Il brano che segue è tratto dal romanzo Tylko Lola di Jarosław Kamiński (W.A.B., 2017). Tutti i diritti appartengono a Jarosław Kamiński.
I diritti per la traduzione italiana sono liberi e gestiti in esclusiva da Nova Books Agency s.c.
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La traduzione dal polacco è di Francesco Annicchiarico.
Breslavia, novembre 1958 – giugno 1963
Nina
Il padre di Gienia, invalido di guerra, gestiva il dopolavoro alla fabbrica di spazzolini. Io e Gienia, uscite di scuola, ci precipitavamo a guardare la tivù, arrivavamo sempre sudate e col fiatone per la fretta di sederci prima degli operai del cambio turno. Non vedevamo l’ora di sentire le canzoni di Sława Przybilska, o vedere danzare i Mazowsze, o le lezioni di ballo di Witold Gruca. Ricordo ancora benissimo i pantaloni che portava, con l’abbottonatura tra le gambe che lo facevano sembrare un pallone. Io e Gienia poi fingevamo di parlare di balletti, delle varie coreografie, sfiorando soltanto con delle allusioni the heart of the matter. Finché poi il bubbone scoppiava e una di noi se ne usciva che Gruca aveva le palle di uno struzzo e sghignazzi e risate per tutta la strada di casa. Qualche volta attiravamo l’attenzione dei passanti, ragazze, non si fa così. La cosa bella era che nessuna di noi due aveva mai visto le palle di un uomo, e nemmeno quelle di uno struzzo. Ma per il resto… La mascolinità era un’ossessione stuzzicante, quanta forza conteneva, e quanta grazia, quanta decisione e quanto mistero.
Alla fine di ogni turno, la sala del dopolavoro si riempiva di operai. Facevano davvero impressione con quei visi anneriti, la pesante puzza di sudore e le mani nere di quel grasso industriale che non sarebbe andato via nemmeno con la pomice. Io avevo diciotto anni e un petto voluminoso che mi riempiva la camicia, anche se appartenevo alla categoria delle magre. Sentivo costantemente su di me gli sguardi di quegli operai. Mi mettevano paura, ma nonostante questo fingevo di ignorare quegli occhi che mi toccavano, mi spogliavano, mi accarezzavano. Non ero la sola a percepire la tensione che saliva, anche il padre di Gienia, il signor Wincewski, se ne accorgeva. Soprattutto perché gli operai guardavano anche sua figlia.
Un giorno il signor Wincewski prese posto al nostro tavolo, con due bicchieri di limonata in mano. Questa azione placò gli spiriti bollenti. Gli operai cominciarono a voltarsi dall’altra parte, si misero a parlare della loro nuova ossessione, il motore Junak, o delle voci che arrivavano da Varsavia, sul famoso secondo canale della tv, che sarebbe stato un canale di sport e film western.
Yeeesss…., lo ammetto, sono troppo sdolcinata. Ok, ok. Got it! Ho mentito, dicendo che frequentavo il dopolavoro solo per la tv. Tanto per cominciare, il padre di Gienia ci faceva sempre trovare pronto da mangiare e sempre piatti che adoravo. Spezzatino in salsa di rafano, gulasch e kasha, kluski e zuppa di pomodoro. A dirla tutta, a casa, mia madre non ha mai saputo cucinare. Alla mensa del dopolavoro le porzioni saranno state anche scarse, ma almeno si mangiava bene. Ed era già tanto, no question about it.
Inoltre, e questo era il motivo principale, tutti i giovedì al dopolavoro ci veniva Willi, Wilhelm. Alto, magro, col suo berretto a visiera e la giacca chiusa da grandi bottoni. Veniva con la scusa di dare una mano al signor Wincewski, ma la verità è che lo faceva per imbucarsi nella sala della tv a guardare la trasmissione preferita di tutti gli operai. Il presentatore spiegava come costruire cose con pochissimi attrezzi. Willi fissava lo schermo ipnotizzato. Come qualsiasi altro maschio. Io lo fissavo tutto il tempo, in quella mezz’ora per lui non esisteva nient’altro. Lui non si accorgeva nemmeno che il mio sguardo pesante gli scovava la barba precoce, quel suo collo lungo, le sopracciglia sottili e disegnate. Non avevo il coraggio di avvicinarlo e presentarmi, e neanche lui sembrava interessato a me. Persino Gienia, che gli sparava addosso dei proiettili fatti col rotolo della carta igienica per provocarlo, persino lei non funzionava. Finito il programma, Willi scappava a casa sua. Sicuramente per colpa di sua madre, che si arrabbiava tantissimo se Willi non tornava quando voleva lei. La signora aveva paura che gli uomini adulti si distraessero dalla tv e cominciassero a guardarsi intorno per trovare qualcuno da prendere in giro. La madre di Willi era tedesca, e a quei tempi, a Breslavia, questo causava grossi problemi.
