Il brano che segue è tratto dal romanzo Pod słońcem di Julia Fiedorczuk (Wydawnictwo literackie, 2020). Tutti i diritti appartengono a Julia Fiedorczuk e a Wydawnictwo Literackie.
I diritti per la traduzione italiana sono liberi e gestiti in esclusiva da Nova Books Agency s.c.
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La traduzione dal polacco è di Francesco Annicchiarico.
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III
È tempo di raccogliere pietre
«Raccontami qualcosa, Daijan.»
«Va bene», rispose «Ascolta attentamente: tanto, tantissimo tempo fa, sul versante asiatico degli antichissimi monti Urali che si estendono per migliaia di chilometri, sorgeva un piccolo villaggio nel punto più a sud, su un fiume che a quell’epoca si chiamava Jaik. Tolte le stagioni delle piogge, quando le acque si accumulavano e provocavano alluvioni, lo Jaik era solo un fiumiciattolo. D’estate seccava quasi del tutto, d’inverno gelava. All’inizio, il villaggio era composto da poche persone appena. Tutto intorno si dispiegava la steppa, le immense distese dell’Asia centrale, piatte, poi ondulate dai rilievi, levigate da un vento ostinato che d’estate trasportava la polvere del deserto e d’inverno le tormente di neve. Gli uomini morivano, ne nascevano altri, stagione dopo stagione, secondo un ritmo immemorabile. I nomadi abbeveravano le proprie mandrie allo Jajk. I baschiri ci allevavano il bestiame. Mandrie di antilopi e asini brucavano intorno alle tende. Le montagne vicine custodivano il segreto del proprio principio. Mi stai ascoltando?»
«Certo!»
«Due fratelli, Ural-Batyr e Shulgan, si incamminarono a caccia della Morte. Ural desiderava sottrarle il mondo intero, Shulgan era invece alla ricerca di avventure. Prima di sconfiggere la Morte avrebbero dovuto trovare l’acqua, il simbolo della vita, che Kahkaha, re dei serpenti, teneva nascosta. Ogni avventura allontanava sempre più i due fratelli, uno in cerca di gioielli, l’altro del tesoro di parole. Lungo il cammino incontrarono moltissime creature misteriose. Infine trovarono Kahkaha. Nello scontro finale, Shulgan tradì suo fratello e per castigo il suo corpo venne tramutato in fango. Ural-Batyr sconfisse il nemico, ma invece di conquistare l’acqua della vittoria, morì. Dal sepolcro dell’eroe crebbero queste montagne di roccia…»
Daijan smise di parlare per rullarsi una sigaretta di trinciato. Riprese il racconto fumando:
«Due grandi montagne si elevavano ad est del villaggio. Erano lisce e spoglie, niente di speciale. Gli abitanti del villaggio gli diedero dei nomi: Eye-Derlui e Atach. La vita di quegli uomini si svolgeva sulla collina, dove pascolavano i loro animali durante i brevi e roventi mesi estivi, sotto un cielo grigiastro, come ricoperto di fumo. In qualche occasione speciale, quando non tirava vento, la steppa si trasformava in un incanto di fenomeni straordinari. I miraggi provocati da quella luce assumevano le forme di sgargianti carovane, alberi immensi, costruzioni affusolate o semplicemente le sembianze di ciò che un uomo desiderava vedere, ammesso che sia vero che chi guarda crea ciò che vede. Tu credi che sia così?»
«Io so che è così.»
«Chi lo sa se quel gioco di polvere, luce e steppa non predetto a qualcuno anche quel che stava per succedere. Quel che stava per succedere, lo sai anche tu», tirò forte dalla sigaretta «Le ricchezze attirarono avventurieri, cercatori d’oro e di tesori. Col passare del tempo, arrivarono sempre più russi dal cuore dell’impero. Provarono a esigere dai baschiri le tasse per lo zar, con alterna fortuna. A volte se ne tornavano a casa soddisfatti, altre invece non tornavano affatto. Un giorno, uno di essi, avvicinandosi alle due montagne che svettavano sul villaggio, si accorse che la bussola segnava qualcosa di strano. Forse non era un caso che quelle montagne fossero una accanto all’altra. Fu grazie a questa scoperta che al sedimento venne dato un nome russo: Magnitaja.
«Magnitaja.»
«Così tutto ebbe inizio. Poco dopo cominciarono con l’estrazione dei minerali di ferro. Le due montagne aprirono agli uomini le proprie interiora. Per centocinquant’anni le estrazioni in miniera si basavano sulla forza degli uomini e degli animali. E così ci riuscirono. I nomadi e i baschiri ora avevano un impiego. Il villaggio si espanse e la ricchezza degli Urali era inesauribile. Si diceva: “Gli Urali sono un sacco in cui c’è tutto in quantità”. Montagne di roccia, fiumi che elargivano oro, pietre preziose, orsi, lupi, volpi e cervi, aquile e fagiani, tutto questo conviveva col sogno degli uomini…»
«Fino a un certo punto.»
