Vincitore del premio Nike 2020, Radek Rak è una voce che riscatta il fantastico e gli dà nuova linfa letteraria.
–
Intervista con Radek Rak di Salvatore Greco
–
C’è un libro che negli ultimi mesi ha spiazzato i lettori polacchi. Arriva da un autore giovane, al suo terzo romanzo, e che con i suoi libri precedenti ha goduto dell’accoglienza entusiasta di una piccola nicchia di lettori e critici. Quest’ultimo romanzo invece, il cui titolo in italiano potrebbe suonare Canzone del cuor di serpente, è arrivato molto oltre. Ha attirato l’attenzione di critici e recensori, si è fatto amare dal pubblico, ha vinto il premio Nike ed è arrivato in finale al premio Gdynia, i due maggiori riconoscimenti letterari assegnati in Polonia.
Vedremo che chiamarlo romanzo è un’incasellatura di comodo, fatto sta che, inatteso e in punta di piedi, Canzone del cuor di serpente è diventato il caso letterario per eccellenza degli ultimi mesi. Lo ha fatto con una lingua letteraria assolutamente unica, ricca di elementi locali ma anche di una grande ambizione di universalità. E l’ha fatto con uno sguardo al mito e alle regioni del fantastico che fanno pensare inevitabilmente, in terra polacca, a Bruno Schulz.
E Radek Rak, autore di Canzone del cuor di serpente, non nasconde nessuna di queste cose, anzi. Ne abbiamo parlato con lui, per farci spiegare come nasce e dove può arrivare il suo sorprendente romanzo, ancora inedito in Italia dove è rappresentato da Nova Books Agency.
Cominciamo dalla domanda più semplice, o forse no, che posso farti: chi è Radek Rak?
Radek Rak è prima di tutto un veterinario, amo scrivere e lo faccio sempre di più, ma per la maggior parte della giornata mi occupo di animali. La mia storia con la scrittura è iniziata all’università, partecipavo a vari premi letterrari per racconti inediti con il dichiarato scopo di vincere premi in denaro e guadagnare qualcosa per arrotondare le mie magre entrate da studente. Quando ho visto che i racconti piacevano, mi sono detto che magari valeva la pena provare qualcosa di diverso, ma l’idea di un romanzo è arrivata da fuori. Un’editor che aveva letto i miei racconti mi ha proposto un contratto e così nel 2014 è uscito il mio primo romanzo Kocham Cię, Lilith (Ti amo, Lilith, NdR). Più tardi sono entrato in contatto con Powergraph e con loro ho pubblicato il mio secondo libro, Puste niebo, (Cielo vuoto, NdR). E arriviamo a Canzone del cuor di serpente, il mio ultimo romanzo, che ha avuto una visibilità enorme che mi ha stupito.
Stupito? E perché?
Perché io sono uno scrittore di letteratura fantastica, un genere che di solito non gode di molta visibilità mediatica ed è un po’ considerato letteratura di serie B. Per quanto mi riguarda, Canzone è un romanzo fantastico e il fatto di essere arrivato in fondo a premi come il Nike e il Gdynia è stata una grande sorpresa e ho sentito, oltre a quello personale, anche l’orgoglio per il mondo della letteratura fantastica che ha conquistato visibilità fuori dalla sua bolla.
Se è vero che il tuo romanzo è fantastico, lo è in modo atipico. In Italia abbiamo avuto un caso simile con L’incanto del pesce luna, un romanzo recente che utilizza un elemento fantastico per ampliare la realtà del protagonista e ha conquistato nomination e lettori di solito allergici a certa scrittura. È questa la chiave? Migrare un po’ fuori dal genere?
Non ho mai pensato a questo libro come un trampolino per saltare dall’altra parte. È vero che in Polonia sono molti oggi gli scrittori di successo che l’hanno fatto, e che anzi sono diventati di successo proprio dopo averlo fatto. Io non ho nessuna intenzione di separarmi dal mio retroterra, anche se poi hai ragione a dire che il mio modo di intendere il fantastico è atipico e non corrisponde all’immaginario che molti lettori hanno del genere. Anche se mi fa un po’ rabbia che certi stereotipi, e l’esigenza di doversi continuamente giustificare per essere uno srittore di letteratura fantastica, esistano proprio nel Paese di Stanisław Lem.
Al centro del tuo romanzo fantastico c’è un personaggio storico realmente esisitito, Jakub Szela. Ci puoi dire qualcosa di più su di lui e sul motivo per cui l’hai scelto?
Jakub Szela è stato il capopopolo di una grande rivolta contadina della metà dell’Ottocento, passata alla storia come ‘il massacro della Galizia’. Era uno dei tantissimi contadini sfruttati dalla nobiltà terriera polacca che approfittava della scarsa attenzione dell’Imperatore [la Galizia, regione divisa tra le odierne Polonia meridionale e Ucraina, era all’epoca una provincia dell’Impero austro-ungarico, NdR] per imporre assurde corvée in campagna e trattare i contadini come delle bestie da soma. Szela era uno di questi contadini, ma tenace e consapevole. Per due volte partì a piedi per Leopoli per rivolgersi a un tribunale imperiale, per due volte tornò con un verdetto favorevole, e per due volte i suoi padroni lo fecero bastonare e rinchiudere per disobbedienza. Siccome però Szela era uno veramente testardo, i suoi padroni polacchi ne ebbero abbastanza, vendettero la terra che lavorava con lui sopra a un funzionario austriaco che amministrava quei campi per diretto conto dell’imperatore. Da lì, Szela cominciò a maturare i suoi propositi di vendetta organizzando i contadini in assalti a palazzi e ville dei nobili, finendo per ucciderne addirittura più di un migliaio.
