Sotto il sole – Julia Fiedorczuk #1

Il brano che segue è tratto dal romanzo Pod słońcem di Julia Fiedorczuk (Wydawnictwo literackie, 2020). Tutti i diritti appartengono a Julia Fiedorczuk e a Wydawnictwo Literackie.
I diritti per la traduzione italiana sono liberi e gestiti in esclusiva da Nova Books Agency s.c.
Per informazioni: agent@novabooksagency.com 
La traduzione dal polacco è di Francesco Annicchiarico.

 

Julia Fiedorczuk

I

E il sole sorge di nuovo

Quando riprese conoscenza, la luce porpora illuminava la stanza attraverso le finestre dischiuse. Capì subito che era sera, più che mattina, e che fuori cominciava ad annuvolarsi. Se ne rese conto prima ancora di ricordarsi dove fosse, come si chiamasse, quanti anni avesse. La luce obliqua rinfocolò le ceneri di una vita che ancora resisteva nei meandri del suo vecchio corpo, anche se la vita, la vita stessa, non era proprietà di nessuno e non possedeva alcuna età, proprio come l’acqua di un fiume che scorre sempre, e sempre arriva al mare. “Amo la tenue luce nell’alto del cielo”, questa frase riaffiorò dal flusso dei ricordi; poi, ancora: “E i vostri fiori senza nome”, “i vostri fiori”. “Quali fiori?” Forse l’aveva detto a voce alta, poiché la donna, eccola sbucare dalla penombra violacea, aggrottò lo sguardo. Era vestita di bianco, aveva le sopracciglia scure, grosse, marcate e i capelli castani, striati di grigio, pettinati morbidamente all’indietro. Lui si disse che lì dov’era in quel momento, con quella luce inquietante, doveva essere una stanza d’ospedale; che quel letto, circondato di macchinari a cui lui stesso era allacciato, come una pianta è attaccata al terreno con le radici, era il suo ultimo alloggio.

A volte capita che in un determinato momento un attimo si incolli ad un altro, come le pagine di un libro. Allora, diventano un unico attimo che contiene due verità umane. Il colore speciale della luce solare unì due mondi distanti: nel secondo, che si trovava dall’altra parte della pagina dei ricordi, lui è sano, forte, giovane; ha tutta la vita davanti a sé. È in piedi sulla porta della cucina. Un ambiente basso e stretto, povero, ma tenuto bene, con una sua povera dignità. È immobile alla porta, la borsa ad una mano, pronto per uscire. Una donna si sporge verso la finestra, entrambe le mani sul tavolo. Alla luce vigorosa del pomeriggio, lui si accorge di qualche striatura grigia nei capelli di lei, folti e castani. Da lontano arriva un rimbombo soffocato. È giugno: sul tavolo c’è un vaso di fiori di campo, qualche petalo già è cascato sulla tovaglia. Lui avrebbe ricordato tutto questo e l’avrebbe tenuto a mente, per settanta anni. Sotto la pioggia, la neve e il vento, qualsiasi cosa sotto il sole: i petali delle margherite e l’argento nei capelli di lei.

«Non ti ho promesso niente», le dice alle spalle.

Ha smesso appena di essere un bambino e già rifugge dalle proprie responsabilità. Lei resta immobile, neanche un fremito. Una nuvola si sposta per coprire il sole e divide la cucina in due parti, una chiara e una scura. Lei è già nell’ombra, e lui ancora al sole. Un altro tuono. Lui esce senza dire una parola. Si alza subito il vento che si tira dietro le nuvole, e strappa le foglie dagli alberi.

Lui non ha esitazioni, neanche uno sguardo dietro di sé. Taglia passando per il mercato e preferisce non aspettare l’autobus. Costretto da un impulso sconosciuto, si dirige verso il fiume. Scende dal lato più ripido. L’acqua è grigio scuro e ondulata. Si bagnerà. Lui vuole solo proseguire, proseguire, proseguire, vuole solo stancarsi.

Passati gli ultimi edifici, cominciano a cadere le prime gocce. Il vento sferza quel fiume che sembra di grafite. Un fulmine colpisce l’acqua, vicino, strappandolo ai propri pensieri. Si spaventa, ma non per il temporale, è invece qualcosa che ha dentro. La propria forza interiore, forse? La gioventù che gli consentiva di leggere tutta la notte, che faceva sparire ogni malinconia, che metteva in moto il suo corpo, che l’obbligava a intraprendere di corsa la sua strada, senza nemmeno uno sguardo alle macerie che si lasciava dietro? Tale è la forza che gli pulsa nelle vene, eppure non appartiene a lui: è qualcosa di molto potente, su cui lui non ha alcun potere.