«Fino a un certo punto, quando a Magnitnaja fece capolino la storia. Rivoluzione e guerra civile non risparmiarono questo luogo… La gente perse le proprie case e il bestiame. La miniera si fermò.»
«E regnò la fame, avversaria di ogni despota…»
«Questa storia la sai già.»
«Non fa niente. Raccontamela ancora.»
Misha aprì gli occhi, ma tutto intorno era ancora buio, e allora li chiuse di nuovo. Accanto a lui dormiva sua madre, dall’altra parte sua sorella, connesse da un tunnel di sonno proveniente dai meandri del buio. A un livello meno profondo, Misha percepiva il loro respiro regolare, placido, e il caldo che i loro corpi sprigionavano per il sonno. Lì c’era tutto ciò che gli serviva. Non desiderava altro, nient’altro. Quello era uno degli ultimi momenti di paradiso, ma lui non poteva saperlo allora. Impigrito dal sonno, il mondo volgeva inevitabilmente all’alba, ma la cosa non pareva riguardare quei tre corpi. Lui si addormentò, senza sapere quando.
Piotr disse al proprio cuore: “Solo gli stupidi se ne vanno in giro per il mondo invece di prendersi cura della casa e della terra, lo stupido abbandona moglie, figlia e figlioletto, e il cavallo, e la vacca e il bosco per andar dietro al vento, a qualche terra promessa, a un mondo nuovo e giusto. Stupido, stupido, stupido”, questo rimproverò alla propria anima. “Non c’è paradiso in terra”, le spiegò docilmente.
Invece il cuore, come per dispetto, cominciò a sussurrare dolci pensieri dei frutti del lavoro dell’uomo, visioni di borghi lontani, immersi nel verde, in cui le persone riposano dopo una giornata di lavoro trascorsa in fabbriche moderne, dove le macchine compiono gli sforzi maggiori, liberando gli uomini dal giogo che spezza la schiena, e grazie a queste, oltre che riposare, si sarebbero occupati di modellare il proprio pensiero, leggere, assorbire luce e sapienza, consumare il prodotto della creazione di artisti e letterati, cominciare a comprendere il mondo e lentamente, lentamente, ma con le proprie forze operaie, rurali, si sarebbero riscattati dalle tenebre della propria schiavitù.
Ma ecco la memoria porgli l’amara beffa celata dai ricordi: trincee collose di limaccia rivierasca e in quelle trincee uomini come composti di fango, affamati e sfiniti e cavalli sfibrati a trascinare carrelli di minerali delle montagne, cavalli stremati invece di locomotive che non c’erano e che invece avrebbero dovuto esserci, e quella parlata russa, forestiera ma ormai consueta, che suonava proveniente non da una mente o da un cuore, ma da un sogno infinito e spaventoso ancora non realizzato e che aveva già assunto la forma di un corpo che ribolle per il sangue versato da uomini e animali. Già si stagliava all’orizzonte, agli occhi di chi sapeva guardare.
Piotr quasi non sentiva più il freddo, la fame né la stanchezza, avanzava meccanicamente, come caricato a molla. I giorni trascorsi in viaggio si fusero in un unico flusso di tempo, non sarebbe stato in grado di dire quanti ne fossero trascorsi, quasi una vera eternità. Svanì persino il dolore dai piedi indolenziti, congelati, solo le allucinazioni restarono a tormentarlo, una fusione di fantasie e ricordi di quel che avrebbe voluto vedere e di quel che gli era mostrato, e anche di quel che da solo gli saltava agli occhi. Dal buio che aveva intorno alcune figure prendevano forma, immaginarie, ma in carne ed ossa: un esercito di potenti demoni. Le respinse, ma queste erano troppo tenaci e quando Piotr smise per un solo secondo di proteggersi il cuore, assunsero ai suoi occhi le sembianze di scene celestiali: campi dorati di segale coltivati con lo sforzo collettivo dei kolchoz, donne sorridenti in abiti semplici e dignitosi, che preparavano il pane per le squadriglie di guerrieri pronti ad assicurare un futuro prospero. Perché loro erano guerrieri, anche Piotr lo era, in lotta in una grande battaglia di giustizia. “Daijan?”, chiamò all’improvviso quando ebbe l’impressione che il compagno stesse camminando accanto a lui, giusto un attimo prima. Tutto era battaglia: tagliare gli alberi della taiga, costruire le fabbriche, sottrarre le ricchezze alla terra, l’oro e le pietre colorate, falciare il grano e persino cuocere il pane. Era una guerra giusta. La guerra dei poveri. Quando finisce il vero e comincia il sogno?, si chiedeva Piotr, ma senza trovare risposte. Non c’è guerra senza vittime, questo gli avevano sempre detto, non c’è guerra senza patate marce e pesce salato che dà sete per ore e ore. Non c’è guerra senza fame. Non c’è guerra senza cadaveri e carcasse di animali. Dov’è che comincia il cielo e finisce l’inferno? Non c’è verso di separarli, non a questo mondo, non nel cuore dell’uomo in cui tutto è mescolato, come la forma esatta di un desiderio e la sua distorta realizzazione, come il terrore negli occhi di un cavallo che spira e il sollievo di un uomo che sarebbe potuto essere al posto della bestia, ma non è così, non ancora.
