SU(le mani)PER Szymborska

Szymborska 8 PoloniCult

Un convegno bolognese e nuove pubblicazioni a vent’anni dal Nobel a Wisława Szymborska

 

di Linda Del Sarto

 

Ad alcuni piace la poesia“, scriveva la nostra Wisława. “Ad alcuni-/cioè non a tutti./E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza“: come darle torto?
Sulla scia di questi versi, ahimè, così veri, verrebbe effettivamente da chiedersi: “La poesia, l’illustre arte della parola, dove si nasconde e che fine ha fatto?”

La poesia c’è, cari tutti; c’è, ma in pochi la leggono, perché fa paura. Relegata in un angolo da molti perché ritenuta oscura, difficile e elitaria, oggi viene spesso lasciata in secondo piano rispetto alla più fruibile prosa; “senza contare le scuole, dove è un obbligo“, citando ancora la nostra autrice, sono rari i casi di convegni o incontri poetici che non siano frequentati solo dai soliti professori e studiosi del mestiere.

Ma tranquilli, che un barlume di speranza c’è: in Italia, ad esempio, in maniera del tutto inaspettata, il “fenomeno Szymborska” ha svegliato da quel profondo stato di torpore ed insensibilità cui accennavo più di un cuore: come una ventata d’aria fresca agognata da tempo, questa gentile signora polacca ha ridestato per magia la curiosità di tutti, i più restii compresi.

Quale sia la ricetta del suo successo, non ci è dato di saperlo con certezza. Probabilmente proprio da questo grande interrogativo nasce la volontà di organizzare i tre giorni di festival dedicati alla sua figura: l’Istituto polacco di Roma, dopo aver gettato luce prima su Herbert nel 2008 a Siena e poi su Miłosz nel 2011 a Venezia, ha sentito la necessità di parlare anche di Szymborska, la quale prima del Nobel ricevuto nel ’96 era poco meno di una sconosciuta.

E’ stata Bologna, dal 12 al 14 maggio 2016, ad ospitare più che volentieri le numerose iniziative disseminate per il centro storico, prese d’assedio da folle di persone di ogni genere e età, senza contare ovviamente la presenza degli studenti e dei professori delle 13 polonistiche d’Italia, che formano una specie di “nucleo familiare” a se stante.E proprio questo era l’obiettivo: diffondere la poesia e l’originalità di Szymborska anche oltre le mura universitarie; dar vita ad uno “spazio” accessibile a tutti, semplici appassionati e non, per condividere insieme pareri, opinioni, ricerche e studi collezionati nel corso degli ultimi anni –e favorirne così la diffusione.

Szymborska

Sempre nel contesto del festival, una sorpresa non da meno è stata poi la pubblicazione di “Szymborska, la gioia di leggere a cura di Donatella Bremer e Giovanna Tomassucci, nientemeno che la prima raccolta di saggi uscita in Italia intorno alla poetessa.

Szymborska PoloniCultIl progetto del libro, nato dalla semplice constatazione che “in un Paese in cui molti scrivono poesie, ma pochissimi le leggono, Szymborska piace”, è  volto proprio a ricercare il motivo di tutto questo successo: non si capisce come “la sua opera poetica sia stata pubblicata non solo integralmente, ma addirittura con l’originale polacco a fronte”, riprendendo dall’intervento di Tomassucci; “Pietro Marchesani ha persino inserito testi ancora inediti in Polonia nella raccolta italiana delle sue opere”.
La professoressa procede poi richiamando l’attenzione sui meccanismi retorici alla base dei suoi componimenti (apparentemente) semplici; in particolare riferendosi a quelle “sagge tautologie” che a più riprese ne pervadono i versi. Hanna Arendt considerava la tautologia come pura “assenza di pensiero”; per Gertrude Stein, invece, la ripetizione avrebbe  “una forza straniante e seduttiva” tutta sua. In Szymborska essa si fa invece “portatrice di una valenza ossimorica”, racchiudendo in sé tanto l’”ovvio” quanto il “profondo.”
Tomassucci sottolinea quanto questo sia uno dei cardini più importanti della sua poetica: l‘ambivalenza, il gioco di un linguaggio che si avvicina quasi a quello pubblicitario, che crea legami tra i più vari aspetti della realtà, in linea con la poetica surrealista; una lingua che in Szymborska si fa cangiante e tende a divenire una sorta di “specchio del mondo”, attingendo con grazia da tutto ciò che ci circonda.

