Artur Sandauer – tra banalità del male e intellighenzia ebraica

Sandauer PoloniCult

Le prove narrative del gigante della critica Artur Sandauer raccontano da un punto di vista originale la vita nel ghetto sotto il nazismo.

di Salvatore Greco

Quando sulla bancarella dei libri di via Chmielna, a due passi dall’Università di Varsavia, ho visto fare capolino questo libriccino di poche pagine con un kafkiano insetto in copertina e il nome di Artur Sandauer sopra l’ho comprato praticamente senza esitare. Nel percorso lungo dieci anni ormai in cui mi sono occupato a vario titolo di cose polacche, Sandauer ha un posto speciale, di iniziatore un po’ atipico del mio percorso, partito proprio da alcune sue osservazioni sul destino semplice ma niente affatto banale degli intellettuali ebrei prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale in Polonia.

Nato in Galizia nel 1913, in un posto non poi lontano da quella Drohobycz che aveva dato i natali a Bruno Schulz (che infatti conobbe), Artur Sandauer crebbe da ebreo assimilato in una famiglia di idee marcatamente socialiste e scelse per sé la strada degli studi classici a Leopoli per fare ritorno alla sua città natale in cerca di lavoro, un qualunque lavoro che gli desse sostentamento, dopo l’estate del 1939. Data particolarmente fatale a queste coordinate geografiche.

Cosa sarebbe stato della vita di Sandauer in altri frangenti è una di quelle cose impossibili da immaginare né tantomeno da definire nel gioco a volte sterile delle sliding doors della storia. Di certo il destino che gli toccò non fu dei più semplici: come gli altri cittadini ebrei -assimilati o meno che fossero- fu confinato nel ghetto della sua città, Sambor, dal quale però riuscì a scappare nel 1943 per poi iniziare una vita normale e rispettata dopo la guerra nella cornice di ciò che amava di più: la letteratura.

Oggi di Sandauer si parla un po’ meno che un tempo, le ombre del personaggio forse legato agli ambienti di Jaruzelski durante la legge marziale o -al contrario- le apparizioni pubbliche del figlio Adam al fianco di Jarosław Kaczyński o Andrzej Duda lo rendono difficile da collocare e da apprezzare nella Polonia polarizzata di questi anni. Fino a una generazione fa, tuttavia, il suo nome come critico e promotore culturale aveva una risonanza straordinariamente importante sia per il suo lavoro di filologo classico e traduttore sia per quello di mecenate di grandi talenti e severo oppositore di altri. Il suo nome è legato a doppio filo al riconoscimento critico di Schulz e Gombrowicz e le riflessioni del suo libro più noto  O sytuacji pisarza polskiego pochodzenia żydowskiego w XX wieku (Sulla situazione degli scrittori polacchi di origine ebraica nel XX secolo, 1981) sono tuttora il ritratto più sincero e dettagliato su un tema molto spinoso, di cui Sandauer si è fatto carico dolorosamente (e difatti il sottotitolo dell’opera recita più o meno “cosa che non avrei dovuto essere stato io a scrivere”).

Meno noto rispetto al critico è il Sandauer scrittore di racconti, eppure quando uscirono quelli contenuti in Śmierć liberała (Morte di un liberale, 1949) suscitarono da subito attenzione e la suscitano anche oggi che mi ritrovo a commentarli dopo averli trovati in questo libriccino minuto scovato tra copie sgualcite di Simenon e pesanti albi di storia militare polacca illustrata. I racconti di Śmierć liberała sono prose scritte con semplicità, senza particolari ricercatezze stilistiche o approfondimento dei personaggi, sembrano a volte quasi degli appunti di storie presi a margine di un libro, con personaggi ridotti all’osso e ambientazioni sempre simili. I protagonisti, a partire dal liberale da cui il titolo, sono perlopiù piccoli funzionari del ghetto, una torma di uomini moralmente infimi ai quali nelle gerarchie gestionali del Reich era appaltata la gestione della vita pubblica dei prigionieri ebrei durante l’occupazione. Personaggi gretti e inutili, figli della piccola borghesia polacca di prima della guerra a cui Sandauer non risparmia critiche ferocissime, questi ominicchi -per dirla con Sciascia- galleggiano sulla tragedia in atto, un po’ consapevoli e un po’ no, confortati dall’alone della propria ipocrisia, mestamente burocratici. C’è chi convoca un prigioniero solo per parlare di letteratura come prima della guerra o chi si occupa degli atti e solo di quello si preoccupa, scrive e cancella nomi dalla lista dei deportati come fossero righe di un conto venuto male e il giorno dopo ricomincia da capo, c’è chi vive nascondendo una radio e subendo i sequestri e rimbrotti della gestapo.

Manca, creando un silenzio assordante, la tragedia vera e propria. Mancano il senso della morte, la riflessione sull’umanità o storie di umanissimo dolore per come le conosciamo da altri grandi autori che alla cronaca -vera e romanzata- della vita di campo e di ghetto hanno dedicato molto. Sandauer sceglie una strada diversa e sceglie di raccontare con affilatissima e amara ironia la miseria e l’inettitudine di artefici casuali e banali del male, nel senso più profondo che questa espressione ha preso da Hannah Arendt in poi. Sono loro il fulcro di questa narrazione potente che mette ai margini, per una scelta precisa, i grandi temi dell’Olocausto ma ne mette sotto i riflettori uno altrettanto grande e non sempre ben raccontato come l’inettitudine e l’ignavia di una classe sociale trovatasi nel limbo tra vittime e carnefici e che ha scelto la via più comoda per garantirsi tranquillità e sicurezza.

A pochi mesi dalla discussa legge che punisce penalmente le tesi che parlano di un ruolo polacco nell’olocausto, questi racconti sul piccolo e grande collaborazionismo, se uscissero oggi, scatenerebbero un polverone e diffuse reazioni. E forse proprio per questo, o probabilmente anche proprio per questo, farli riemergere dal silenzio dei decenni gioverebbe al dibattito, alla storia e anche a un certo modo di intendere la letteratura su certi temi, anche attraverso le spigolature di un critico severo e classicista indomito come Artur Sandauer.

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