Tre, forse quattro ore di cammino lo separavano ancora da casa sua. Un niente, una sciocchezza, rispetto al pezzo di strada che si era lasciato dietro. Tre, forse quattro ore e avrebbe rivisto sua moglie, sua figlia e il suo figlioletto. Se lo ripeteva in continuazione. Resistere ancora un po’ e poi avrebbe potuto riposare. Ma questo era un pensiero pericoloso, perché l’avrebbe indotto a realizzarlo subito, all’istante. Stendersi su una spessa coltre di neve, morbida come una trapunta, chiudere gli occhi. Solo per qualche minuto. Smetterla di respirare per qualche minuto. Lo desiderava talmente, che a momenti il solo peso di questa fantasia diventava peggiore del peso della strada da compiere, ma Piotr sapeva che sarebbe stato sconfitto, se se lo fosse concesso. Lui non temeva la morte, non più ormai, temeva solo che quell’immane sacrificio andasse sprecato. Misurò il pezzo di mondo percorso, a piedi, in treno, negli scomparti per i bagagli, nei vagoni merci. Nascosto nei boschi, attraverso fiumi, la lotta coi demoni della fatica e della febbre, stringendo al petto l’incartamento coi timbri che gli avrebbero permesso di superare il confine. Non perse mai la speranza che fosse possibile. Che si poteva tornare. Riuscì a trovare chi gli concesse un pezzo di pane, delle pezze da piedi, un angolino per riposare, da entrambi i lati del confine. Sarebbe già morto, se non fosse stato per loro. E siccome non era morto, ora bisognava vivere. Ancora due, forse tre ore e avrebbe potuto dire: “Sono tornato”. Avrebbe potuto dire: “Ce l’ho fatta”. Ancora un passo. Ancora un’altra boccata di questo gelido vento. E poi un’altra. E un’altra.
Il ragazzo si voltò dall’altro lato, stendendo il braccio sul viso di sua madre e lo spirito della madre emerse sulla superficie del sonno, tanto vicina al giorno quanto ci si poteva riuscire senza svegliarsi.
Stelle biancastre illuminavano il tragitto, quasi era possibile percepire il loro riverbero vetroso, come di cristalli calpestati.
«Non avrai mica paura del gelo?» gli aveva chiesto Józek passandogli quelle riviste che promettevano il paradiso.
«Certo che no», aveva rimbeccato, stizzito.
Quale uomo avrebbe mai paura del gelo? Era successo due anni prima. Lui non si fidava di quel tipo, Józek, eppure aveva letto anche lui quelle riviste e ci aveva rimuginato a lungo su quel che c’era scritto.
All’inizio, nessuno si fidava di Józek, perché era impossibile capire di che razza fosse, operaio o padrone, forse un intellettuale. Si vestiva per bene, ma non da ricco. Parlava in polacco, non come quelli di qui, ma criticava il governo polacco. Usava espressioni eleganti, ma anche comuni, ché poi arrivavano alla gente semplice. Piotr alla fine si era messo ad ascoltarlo, e quando Józek se ne era accorto, era un tipo furbo, non lo aveva più mollato. Raccontava la bellezza degli Urali, le sue ricchezze inesauribili che attendevano solo di essere colte dagli uomini. Del lavoro in abbondanza per chiunque, nei boschi, nelle costruzioni, nella moderna fonderia. Diceva che ogni paio di braccia era indispensabile. Carpentieri, taglialegna, muratori. E saldatori, e architetti. Persino chi non sapeva fare niente andava bene, se soltanto avesse dimostrato voglia di lavorare. Józek raccontava che gli architetti che venivano dall’America erano pagati in oro puro. E forse col tempo anche gli altri sarebbero stati pagati così. Spiegava che i Soviet erano un paese per gli uomini, costruito dagli uomini. Dove non c’erano padroni che derubavano i propri operai, e il pane bastava per tutti. Di cos’altro si aveva bisogno?