Sotto l’albero di Natale del 1959, o 1960, uno dei due insomma, trovammo un solo regalo. Un enorme scatolone, avvolto in una carta argentata, con un nastro rosso arricciato alle punte. Mi veniva già da piangere al pensiero dell’ennesimo aggeggio da cucina, il solito tritacarne o qualcosa del genere, quei classici oggetti funzionali che con la loro praticità distruggevano la magia delle feste. Ma quella volta si diede il caso che Babbo Natale ci portò in regalo un televisore Belweder, nuovissimo. Lo piazzammo al centro del tavolino che faceva da scaffale dei giornali e dei libri già letti. Non era il segno che mio padre si fosse arreso alla cultura di massa, lui comprò quel televisore soltanto per farmi piacere. Finalmente aveva deciso di regalarmi qualcosa capace di darmi gioia, di disegnarmi un sorriso sulla faccia. Mio padre credeva di avermi educata male. Qualsiasi cosa fosse, ormai non riusciva più a tenermi chiusa in casa.
Lui era sicuro che non avrei scoperto le sue intenzioni. Che ingenuo. Girls just want to have fun, dico bene? Quel televisore nuovo non mi piaceva per niente. Così dissi che era troppo caro, troppo brutto, e che sicuramente si sarebbe rotto presto. Papà fece una faccia triste. Io di sicuro non gli avrei confessato per cosa essere tristi davvero. Le visite al dopolavoro cominciarono a non avere più senso, anche se quello restava l’unico modo per poter incontrare Willi. Feci il muso, per qualche tempo. Ma, in effetti, restavo sempre più spesso a casa a guardare quello che piaceva a me. In breve tempo, la televisione divenne la mia ossessione. Guardavo tutto ciò che passava, programmi musicali, spettacoli, telegiornali, reportage, programmi per ragazzi e per adulti.
Al primo posto c’era il Teatr Sensacji. A volerlo giudicare con l’occhio pignolo di oggi, direi che gli attori portavano costumi stirati un minuto prima di andare in scena, poi, che si muovevano a scatti e moine in uno studio televisivo piccolissimo, ricoperto di arredi di cartone pronti a franare da un momento all’altro. Ma nonostante tutto, settimana dopo settimana, mi arresi alla forza delle immagini, stregata da quella rappresentazione del mondo. Quando un uomo sparava a un altro uomo, mi chiedevo se fosse davvero morto qualcuno e la preoccupazione durava fino a che non lo rivedevo nella puntata successiva. Quando una donna tradiva il suo bell’amante, la odiavo per settimane. Questa sensazione restava immutata persino quando, un mese più tardi, l’avrei vista morire soffocata o accoltellata nelle Avventure di Sherlock Holmes.
A volte sentivo come se mia madre mi fosse seduta accanto, a guardare la tivù insieme a me per ridere delle stesse battute o commentare gli abiti delle attrici, le loro pettinature, scambiarci pettegolezzi sulle storie d’amore delle stelle dello spettacolo. Una volta ho sentito, almeno pensai di aver sentito il suo riso sommesso, quasi un fischio, mi voltai in direzione del suono, un movimento delle tende mi illuse di un suo passaggio accanto alla finestra, come se stesse per uscire dalla stanza a fare il caffè o preparare la cena. E improvvisamente percepii la sua presenza in cucina, discreta, come per non darmi fastidio mentre guardavo un film col mio attore preferito.