Tutti i fiumi finiscono al mare, tanto i placidi quanto gli agitati, eppure il mare non si colma mai: allo stesso modo, il tempo assorbe i destini umani e non ne ha mai abbastanza. Lui accelera il passo. Le prime gocce di pioggia si sono trasformate in un violento scroscio e quasi si potrebbe immaginare il cielo intento a falciare la terra. Cade un altro fulmine, subito dopo un altro ancora. In quell’improvviso pandemonio di vento, luce, oscurità e acqua, il mondo perde la propria definizione e la realtà ritorna ad essere caos, quello stato da cui sarebbe potuta nascere assolutamente ogni cosa. Lui non è arrivato molto lontano, potrebbe ancora fare marcia indietro e cercare riparo in centro. Potrebbe tornare alla sua modesta cucina, al tavolo con il vaso di margherite, potrebbe lenire quel dolore che si è lasciato alle spalle: a quel punto, tutto il suo futuro prenderebbe una piega diversa. Eppure, neanche uno sguardo dietro di sé, aveva solo continuato per la propria strada, esibendo quella forza, quella vita, tanto per farlo.

È fradicio fino alle ossa, è fradicia la sua borsa di pelle, stremata, che trasporta il poco bagaglio di studente: un paio di libri, un blocco da disegno, delle matite. Il temporale ci ha messo poco a smettere, com’è sempre con i temporali di giugno, e dal caos emerge lo splendido imbrunire, limpido. Lui trema per il freddo. Il fiume si è placato, oltre di esso, basso sugli acquitrini splende un grande sole. E dall’altra parte della pagina dei ricordi, il suo corpo di vecchio fu scosso da un tremore. La donna gli mise una mano fredda e liscia sulla fronte. “Mi perdoni, la prego”, disse lui con uno sforzo, “mi perdoni, la prego”. “Shhh”, rispose la donna con lo sguardo fisso altrove oltre la testa di lui. La penombra rosea si esaurì, come se qualcuno avesse spento la luce.

Dopo il crepuscolo, lui cammina fino ad arrivare al villaggio e bussa alla porta della prima baracca dalla riva. I padroni gli aprono infine la porta, all’inizio titubanti, non sarà mica qualche bandito, e gli concedono di dormire nel fienile, gli danno pure qualche straccio per potersi spogliare dei suoi vestiti bagnati. Lui si immerge nel fieno e piomba subito nel sonno, come caduto in un pozzo senza fondo, in una fenditura buia che lo separa dai ricordi. Ma quando si sveglia, al primo rumore, è costretto a ricordare chi sia, come sia arrivato lì e dove sia diretto.

Così si alza dal fieno ed esce. Ha ancora la gioventù come alleata. Il mondo sembra appena nato e ancora non gli è accaduto niente di umano, come la guerra, l’amore o il tradimento. Si lava al pozzo, l’acqua odora di terra, gli uccelli stanno cantando. Dall’altro lato della pagina dei ricordi, è l’opposto: lì è già accaduto di tutto. L’avrebbe raccontato volentieri alla donna dai capelli scuri: che il piatto dei ricordi è solo uno, per tutti, e tutti mettono lì le proprie puntate, per questo a tutti capitano sempre le stesse cose, anche se in modo diverso. Ma le parole inciamparono nel suo corpo stanco e non era più capace di spingerle fuori. Forse si appisolò, perché quando riaprì gli occhi era davvero buio. La donna era sparita. Lui si concentrò a guardare quel buio e il vuoto, per gli occhi non è mai abbastanza, persino quando non c’è più niente da vedere.

Il fiume scorre in un letto ampio e comodo. Un airone bianco avanza sulle secche, sollevando alte prima una, poi l’altra zampa. Lui ne aveva visti molte volte, prima e poi, ma la sua memoria aveva conservato proprio questo qui, e non altro. Lo Szysia affluiva nel Bug attraversando i cespi di calamo: ora, colmo per la piena, scorreva sottraendo porzioni di vegetazione lussureggiante al terreno. Nei campi, ancora acerbi fiorivano le margherite e i fiordalisi, petali bianchi, gialli e azzurri. Impossibile stabilire quando siano trascorsi tre anni, il grano è maturato e lui non è più solo, c’è una ragazza con lui. La tiene per mano e sta provando a guardarla negli occhi. Lei si volta con un risolino, inclinando il capo con un movimento che appartiene a lei e lei soltanto: mai nessun altro al mondo l’ha mai fatto così e nessun altro al mondo possiede quei suoi occhi, grigioverdi, macule cangianti alla luce, come gocce d’ambra. Sarà difficile morire, pensa allora così, di punto in bianco. I petali delle margherite cascano sul tavolo, ora numerosi. E se fosse neve? Nevica tanto tenacemente, i campi sono già bianchi e anche il cielo è bianco, un bambino scotta, indifeso, tra le braccia di un uomo. Chi è quell’uomo? Sta avanzando più veloce che può, strisciando in quel bianco umido, le lacrime gli rigano le guance ogni volta che stringe a sé il suo piccolo tesoro.

Sta danzando, il vento danza. Corre la primavera, e dopo la primavera l’estate, i fiori perdono i petali, gli alberi i pollini dorati. Vento a sud e vento a nord che volteggia, turbina, arretra… Il sole sorge e il sole tramonta, ed è sempre lì arrampicato all’orizzonte. I fiumi sfociano nel mare, l’uomo cerca la sua strada.

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