«Ma è tutto vero?» aveva chiesto Piotr un giorno. «Quel che dicono i giornali.»
«Ti dirò tutta la verità», aveva risposto Józek infervorato. «Non c’è ancora ricchezza. E come potrebbe essere diversamente? Ci vuole tempo per questo. Nessuno ti dirà che può succedere subito, perché sarebbe una bugia. Ma accadrà. Accadrà. Tutto questo accadrà. Per il momento, la vita lì è semplice, e il lavoro è duro. Mica hai paura del lavoro, tu? Tra qualche anno, tutti avranno una casa in muratura, la corrente e la macchina. Già ci sono i vasi coi fiori nelle fabbriche. Hai mai visto una palma? Rendono più piacevole il lavoro. Rinfrescano l’aria. Ci sono quartieri pieni di verde che si costruiscono intono alle fabbriche. Ognuno avrà una casa di muratura uguale agli altri. Tutti avranno una mensa, una biblioteca. Un asilo per i bambini. Non ci saranno regge lì, a chi servono le regge…»
«E la gente ci va?» aveva richiesto Piotr per conferma.
«Certo, che sì. Dall’est, vicino il confine, si stanno muovendo intere praterie di russi.»
«Per i russi è come andare dall’altra parte di casa propria.»
«E tu che saresti, un cattolico?»
«Io sono di qui, né questo né quello.»
«Meglio così», si era rallegrato Józek. «Sarai ancora più adatto al posto. Lì nei Soviet fa lo stesso, che tu sia polacco, russo, ebreo o ucraino. Una volta passato il confine, sei uno dei loro.»
A tratti Piotr pensava di riconoscere i dintorni, quasi si stagliava la cupola di una chiesa e da lì poi ci avrebbe messo poco, proprio un altro paio di passi lungo il ruscello, ora di certo ghiacciato, eppure no, la chiesa sparì e la notte l’attanagliava tutto intorno. “Daijan?” chiamò ancora. Forse lui avrebbe saputo quanto ancora mancava per arrivare a casa. Daijan, che aveva la strada nel sangue, che non ce la faceva a star fermo. Daijan cantastorie che ricordava i dettagli di qualsiasi racconto, che snocciolava miti sulla steppa lontana, sui monti Kalba e Tarbagatai, e sul treno Krasnyj Vostok in cui si proiettavano pellicole per far comprendere ai nomadi kazaki cos’era lo sfruttamento e cosa la rivoluzione…
«La mia famiglia proveniva da uno juz centrale, del clan Karakerej», gli aveva raccontato in una notte d’inverno. «Abitavamo all’est, vicino al confine con la Cina. Il mio bisnonno era un chiromante. Possedevamo una grande mandria di cavalli e bestiame, e i nostri cavalli erano i migliori del mondo. I miei nonni avevano studiato il Corano con i tatari. Non ci mancavano i prati e l’erba. I poeti declamavano vecchie canzoni, l’inverno seguiva l’estate, e l’estate l’inverno…»
Daijan raccontava e a Piotr tutto si parava immediatamente davanti agli occhi. L’interno fumoso della baracca spariva, spariva la coperta miserabile in cui si stringeva per sopravvivere alla notte e si spalancava il cielo immenso e su di esso galoppavano i cavalli più incredibili al mondo. La steppa fioriva a volte, fiori bianchi e azzurri la ricoprivano, e allora prendeva l’aspetto di un tappeto sconfinato. Quando ne aveva voglia, Daijan si metteva a cantare. Cantava a fil di voce, tra sé e sé, Piotr non distingueva le parole, tanto non gli serviva. Si aggrappava a quelle melodie sussurrate di Daijan, in esse trovava conforto.
«Andò proprio così per molti anni», continuava Daijan «Finché poi arrivò la guerra.»
«La guerra. Sempre la guerra», rimbeccò Piotr.
«Era una guerra estranea, dello zar, una guerra imperialistica. Capisci? Lo zar ci stava mandando a scavare trincee. Furono in molti tra i nostri a scapparsene in Cina. Nessuno aveva voglia di versare sangue per la causa dello zar. Ma in Cina patirono la povertà. Ed erano stranieri, odiati. Molti morirono. Alcuni tornarono, ma senza più niente. Quando arrivarono i sovietici, per prima cosa si misero a parlare di quella guerra che nessuno avrebbe mai dimenticato. Che una volta vinta, e sistemato tutto come volevano loro, la pace avrebbe trionfato per sempre.
