, sed tamquam adpendere).
Questo passo è scandito da lessico patentemente economico: aliquem pro aliquo reddere è formula comune per “dare qualcosa in cambio di altro”, mentre adnumero significa “pagare in contanti” e adpendo vuol dire “pesare di fronte a qualcuno”. Siamo arrivati all’ultimo snodo prima di tornare alla modernità. Orazio nell’Ars poetica (131 ssg.) riflette sulle strade che si aprono dinanzi al poeta drammatico: egli può affrontare temi nuovi oppure cimentarsi con la tradizione; in questo secondo caso, dovrà evitare, tra le altre cose, di comportarsi come “l’interprete fedele, che restituisce una parola per l’altra” (nec verbo verbum curabis reddere fidus / interpres […]). Di qui il passo alle “belle e infedeli” o “brutte e fedeli” è assai breve e infatti è stato compiuto con decisione nei secoli successivi. La prospettiva “etica” dei moderni ha dimenticato di guardare all’antichità con uno sguardo “emico”, cioè “interno” alla cultura osservata; in altre parole ci si è disfati inconsciamente di una prospettiva storica. Orazio, che peraltro si raccomanda di non comportarsi come il fidus interpres, ci dice prima di tutto che il fidus interpres è colui che “restituisce una parola per un’altra”; dopodiché va notato che fidus non significa “fedele al testo”, bensì “degno di fiducia” e quindi dopo quanto abbiamo detto finora, “degno di fiducia” da parte delle due parti in causa in una transazione di natura finanziaria. A fugare altre perplessità, basti dire che in latino il sintagma fidus interpres nel senso di interprete “fedele al testo” non compare mai. Siamo noi moderni che abbiamo sovrapposto la nostra prospettiva “etica” (fedele/infedele) a una prospettiva “emica”; La cultura romana, spero di essere stato convincente, dei nostri concetti di “traduzione letterale o libera, fedele o infedele”, se ne faceva decisamente poco.
Il medioevo, epoca così profondamente intrisa di Cristianesimo, ci riserva tuttavia qualche sorpresa. Qualcosa di simile anche se non paragonabile alla “traduzione letterale” (per semplificare: alla nostra traduzione “aderente all’originale”), nasce in prosa e in Francia alla fine del Duecento, con Jean De Meun traduttore di Vegezio (De re militari) prima e poi di Boezio (De Consolatione Philosophiae). Jean, nella prefazione al suo Boezio, dopo aver dichiarato d’essersi deciso a tradurlo su sollecitazione di Filippo il Bello, convinto dell’utilità del volgare onde conquistare un nuovo uditorio, non rinuncia a rivendicare per sé alcuni spazi d’intervento sull’originale, peraltro non troppo dissimili da quelli che il Boccaccio traduttore della Quarta Deca di Tito Livio rivendicherà per sé qualche decennio più tardi: egli si riserva il diritto di tagliare o aggiungere parole rispetto all’originale, preoccupato soprattutto di comunicare al lettore la sentence de l’aucteur, cioè il senso delle sue parole, piuttosto che la lettera.
Guardiamo però ora alla poesia, partendo da Dante, che per parte sua impiega una parola particolare e tutta sua (non sembra comparire altrove in questo significato) per indicare la traduzione, ovvero trasmutare. Questo verbo è il verbo del “cambiamento” nel corso dell’esistenza umana e più in genere del mondo; è il verbo di Fortuna che gioca con l’uomo e Dante lo impiega coerentemente alla sua visione teologica e teleologica: il passaggio da una lingua all’altra (giusta la tragedia babelica) è decadimento, scadimento che risale fino alla caduta di quel “primo padre” (Adamo) per cui anche il nome di Dio fu mutato (Folena). Una simile visione pessimistica influenza pesantemente anche il suo modo di intendere la traduzione poetica, infine recisamente e coerentemente esclusa dal poeta in Conv. I 7. Se la poesia è fictio rethorica musicaque poita [un’invenzione fatta di retorica e musica], dove fictio è la sententia già nominata più sopra, cioè il “senso”, traducibile universalmente, mentre la “musicalità”, l’ornato retorico dei versi, è intraducibile. Così Dante in Conv. I 7, 14: “E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza e armonia”. Per questo Omero, aggiunge sempre Dante, non “si mutò di greco in latino […]. E questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d’armonia; ché essi furono trasmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima trasmutazione tutta quella prima dolcezza venne meno”. Questo passaggio è ancora più significativo se pensiamo che gli esempi di Omero e dei Salmi vengono a Dante proprio da quel San Girolamo che, nel momento in cui raccomandava la “letteralità” nel tradurre la Bibbia, nella prefazione al Chronicon di Eusebio, indugia, adducendo l’esempio di Omero, proprio sull’impossibilità di conservare la gratia linguae traducendo Omero. Tradurre poesia significa scardinare la successione delle parole dell’originale, il che è una condanna all’insuccesso. Petrarca non mostra affatto timore riguardo alla traduzione. Questa questione non è affrontata dal poeta di Laura in maniera sistematica né con l’impegno intellettuale dispiegato da Dante. A tacere altre motivazioni, con Petrarca ci avviamo verso l’Umanesimo, età in cui si affermerà effettivamente l’idea che una “traduzione poetica” sia effettivamente possibile. Ci vorrà Leonardo Bruni, l’inventore del termine latino traducere nel senso che oggi noi attribuiamo a questa parola (ma questa è un’altra storia), con il suo trattatello De recta interpretatione (1420 ca.) per far diventare la traduzione un’operazione ermeneutica volta a restituire, anche nell’ornato retorico, il testo originale.
Il Rinascimento fu una rivoluzione anche in questo: l’acquisizione definitiva della coscienza di una profondità storica che separa i moderni dagli antichi, accompagnata da una profonda voglia di comprendere nella sua specificità l'”altro da sé” e di lasciarlo finalmente parlare “con la propria voce”, cioè cercare il più possibile di restituire il testo che si ha davanti sia nelle sue sententiae, sia nel suo ornato retorico. Se il Cristianesimo è indubbiamente responsabile del nostro atteggiamento nei confronti della traduzione, l’Umanesimo e il Rinascimento condividono con esso tale responsabilità.
Per chiudere: la traduzione non è stata sempre quella che noi moderni riteniamo e quando ci accostiamo a categorie quali la “traduzione letterale” o “non d’autore”, andrebbero forse prese con maggiore consapevolezza storica di quanto non si faccia solitamente.
Le traduzioni italiane dai testi classici sono prese da M. Bettini, Vertere. Un’antropologia della traduzione a Roma, Torino 2012.