Nella storiografia ufficiale, che è l’eredità della cultura nobiliare egemone nella cultura polacca classica, Szela viene raccontato come un brutale assassino e una marionetta degli austriaci, che pare abbiano soffiato sul fuoco della sua rivolta per spezzare sul nascere un’insurrezione indipendentista dei nobili polacchi di allora.
Questa è la versione ufficiale, che io come tutti ho imparato a scuola, ma da prima ne conoscevo un’altra. Perché io sono nato e vivo proprio in quelle terre, da nipote e pronipote di contadini, e in quel piccolo mondo Szela è un eroe popolare, una sorta di Robin Hood, protagonista di numerosi racconti e leggende che ne parlano come un vendicatore coraggioso. Raccontare la storia di Jakub Szela per me è stato un modo per permettere ai miei avi e alla loro tradizione di dire la loro.
Vorrei approfondire allora come mai, per raccontare un personaggio storico, hai ritenuto prezioso usare gli strumenti della letteratura fantastica e la lingua e gli archetipi della fiaba. Come si fa a incrociare questi due elementi?
Innanzitutto di documenti storici attendibili e precisi su Jakub Szela ce ne sono pochissimi, e perlopiù sono relazioni delle famiglie nobili di cui ha ucciso un parente o verbali della polizia austriaca. È dunque una storia piena di buchi, Non sapendo molto della storia vera, ma avendo accesso a una grande quantità di leggende su Szela, ho mischiato storia e leggende del folklore galiziano e così è nata Canzone.
Il folklore serve a riempire i buchi storici? Ho avuto l’impressione, piacevolissima, che i personaggi accettino l’elemento sovrannaturale della storia con grande naturalezza, come se accettassero quel folklore come parte integrante della loro vita, del loro mondo. È così?
Senz’altro, la realtà fiabesca e quella storica si incrociano e si completano. Mi è sempre piaciuto scoprire più versioni di una stessa leggenda, anche quelle in contraddizione tra loro. Anzi, soprattutto quelle. E ho cercato di riportarle nel romanzo, dove in vari momenti appaiono diverse versioni della storia di Szela, alcune che si mischiano in maniera evidente con miti antichissimi, risalenti persino al paganesimo slavo. Non è un racconto del tutto lineare, quindi, ma non credo nemmeno che il risultato sia confusionario. Oltre a raccontare una storia importante per me, volevo anche che i miei lettori potessero divertirsi, appassionarsi, spaventarsi, partecipare a un’avventura emozionante e magari scoprire qualcosa di nuovo sulla storia e su loro stessi in un certo senso. In un modo che fosse soprattutto bello e piacevole. Anche nella lingua.
Da lettore, credo proprio che ci sia riuscito. Mi sono emozionato un po’ come quando da bambino leggevo, o ascoltavo, le fiabe. Si legge con la stessa magia e pausa dalla realtà che ti danno le fiabe, per quanto sia una storia dentro la realtà. Anche grazie alla lingua, come tu stesso hai ricordato.
Devo dire che per me ricreare la lingua di questo romanzo non è stato difficile come potrebbe sembrare. La lingua dei miei personaggi, soprattutto quella dei contadini, prende a piene mani dal dialetto delle mie zone, quello in cui parlavano i miei nonni. Ci tenevo che la lingua fosse bella e ricca, certo, e per questo i capitoli dove la voce spetta ai contadini si differenziano da quelli in cui parlano i padroni o ancora da quella dove prevale l’elemento fiabesco. È stato un lavoro lungo, ma molto naturale e che spero abbia reso il libro vivo. Mi sembra che Canzone sia un libro più da ascoltare che da leggere.
In effetti leggendolo si ricrea mentalmente l’atmosfera di un racconto letto ad alta voce per tutta la famiglia davanti al caminetto…
Esattamente! Ho voluto scrivere un libro che fosse una storia da raccontare in una lunga fredda sera d’autunno come si faceva un tempo. Da bambino ho fatto in tempo a partecipare a serate del genere, ma mi rendo conto che è una tradizione che sta morendo, e mi sono dato anche l’obiettivo di preservare l’oralità tramandando i suoi tratti specifici.
Se restituire le marche regionali non è stato difficile, lo è stato invece trovare quest’equilibrio tra le voci che rende il libro, seppure polivocale, omogeneo?