“Józek parla uguale a lui”, ricordò Piotr. “L’impero ha bisogno della guerra”, chiarì “L’impero vive di guerra”. Tanto si esaltò che batté i pugni sul tavolo. “Voi, gente comune, siete carne da cannone per l’impero, lotteranno fra di loro usando il vostro sangue e i vostri figli. Le guerre finiranno soltanto quando scompariranno i confini tra i paesi. E non esisteranno più russi, polacchi, tedeschi o ebrei. Ci saranno solo gli uomini.”
E fu così che Piotr trovò un lavoro sugli Urali.
Daijan proseguì:
«I poveri gli diedero retta. Quelli che non potevano nemmeno prendere moglie, perché bisognava pagare per una fidanzata, e loro non avevano niente. E pure le donne gli diedero retta! Immagina un po’: la seconda moglie di un qualche vecchio miserabile del clan, che all’improvviso se ne può scappare con un sovietico giovane e aitante. Ovvio che scapparono. Ti stupisce, per caso?»
No, Piotr davvero non era stupito.
«I vecchi temevano che i sovietici li battezzassero a forza.» Daijan scoppiò a ridere ricordandosene.
«Ma invece…»
«Si capisce. È andata com’è andata. Si vede che era così che doveva andare. Requisirono le mandrie, gli uomini cominciarono a morire di fame. Non è affatto piacevole vedere la morte per fame. E prima che un uomo muoia, prova a salvarsi. E anche questo non è piacevole da vedere, non c’è bisogno che ti dica, perché l’hai visto coi tuoi occhi. Ma se si aveva qualcuno in Unione Sovietica, allora si poteva farcela. Ti trovavano un lavoro. e un’istruzione. Se non fosse stato per i sovietici, io sarei rimasto a vivere nella steppa, senza sapere scrivere o leggere. E invece? Eccomi qui a raccontarti queste storie…»
Piotr si aggrappava alla voce di Daijan come qualcuno all’orlo aguzzo di un precipizio. Ancora un altro passo. Ancora una boccata di quest’aria gelida. Ancora uno. E ancora.
Cominciò a essere primavera quando decise di mettersi in viaggio. Józek era sparito: forse si era detto che aveva convinto chi c’era da convincere. Sentiva che i contadini lo odiavano. Già una volta era finito in prigione per il comunismo, e non sarebbe accaduto ancora. A Piotr lasciò l’opuscolo, una pacca sulla spalla e gli disse: “Non te ne pentirai”.
Un giorno, Piotr si era recato alla locanda del villaggio. Lì aveva incontrato Zundl. Zundl più di una volta aveva assistito ai sermoni di Józek, al tempo in cui questi era ancora nei paraggi, ma di suo non parlava mai. Ora invece aveva attaccato:
«Ho sentito di certi ebrei di Brest che sono stati convinti ad andarsene nei Soviet. Hanno dato dei soldi a certi malandrini per farsi accompagnare attraverso il confine. Per passare quel filo spinato di cui è pieno quel paese. Ma le guide li hanno portati nelle paludi e li hanno ammazzati. Gli hanno rubato i cappotti, le scarpe.»
«Buoni e cattivi ce n’è ovunque», aveva tagliato corto Piotr.
«Dicono che lì mangino la carne umana, tanta la fame.»
«Per parlare si può dire di tutto.»
Perché quando Piotr stabiliva qualcosa, era questo e basta.
La neve si era sciolta e l’acqua scorreva nel ruscello, il ghiaccio galleggiava. Gli anatroccoli erano apparsi sulle sponde, il fango nei cortili. I prati avevano cominciato ad inverdirsi, qualsiasi cosa avesse una vita era sbucato dalla propria tana. Sarebbe stato quello il tempo di tornare al campo. Tutto quel lavoro e lui che proprio allora aveva deciso di andarsene, di dire addio a sua moglie, a sua figlia e al figlioletto. Li avrebbe portati con sé prima dell’arrivo dell’inverno, una volta sistemato in quel mondo nuovo e giusto. Aveva detto a sua moglie di non preoccuparsi di nulla. Le aveva ordinato di non fare scorte. Lei non aveva risposto niente. “Ti porterò lì in macchina”, le aveva promesso. Lei non aveva risposto. “Non sentirai mai più la fame”. Non gli credeva, ma gli aveva detto di andare. Lui aveva preso le carte importanti con sé, aveva comprato il biglietto per il treno. Aveva fatto un fagotto con le sue cose.