Mi affascinava molto il giornalismo televisivo, ma alla fine decisi di studiare lettere. Ancora non mi spiego il perché. E se l’avessi fatto per le parole? Io non mi fidavo delle parole, non riuscivo a controllarle. Le parole, quelle indomabili bestie da circo che reagivano solo alla frusta del domatore. Dovevo fare qualcosa, dovevo imparare ad ammaestrare la lingua. No, mi sto sbagliando. È una spiegazione troppo sophisticated per una studentessa. Direi piuttosto di essermi iscritta a lettere per un’altra ragione, perché non sapevo cosa fare nella vita. Mi dissi che sarebbe stato chiaro più in là e… nel peggiore dei casi, mi sarei messa a studiare qualcos’altro.
L’università mi annoiò da subito, così trascorrevo la maggior parte del tempo al ristorante Centralna, al Club dei Giornalisti e al palazzo Schaffgotsch, oppure ai vernissage delle gallerie d’arte alla moda. Era in questi luoghi che si manifestava il fantasma della nostra epoca, sempre più preda della follia. Lì cominciava la rivoluzione mentale degli anni sessanta. I vecchi smisero di essere un modello per la generazione appena entrata in gioco. La gioventù cercava idoli nuovi e nuovi modi di comunicare la propria esperienza.
Un giorno al Centralna incontrai un conoscente della fabbrica di spazzolini. Era Willi, che non si ricordava di me e io fui costretta a parlargli di tutte le volte che avevamo guardato insieme la tv, o dei proiettili di cartone che gli sparavamo alla schiena. Confessò che all’epoca aveva paura che gli operai lo prendessero in giro e per questo non aveva mai reagito alle mie provocazioni, o a quelle di Gienia. Preso dal racconto, tirò fuori un altro paio di aneddoti di quel periodo, prima di invitarmi a ballare.
E così abbiamo cominciato.
Ci davamo appuntamento nei posti più strani. In riva all’Oder, alla fabbrica di mattoni, in quel cimitero ebraico famoso per le lapidi grosse che sembravano dei palazzi. Ma il nostro posto preferito erano le rovine dei tempi di Festung Breslau e della battaglia contro l’esercito sovietico. I resti di quei mattoni incrostati di cemento, con i ferri che sbucavano fuori, ci facevano da riparo dagli occhi delle altre coppie. Guardavamo la gente passare lontano, c’era chi si affrettava a tornarsene a casa nelle zone nuove della città, e che lanciava un’occhiata inquieta alle rovine, immaginando potessero dare rifugio alle bande di ladruncoli. Noi non avevamo alcuna paura di queste cose. Eccitati dalla vicinanza dei nostri corpi, dimenticavamo qualsiasi possibile minaccia. Willi mi accarezzava la nuca, il collo, le braccia, le gambe, rovistava sotto la gonna come un ladruncolo esperto, sganciava il mio reggiseno, arrivava fino alle mutandine accarezzandomi la pancia. Me le strappava senza pietà, spezzava il gancetto del reggiseno, mi bucava le calze. Ero costretta a ricomprare tutto ogni settimana, cosa che all’epoca richiedeva non pochi salti mortali. Oh my, oh my! Un paio di volte tornai a casa senza calze e senza mutandine, pregando il dio del comunismo che il vento non mi sollevasse il vestito… che non accadesse mai. Comunque, a Willem davo ciò che si meritava, infilavo la mano nei pantaloni per arrivare al pene, lo estraevo e accarezzavo finché la mano non mi si bagnava di sudore e di seme.