Un intervento altrettanto interessante è quello di Donatella Bremer. In questo caso l’approccio è di stampo più prettamente linguistico-onomastico e fa luce sulla passione della nostra poetessa per i nomi propri: è risaputo che, quando Wisława si trovava in viaggio, amava andare in cerca di cartelli stradali di località famose o buffe per qualche ragione. Ma l’attrazione e la curiosità per i nomi si nota vivamente anche solo dalla sua poesia; addirittura pare, secondo quanto traspare dall’analisi fatta da Bremer, che in essa i nomi facciano da veicolo per esprimere  riflessioni su cultura, scienze, storia (spesso anche per sfuggire alla censura): pensiamo a quell’ “Adolfino” ne “La prima fotografia di Hitler”, o al cozzare fra loro di “Natan”, “Davide”, “Isacco”, “Sara”  nel vagone della morte di “Ancora”.
Si ha insomma l’impressione che “quando fa riferimento a miti, archetipi,  testi classici, la poetessa proietti su personaggi o avvenimenti rappresentativi le problematiche entro cui  si dibatte la società in cui vive”.

La parola passa anche ai traduttori: non mancano gli interventi preziosi di Laura Novati e di un inedito Pietro Marchesani, dal discorso tenuto all’università di Siena nel 2007 riguardo alla traduzione della poesia: vi si spiega tutta la fatica del tradurre, tutto quel “combattere mentale” fra testo originale e scelta della resa nella lingua d’arrivo, ricorrendo anche alla metafora del traduttore come “traghettatore di parole” o come “colui che vive all’ombra del testo”. L’importanza dei suoni, della musicalità, della rima e (quando ci si riesce) del numero delle sillabe da rispettare, sono solo un assaggio delle problematiche affrontate qui dal celebre polonista.

C’è poi nel libro una sezione dedicata appositamente a conoscenti e veri amici di Wisława: fra queste pagine si ha la sensazione di stare a tu per tu con lei, talmente le loro parole sono sincere e affetuose nel dipingerla. Dalla Lipska che ci racconta le tragicomiche circostanze in cui sono nati i primi limericks, passando per un Mikołajewski che si diverte a ricordare quando Wisława perse l’adorato kapeluszek vicino al cratere dell’Etna, si arriva al segretario Rusinek e ad un ampio approfondimento sulla Fundacja Szymborskiej di Cracovia.

Nella parte scritta dai poeti, invece, spiccano le voci di Anna Maria Carpi, Alba Donati -una delle prime in assoluto a sostenere la Szymborska in Italia- e quella assai critica di Paolo Febbraro, che in generale ci parla di “buone idee” circa i conenuti delle poesie di Wisława, ma le definisce subito intrise di un “surrealismo raziocinante che ha terrore dell’aridità del già pensato”. Se negli schemi retorici della tautologia Tomassucci vedeva soltanto maestria nel creare più livelli d’interpretazione e ingegnosi circuiti di “doppio senso”, Febbraro scorge piuttosto arida ripetitività e va a finire che dopo un po’ si annoia.

Non posso certo mancare all’appello i saggi dei critici Berardinelli e Galaverni. Il primo ci rivela di essere sempre stato in attesa di Wisława, che sentiva “il bisogno di inventarla” già prima di sapere della sua esistenza; lei che “va a cercare, o trova subito, la singolarità” e che “oltre alla musica verbale, fa anche musica del pensiero” non ci può venire a noia: c’è il ritmo dialettico della scoperta e dell’indagine mentale, della meraviglia che ci circonda, che è qui ed ora, e lei ce la riporta agli occhi.
Galverni ugualmente la descrive così, in poche parole: “lucentezza, brillantezza, presenza di spirito, ilarità, smalto, benevolenza, complicità, comprensione” e non mancano alcuni punti di contatto che a parer suo l’assimilerebbero a Montale.

Il libro, insomma, è più che completo -è ricco, ricchissimo di spunti diversi: l’idea è proprio quella di fornire ai lettori szymborskiani un insieme saggistico tale da riuscire a completare il profilo dell’autrice, affiancandosi alle poesie e garantendo un approccio più profondamente critico.

La lettura è quindi fortemente consigliata; inutile a dirsi, l’importante è che rimanga nadobowiązkowa  (“facoltativa”), rivolta  a chi “sia così gentile da trovare tempo,/voglia e un po’ di silenzio” per darle un’umile occhiata.

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