Aveva detto addio rapidamente ai suoi figli. Il più piccolo da poco aveva cominciato a camminare e non parlava quasi per niente, a parte qualcosa nella lingua del posto. Sarebbe cresciuto in quel mondo nuovo, avrebbe parlato in russo. Avrebbe mai ricordato qualcosa di questa casa? La terra, la baita, il melo? Certo, era dura andarsene via. Aveva abbracciato stretto sua figlia, stupito che già stava diventando una signorina. Si era immerso negli occhi grigi di sua moglie, sempre un po’ socchiusi. “Avrai pantofole ai piedi”, le aveva promesso. Lei non aveva risposto niente.
Era dura lasciare la famiglia. Nonostante tutto, prese la strada sicuro delle proprie convinzioni e in un certo senso felice: di quella felicità dell’uomo convinto che, in breve tempo, avrebbe cambiato il proprio destino, avrebbe raccolto la propria porzione di paga per il sacrificio quotidiano, l’appartenenza a questa vita sotto il sole. E non si trattava soltanto di quel pane, quella casa in muratura, l’elettricità e le palme in fabbrica. Ora era questione di prendere in mano la propria vita.
Raggiunse Czeremcha col treno locale da Drohiczyn, poi da lì per Baranowicz, e da Baranowicz a Brest. I campi marroni si succedevano lentamente oltre il finestrino, poi sempre più veloci. Nelle campagne che oltrepassava la vita si svolgeva come sempre. Le persone nei campi erano piccole come formiche. Piotr aveva voglia di dire a ognuna di quelle formiche: “Prendi in mano il tuo destino, perché adesso puoi ancora farlo”.
Da Brest in poi il panorama si fece più deserto, capanne ancora più misere sparse alla rinfusa. Svanì la prima eccitazione, il viaggio cominciava ad allungarsi, si appisolò. A Stołpce restarono fermi un paio d’ore per i controlli. Quelle attese furono molte. E alla fine il treno lentamente attraversò i cancelli decorati a stendardi rossi, simili a quelli che si preparavano per i vescovi cattolici in visita alle campagne. “La rivoluzione cancellerà ogni confine”, questo c’era scritto sugli stendardi; e ancora: “Salutiamo la classe operaia d’Occidente”. Piotr si sentì commosso.
Apparvero i primi paesini. Piotr paragonò ciò che vedeva con quel che gli avevano raccontato, vide le case in muratura, alcune a più piani, le alte ciminiere delle fabbriche, qualche stabilimento e si chiese come sarebbe stato quando sua moglie, tra qualche mese, avesse compiuto lo stesso identico tragitto; sarebbe piaciuto anche ai bambini? In questo paese le distanze erano enormi, il ritmo del treno era costante e penetrava profondamente nel corpo, le ore si sommavano l’una all’altra, e così pure i giorni. Piotr si addormentava e si risvegliava e per la maggior parte del tempo era come in bilico tra la soglia del sonno e della veglia, immerso nelle proprie visioni del futuro. Le persone salivano e scendevano dal treno. Un gruppo di lavoratori dei kolchoz era diretto alla taiga a tagliare alberi, proprio come lui, portavano dell’uva passa che poi offrirono anche a lui. Parlavano male in russo, chiacchieravano tra di loro nella propria lingua. Passarono Mosca, ma in lontananza, si vedeva l’aura delle luci nel cielo di notte. Poi, ancora qualche altra località di cui nessuno aveva sentito parlare, poi il Volga e il lento giungere in un altro mondo, straniero. Poi, finalmente, gli Urali. Proveniente dalle piene dei fiumi primaverili, il treno finì tra le montagne rocciose. Impossibile scorgere le vette dai vagoni, ma proprio oltre i finestrini scorrevano le pareti massicce. E subito il treno infilò la collina tra i rilievi più dolci, irti di boschi. Quale splendore! Un tappeto di prati si stendeva per chilometri. I fiumi scorrevano dalle colline, i laghi splendevano come brillanti, uno dopo l’altro.
«Daijan?»
Quasi un anno dopo. Piotr aveva già alle spalle un’intera estate nella taiga, faticato ben oltre le umane possibilità, dall’alba a notte fonda, al taglio degli alberi, aveva alle spalle il dolore a tutto il corpo, la fatica e la fame, e le zanzare, di cui si diceva che fossero più terribili degli orsi, e in effetti lo erano. Aveva già provato il sonno su pagliai zeppi di vermi in baracche stracolme di gente e la fuga degli uomini, e la paura. Paura che condivideva, perché nessuno si fidava degli altri. In autunno lo mandarono a sud, lo caricarono su un vagone bestiame e lo portarono, insieme ad altri, dove le braccia da lavoro erano più urgentemente necessarie, perché c’era da costruire altre fabbriche e una città attorno alla più grande fonderia del mondo. Gli fu ordinato di costruire i ponteggi, e lui lo fece. Attendeva ancora, ci voleva ancora credere che il sogno stesse per realizzarsi, che avrebbe vinto la sua ricompensa sotto il sole striato di vapori della steppa. Ancora scriveva a casa sua, che a volte era dura, che costruire il mondo nuovo richiedeva più tempo del previsto, ma che si poteva fare, certamente si poteva fare.