Una volta mi chiese se fossi polacca, ucraina o ebrea. Non si era mai interessato alle mie origini. Non voleva neanche sentire la risposta, mi stava solo prendendo in giro con quel suo sorriso malefico, come se ci fosse qualcosa di ridicolo nel dire: sei tedesca? Voleva offendermi o cosa? Dopo la guerra, i crucchi erano considerati una categoria inferiore. Non c’è niente di strano che non si dichiaravano tali, si inventavano nomi slavi e definivano il loro accento ridicolo come “dialetto della bassa Slesia”, cosa che risultava piuttosto incredibile. La mia risposta lo sorprese: sono russa. Scoppiò a ridere. È così, ripetevo ostinata, sono nata a Magnitogorsk! Gli recitai persino una poesia in russo, Lica raboczich byli pokryty pyliu, e così via. Non mi credette, il russo avrei potuto impararlo a scuola. Io mi tirai su e alzai la voce per dirgli che erano stati i miei genitori a costruire le grandi fabbriche metallurgiche che hanno sconfitto la feccia nazista. La faccia di Willi si imporporò in una smorfia riflessiva, per poi scoppiare a ridere come uno che non ha capito la battuta e prova a nasconderlo con una reazione spropositata. Io non ci trovavo niente di così divertente, i miei genitori avevano davvero contribuito a costruire Magnitogorsk per combattere Hitler. Willi si voltò dall’altra parte offrendomi solo il suo profilo. Solo un attimo dopo capii cos’era successo davvero. I tedeschi rimasti a Breslavia venivano chiamati spesso feccia di Hitler, ma io non avevo in mente niente del genere. Io mi riferivo agli altri, quelli veri, le eccezioni uniche nel loro genere… la feccia nazista che aveva provocato quella guerra terribile. Fuck it!
Per calmare la situazione dissi a Willi che ora avevamo il socialismo, e nella nuova patria ci sarebbe stato posto per tutti. Bastava dichiarare di amare la Polonia!
«Tu ami il tuo paese?» gli chiesi guardandolo dritto negli occhi, sicura di trovare un’ombra di menzogna.
«Io amo te», rispose reggendo il mio sguardo indagatore.
Mi prese tra le braccia, mi chiuse le labbra con un bacio, certo che avrei continuato a dire altre scemenze. Mi divincolai e lo respinsi con tutte le forze che avevo. Lui si appoggiò a una parete e si strofinò le mani, come se all’improvviso fosse calato il freddo.
«Dimmi la verità! Almeno per una volta!» lo sfidai.
Restò in silenzio. Mi prese una rabbia tale, che soverchiò ogni ragione. Così gli tirai dritto sul muso:
«Lo sapevo, un crucco resta sempre crucco. Ammettilo che ci vorresti uccidere tutti.»
Non so neanch’io cosa mi prese. Le cose peggiori che si dicevano da anni sui tedeschi alla radio, in tv, nei film di guerra, tutto questo mi esplose dentro come una bomba a scoppio ritardato.
Willi non disse niente, non andò via, non ruppe i contatti. Si tenne a distanza. Restò appoggiato alla superficie di cemento che odorava di umido e di muffa, alzò la fronte al cielo, chiuse gli occhi. Forse temeva che scoppiassi a piangere. Mi sentii in colpa. Volevo abbracciarlo, chiedergli perdono, dirgli che avevo sbagliato e poi… ma non riuscii a dire neanche una parola. La gola si fece secca e riuscii a tirar fuori solo qualche suono indistinto, poco più di un singhiozzo.
«Hai ragione», rispose Willi «Un crucco sarà sempre un crucco. E non puoi farci niente.»
Non capivo cosa volesse dire. Mi fece arrabbiare ancora di più, avrebbe dovuto difendersi, darmi della nazionalista, appellarsi agli ideali del comunismo, del cosmopolitismo, dell’internazionale. Proletari di tutto il mondo unitevi. La Repubblica democratica tedesca, il nostro compagno di lotta che combatte per un mondo migliore, garante del confine oltre l’Oder e la Nysa. E poi, il padre di Willi era uno slesiano, se non polacco, mica tedesco. Avrebbe potuto dire qualunque cosa! E invece Willi restò zitto. O almeno questo è ciò che ricordo di quel giorno. Dico giorno, ma potrebbe essere stato di sera, sì, forse era proprio sera, ma cosa volete che conti.
E poi arrivò il primo maggio. Fu grande il tumulto per le strade di Breslavia. Stendardi, bandiere, striscioni. Per quel giorno scelsi il vestito più bello che avevo, qualcuno mi diede da reggere uno striscione con una scritta di sfida all’imperialismo tedesco. C’era il gruppo della mia facoltà al completo. Urlavamo canti rivoluzionari e slogan sulla guerra, con la guerra in the background. Perché ormai ogni giorno avrebbe potuto annunciare l’inizio di una nuova guerra.
Algeria libera!
NO categorico alla politica imperialistica di Israele!
Guerra nucleare – minaccia globale.
Basta coi reazionari tedeschi!
