Soltanto Lola – Jarosław Kamiński #3

Il brano che segue è tratto dal romanzo Tylko Lola di Jarosław Kamiński (W.A.B., 2017). Tutti i diritti appartengono a Jarosław Kamiński.
I diritti per la traduzione italiana sono liberi e gestiti in esclusiva da Nova Books Agency s.c.
Per informazioni: agent@novabooksagency.com 
La traduzione dal polacco è di Francesco Annicchiarico.
Continua da qui.

Non questo. Qualcos’altro.

Mancanza di igiene.

Già l’ho scritto. Poi.

E poi vedemmo i nostri fare i prigionieri. E guardavamo e fumavamo sigarette. E quei tre. Due civili un prete. Al muro del cortile. Proprio vicino a noi. Vicino alla nostra bettola. Prima il prete poi quell’altro e alla fine l’ultimo. E guardiamo e non fumiamo più. Quanti anni aveva quell’ultimo. Quindici sedici. Un chierichetto. Aveva il viso da chierichetto.

Gente siete impazziti tutti.

Sentii così.

Lola. Scappò via da lì. Quel ragazzo così giovane.

Uno sparo in testa. Urla e fracassi e una sentenza è una sentenza e dopo una sentenza è quello che succede e sparite e. Scappare via da qui e.

Bum bum bum bum. Gli spari.

Un paio di giorni. E non ci riprendemmo ancora. Quella era la nostra rivoluzione. Per questo il nuovo deve cancellare il vecchio dalla superficie della terra. E che non rimanga niente. Fino alla terra. E che la terra sia rivoltata scavata. Ogni germoglio. Ogni vita. E solo allora sarà nuova.

Io volevo scappare. E Lola che diceva di restare e non arrendersi fino alla fine. Difendere. E io che volevo scappare. Perdemmo Lola. Urlai piansi spiegai perdemmo. Torniamo scappiamo. Questa non è la nostra rivoluzione. Noi non volevamo questo. E lei disse che andava bene scappare ma chi avrebbe lottato al posto nostro. Chi. Chi. E che bisogna vincere innanzitutto.

Ma vincere per cosa dissi. Per sparare a dei mocciosi. Come quello. E senza testimoni e senza nessuno che li copra. Perché Lola perché. Abbiamo perso il diritto alla vittoria. E lei che se scappassimo e quelli come noi scappassero tutti allora chi resterebbe. E che a quel punto sarebbe un massacro totale.

E non riuscimmo a dormire e l’afa e una tristezza inconsolabile e disperata. E Lola disse che se lasciassimo perderemmo tutto almeno mi pare. E chi se ne importa. Chi se ne importa. E non ebbi la forza di andarmene.

Scoppiò l’epidemia. E non potei più andarmene.

Ricordo che mi svegliai e terrore e panico e sorpresa. Sono viva. Sono viva. Non è vero. Non più. Fui costretta ad aprire gli occhi. Avrei preferito non farlo.

Aprire gli occhi.

Cominciò un terrore più grande e più grande e più grande. Che bisogna vivere per forza. O forse no. Forse è peggio di così. Per me. Per Lola. Per noi. La fine. Della rivoluzione e della guerra e del mio amore e dei miei sogni.

E la sorpresa. Ero più forte e guarii per prima.

E Lola di notte quasi moriva e di mattina aveva il sorriso e camicia pantaloni e cinta di pelle e fazzoletto in testa. Pronta per il fronte. Un passo verso la porta mano al pomello e lo schianto. In terra. Spossata e febbricitante. Cadde. Madida. Di sudore. Debole senza forze. E così via.

Ma arrivò l’ordine. Al fronte. Sul serio. Finalmente. Al fronte.

Immaginato. Guadagnato. Niente più bettola forchette e padelle. Al fronte col fucile e la baionetta. Non Lola.

Io.

Solo io ce la feci.

A che era servito quel pellegrinaggio per mezza Europa fame freddo e dolore. Presi la mia decisione. Non la lascio e non vado al fronte e diserto e mi occuperò di lei e mi prenderò cura di lei. E basta.

Esatto. E la amerò. Anche questo. Riconosco la mia colpa e la mia passione.

Lola. Soltanto Lola. Con lei accanto a lei presso di lei. Al massimo mi arrestano. Non capisco mi fucileranno non mi fucileranno e così finiscono i disertori. In guerra. Avevo diciannove anni. Avevo qualcuno per cui lottare e Lola era la mia repubblica e la malattia il mio fascismo. E mi bastava.

Ma per Lola questo voleva dire vivere. Era lei i miei genitori. La repubblica. Soltanto. La guerra. Soltanto. Nient’altro aveva senso. Che vivesse. Che invecchiasse. Aveva vent’anni una vecchia davvero. Mi ordinò di partire mi rifiutai mi minacciò di partire. Non voleva vivere insieme a una vigliacca.

E bevvi quel ratatata. Da sola. Al muretto. E perché non mi buttai in mare. O su quella nave per Marsiglia. Ma era troppo tardi. E piansi. Piansi. E.

Ma lei dottore dice che non riesco a unire dialogo a emozioni. Le mie. Non ci riesco a farlo. Non ho il coraggio. E lei ritiene che se non lo faccio non riuscirà a curarmi. Ma io non so se glielo permetterò. O se lo vorrò. Guarire. E tutto questo per niente. Il mio piano nessun piano giusto per dire tanto per dire almeno mi pare. Il piano. Crolla. Su di me. Preferisco restare malata.

E mi diede l’anellino di sua madre con la pietra rossa ti porterà fortuna mi disse.

Perché tornerai vedrai che tornerai. Ma io invece dicevo di no. Che era troppo caro per un ricordo. E lei continuava che sarei tornato e gliel’avrei ridato. Soltanto allora. Almeno mi pare. Col sorriso sulle labbra. Già lo vedo quando me lo ridarai.

E non temere non ho paura di niente. Perfetto. Allora ci rivediamo tra un mese due. Al massimo.

Non sentii cosa stesse dicendo. Sentii solo un rumore confuso in mente grida e uccelli e mare.

E poi ancora le lacrime che mi rimetterò e quando mi rimetterò ti raggiungerò io non sono fatta per restare a cucinare in quella nostra bettola. Anarchia surrealismo moderno. Per tutta la notte. Sigaretta dopo sigaretta e le trecce ai capelli e il vino non si sa da dove. Almeno mi pare.

E questo fu ciò che mi restò. Lei dottore dice che non mi sforzo. Come non mi sforzo le chiesi. E lei che soltanto io lo so e se non ci riesco devo trovarlo dentro di me nella mia vita. Cosa. Come cosa. Furbetta. Cerca da sola. Io qui ho finito. A me non serve e non mi va di farlo. Di cercare. Io voglio perdermi. Forse.

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