«Daijan?»
Ora aveva l’inverno sugli Urali alle spalle. Alzarsi col buio sul ghiaccio scricchiolante, senza luce perché mancavano le lampadine. Fumare tabacco arrotolato in fogli di giornale, quando non c’era niente da mangiare. Lavorare sospesi col vento ghiacciato, uomini che si congelavano di tanto in tanto e congelati finivano al suolo, in un tonfo sordo. E altri che non si fermavano neanche un momento, perché la morte diventò qualcosa del tutto usuale, cosa che provò a spiegare, in qualche modo, nelle lettere che mandava in Polonia, e che sua moglie capì alla perfezione, perché in tutta risposta gli scrisse che un certo dottore di Siematycze avrebbe preparato gli incartamenti che servivano.
Un giorno, Piotr stava andando a dormire dopo il lavoro, faceva già scuro, girò tra due file di baracche e arrivò in un posto in cui all’improvviso vide gente sconosciuta e si rese conto di essersi sbagliato. Tutto, intorno a lui, aveva il medesimo aspetto. Quegli spettri emersi dalle tenebre si trascinavano silenziosi accanto a lui, che era preso dal terrore e da una nostalgia di casa così forte che quasi non riusciva più a respirare. Girava in tondo, senza sapere da che parte andare.
Ma poi la sua bussola interna, che ci conduce sempre dove siamo diretti, ritrovò il nord e Piotr ritrovò la sua baracca. Già aspettava non più la sua ricompensa, ma la lettera dalla Polonia, con l’incartamento del dottore che diceva come sua moglie fosse gravemente malata e non c’era nessuno che potesse occuparsi dei figli, quindi lui, Piotr, sarebbe dovuto rientrare ad ogni costo. Fu di nuovo estate e molti uomini sparirono, e chi restò conservò con uno sforzo micidiale l’illusione di un mondo migliore, più giusto. Dicevano: “I nostri figli saranno orgogliosi di noi…”.
«Daijan, non ti viene ogni tanto la nostalgia di com’era prima?»
«No», rispose.
Proprio quel giorno cadde una putrella su uno degli operai e lo uccise sul posto. Quello pareva quasi averlo chiesto, restò immobile ad aspettare che cadesse, era qualcosa che capitava spesso, perché i giovani non erano capaci di fare attenzione, poco abituati a lavori come questo. Stava appunto sghignazzando per qualcosa che qualcuno aveva detto, e proprio all’improvviso cadde quella putrella, centrandolo in testa. Il riso si spense, ma prima che quell’uomo finisse sul suolo fece una smorfia come di grande stupore. Fu così comico che scoppiarono tutti a ridere, quando finì a terra, e persino quando era già stramazzato in una pozza di sangue. Che vuoi farci. Sempre si muore e sempre si morirà.
«La nostalgia non porta niente di buono», disse Daijan all’improvviso, ma Piotr dormiva già.
Finalmente giunse la lettera dalla Polonia. La lettera con l’incartamento. Nadzieja non aveva scritto molto, giusto che erano tutti vivi e avevano di che nutrirsi. Fino a quel momento, lui era riuscito a sopportare di tutto, stanchezza e fame, delusione e solitudine, ma stringendo in mano quel documento col suo nome, che aveva fatto tutta quella strada, sentì che la corazza costruita per sopravvivere, in cui si nascose da tutto quel che non poteva concedersi, cominciò a scricchiolare. Dato che quel pezzo di carta poteva superare la strada che lo separava da casa, attraversare il Volga e gli Urali, dato che l’aveva ricevuto in quel formicaio umano, voleva dire che lui, Piotr, alla fine esisteva ancora, che non si era fuso nella massa di corpi umani che scavano tunnel e che anche l’altro mondo esisteva ancora, e lì i suoi cari: sua moglie, sua figlia e il suo figlioletto. Dato che la lista ce l’aveva fatta, avrebbe potuto farcela anche lui?
Tutto dipendeva dalla persona nelle cui mani finiva il suo caso, dal suo umore, dalle sue parole. L’avrebbero lasciato andare, partire o l’avrebbero trattato come elemento sospetto e nemico della rivoluzione? Nel primo caso, avrebbe avuto la possibilità di tornare e cominciare tutto d’accapo. Nel secondo caso, avrebbe trovato la morte. Si disse che, comunque fosse andata, il suo tempo lì a Magnitnaja era ormai volto al termine. Non avrebbe passato un altro inverno sugli Urali.