Mai più la guerra!
Se Willi mi riconobbe, tra i manifestanti? Non saprei. Probabilmente diede solo un’occhiata di sfuggita. Invidiosa, perché lui non faceva parte di nessun gruppo; stupita, quando mi trovò a reggere quello striscione. Si sentì certamente ancora più estromesso del solito. Restò impalato a fissarmi, da lontano.
Noi due continuavamo a vederci come al solito, andavamo alle rovine, per toccarci e baciarci. Quelle distanze tra noi non contavano più niente. Forse c’erano sempre state, ma la voglia e il desiderio le accorciavano molto.
Ma quella sera fu la classica goccia che fece traboccare il vaso.
E così, all’improvviso, news.
Wait! Un passo indietro. Io ho un ricordo diverso di quel momento. Niente fulmine a ciel sereno, nessun pugno che batte sul tavolo o scoppio della bomba atomica. Gienia venne da me a spettegolare, come al solito. Io preparai il tè e ci mettemmo a fumare sul balcone. Lei aveva cominciato a fumare da quando era entrata alla scuola di teatro. Era convinta di diventare una futura stella del cinema e la sigaretta era il suo attributo irrinunciabile, soprattutto retta dal lunghissimo bocchino di vetro. Gienia era lì che blaterava della commissione esaminatrice e di come erano vestiti quelli che ne facevano parte, dell’insegnante di movimento scenico, con cui aveva una storia, prima di uscirsene con: Wilhelm Bienek si è trasferito a Colonia con la famiglia. Dopo aver appreso questa notizia, credo di essere rimasta a fissarla per dei minuti, senza dire una parola, a guardare le sue labbra che si muovevano, la sua ruga sulla fronte, le pieghe agli angoli delle palpebre che si manifestavano ogni volta che diceva qualcosa. Niente. Ricordo soltanto la sensazione che tutto questo successe, non sono più sicura di niente. Fu un vero shock.
Raggiunsi di corsa l’appartamento di Willi in via Sieradzka. Bussai alla sua porta in lacrime, non mi aprì nessuno. Un vicino che si trascinava per le scale mi disse, senza nemmeno fermarsi, che i Bienek erano partiti all’alba e che al momento stavano già superando il confine con la Germania. “Beati loro”, sussurrò tra sé, superandomi. Forse si trattava proprio di questo, beati loro. Era gelosia, non soddisfazione per aver punito una famiglia tedesca. Uscendo, sentivo che le gambe mi tenevano a stento. Mi reggevano a stento, mi sa che si dice così, scusatemi, non ricordo più niente.
Non capivo perché mai Willi non mi avesse detto addio. Forse per vendicarsi del fatto che era stato cacciato dal paese? O per la vergogna di essere partito di nascosto, come un qualunque nazista miserabile? O forse voleva farmela pagare per quello che gli avevo detto, quella sera alle rovine. Io facevo parte di quelle che se ne fregavano delle sfumature. Quelle che mettono tutti in un unico calderone, i tedeschi sono criminali di guerra, i polacchi sono degli ubriaconi, gli afroamericani hanno il cazzo grosso, i latinos… basta nominarli, si capisce da sé. Willi credeva fossi una che non si lasciava andare agli insulti gratuiti, che avrei rigettato la propaganda governativa antigermanica e che avrei visto in lui soltanto un amante.
Raccontai di Willi a mio padre. Restò ad ascoltarmi, ma non capì il suo gesto.
«Lo sai anche tu cosa ci hanno fatto i tedeschi. Non c’è niente di strano che il nostro stato non si fidi di loro. Se avessero giurato fedeltà, avrebbero avuto anche loro un’occasione. Ma credo che non lo faranno mai.»
Quel giudizio freddo mi raggelò il sangue. Non ricordo nient’altro che questo.
A quel tempo, nessuno pronunciava le parole ethnic cleansing o purge, purga. Dato che quasi tutti, in questa parte d’Europa, erano stati perseguitati, nessuno si preoccupava di una sciocchezza come il rimpatrio in Germania di una famiglia tedesca. Soprattutto, poi, se cacciati dalle miserie di Polonia all’occidente ricco. Soltanto qualche anno più tardi colsi l’amara ironia di questa situazione.