Quel giorno lavorò meglio che poté, anche se il suo cuore era altrove, nel futuro, e perciò aveva la sensazione di essere all’esterno del proprio corpo e di guardarsi mettersi al lavoro. Le mani gonfie, distrutte, conoscevano bene il mestiere. Qualunque cosa ci fosse da fare col legno, loro lo facevano. Lui le osservò come se non fossero più sue, come se avessero vita propria. Il giorno si allungava impietosamente, come sempre quando un uomo attende qualcosa, buona o cattiva che sia.
La sera, dopo il lavoro, andò dal capo squadra. Le sue mani ancora vivevano di vita autonoma. Porsero l’incartamento al capo squadra. Il capo squadra le osservò, lesse. Disse che non sapeva bene cosa fare. Ma prese le carte e gli promise di mostrarle a chi di dovere. Piotr quella notte non riuscì ad addormentarsi. Si girava da un lato all’altro, ma il sonno non arrivava.
«Vuoi fumare?» chiese poi Daijan.
«Va bene.»
Fumarono insieme per un pezzo, in silenzio, finché poi Daijan cominciò a parlare. Piotr non seguì il racconto, si aggrappò solo alla voce, e gli bastò. Ma poi su richiesta di Daijan anche lui si mise a raccontare di persone, dei suoi cari. Così, riscaldandosi con quei racconti, resistettero fino al mattino.
Il giorno successivo non accadde niente. Al mattino si diffuse il fischio, si alzarono, rullarono del tabacco, tutto come sempre. Si recarono al lavoro. Piotr non sentiva stanchezza, solo torpore. Il tempo si trascinava lentissimo. Due giorni più tardi gli parve che quell’attesa non avrebbe mai avuto fine. Che non avrebbe mai avuto risposta, né buona né cattiva. Lanciò un’occhiata furtiva al capo squadra, nel tentativo di scorgere qualcosa nel suo volto, ma non c’era niente da leggere in quella faccia.
Al quarto giorno, di mattina, degli uomini vennero a cercare Daijan. Qualcuno lo aveva accusato di aver rubato della legna, questo fu tutto quel che Piotr riuscì a sapere. La pena era di essere mandati a un campo di lavoro lontano, a nord, in un gulag. Lì Daijan avrebbe avuto un’altra possibilità. La rivoluzione era clemente. Avrebbe potuto lavorare per ripagare il danno prodotto, dietro il filo spinato prodotto con l’acciaio di Magnitnaja. Non ci fu tempo per dirsi addio.
Quello stesso giorno, il capo squadra disse a Piotr che poteva andarsene. Giusto così, senza spiegazioni. “Puoi andare”, disse. “Vai”, gli ripeté spazientendosi, restituendogli gli incartamenti. Piotr si mosse come un robot. Alla sua baracca trovò già i nuovi che aspettavano, i prossimi in fila per il paradiso. Piotr infilò le carte sotto la camicia e si mise in cammino. Prese qualche straccio dalla baracca, e scoprì una sorpresa: qualcuno aveva messo un piccolo involto sotto il suo pagliericcio. Lo strinse a lungo, poi decise di guardare cosa c’era dentro. Avvolta in un pezzo di cotone, c’era una pietra: verde, azzurra e grigio dorata, le macchie colorate stagliate dal fondo grigio. La strinse così forte da farsi male.
Se ne andò così com’era arrivato. Senza biglietto del treno, quasi senza un soldo. Camminò per due giorni prima di arrivare ai binari, nei dintorni di Zlatoust. Non fece pause, non si guardò indietro per paura che avrebbero potuto seguirlo, sottrargli il permesso, riportarlo alla baracca. A Zlatoust, con tutti i rubli risparmiati, riuscì a corrompere il capotreno per salire sul vagone merci. Attraversò tutti gli Urali su un monticciolo di carbonella. Per la seconda e ultima volta si godette la vista di quelle montagne: cime aguzze, boschi immacolati, catene montuose emerse dal suolo migliaia di anni fa, estese per centinaia di chilometri, selvagge e potenti. Le betulle, su cui pendevano ancora le ultime foglie gialle, brillavano a tratti ancora al sole d’autunno, come cosparse di polvere d’oro. Si incantò a fissare il panorama in movimento, come se fosse uno di quei film proiettati a Krasny Wostok. A tratti gli sembrava di vedere frammenti violacei di ametista, tra le rocce, topazi azzurrini, alessandriti verdastre, serpentini rossastre, rodoniti rosa.