Sicuramente è merito anche del mio editor, Michał Cetnarowski. Abbiamo lavorato insieme su due romanzi e vari racconti e finiamo sempre a duellare, soprattutto perché lui non ama i regionalismi, ma qui erano fondamentali. Grazie a Michał però ho evitato di esagerare e trovato l’equilibrio di cui parlavamo. I lettori del resto lo apprezzano, riconoscono la particolarità rispetto allo standard che leggono tutti i giorni ma allo stesso tempo per loro è comprensibile e mai troppo locale.
Per altro di questa identità regionale, quella della Galizia, i lettori italiani sanno più di qualcosa. Grazie al libro Galizia di Martin Pollack, per esempio. Quanta di quella Galizia si può trovare in Canzone?
La cosa che io ho più amato nel libro di Pollack è il modo in cui lui sottolinea la multiculturalità della Galizia e in generale di quella stranissima creatura storico-politica che era l’impero austriaco. Sulla stessa terra vivevano uno accanto all’altro cechi, tedeschi, ungheresi, ebrei, armeni, ruteni, ed erano costretti in qualche modo a collaborare. E questo è un elemento presente anche nel mio romanzo, che inizia in un villaggio dove funzionari imperiali austriaci segnano le ore di lavoro di contadini polacchi nel cortile di un’osteria gestita da un ebreo.
Sempre per le evocazioni galiziane, un altro autore a cui i lettori italiani potrebbero guardare è certamente Bruno Schulz. Ho l’impressione che nella Galizia di Schulz ci siano più paesaggi urbani che nella sua, ma cosa c’è invece in comune?
Schulz veniva da una famiglia di ebrei assimilati di città e quindi affonda le sue radici simboliche in quel tipo di civiltà. Se devo dire la mia su Schulz, non ho problemi ad ammettere che per me è un maestro insostituibile, e in tutto quello che ho scritto e che scriverò ci sarà qualcosa di suo. Se devo trovare invece dei legami tra Schulz e il mio romanzo, è sicuramente nel rapporto con il mito, anche se declinato in modo diverso e partendo da miti diversi. Cerco però di non inserirmi troppo nel suo solco, perché è chiaro che non potrò mai raggiungerlo, e non mi va di lasciare una traccia di me come l’ennesimo imitatore di un grande maestro.
Preferisco essere me stesso, cosa che in passato mi è riuscita meno, ma nella scrittura di Canzone ho lavorato per tenere Schulz da parte. Del resto Schulz in uno dei suoi racconti esprime il suo profondo scetticismo, per non dire disprezzo, verso la Galizia asburgica che per lui è grigia, burocratica, la negazione del colore a cui ambisce e invece la vittoria dei toni di grigio di quella realtà burocratica. Credo che per lui fosse più un peso che qualcosa da portare in trionfo.
La tua Galizia invece è tutto meno che grigia, esplode di colore in ogni sua rappresentazione, ma in modo simile a Schulz nella Canzone il mito è un modo –se non per scappare dalla realtà- per completarla e ampliarla con elementi esterni, fantastici appunto. Pensi che saresti riuscito a scrivere Canzone senza il tuo retroterra in questo tipo di letteratura?
Sì, perché il retroterra della letteratura fantastica per come lo intendono in molti qui non c’è. Se pensi al romanzo fantasy classico con una storia avventurosa arricchita di elementi sovrannaturali, Canzone non lo è, è scritto in una lingua diversa e usa soluzioni diverse. In Polonia però amiamo usare uno strumento preciso per decidere cosa è fantastico e cosa no.
E quale sarebbe?
Si chiama “il rasoio di Lem”. Se prendiamo un romanzo fantastico, lo priviamo di tutti gli elementi fantastici e continua ad avere senso, allora quella non è letteratura fantastica. Fa parte della letteratura fantastica un’opera che senza quell’elemento cessa di funzionare. Secondo questo criterio, Il Maestro e Margherita è un romanzo fantastico, e lo è ben più di molti titoli apparentemente di genere, con draghi, spade e tutto il resto. E in un certo senso lo stesso vale per Canzone. Non è un romanzo d’avventura, non ci sono gli stilemi tipici di quel tipo di letteratura, non mi interesserebbe scrivere un libro così. Dove sarebbe lo sfizio?
Per finire, una domanda che faccio sempre a tutti. Che libro ha adesso sul comodino?
Ne sto leggendo vari in questo momento. In particolare, Lo gnosticismo di Hans Jonas, un saggio interessantissimo sui miti gnostici, una sorta di ombra del cristianesimo che parte dalla concezione che il mondo è per sua natura malvagio e quindi il suo creatore deve essere stato malvagio. Sto lavorando a un libro adesso, destinato a lettori più giovani, dove nel mondo non è diventato il cristianesimo ma proprio lo gnosticismo e mi incuriosisce molto l’idea di come sarebbe il nostro mondo se lo avessimo costruito partendo da questa concezione pessimistica. E poi amo i libri di Robert Pucek, un divulgatore che scrive libri su vari piccoli animali, con una predilezione per gli invertebrati, e scrive con il gusto e la sensibilità di uno studioso del XIX secolo. Completamente diverso rispetto a come lo si fa oggi. Sono libri molto brevi, meravigliosi da leggere, uno dedicato ai ragni ad esempio, un altro sulle falene e adesso ha deciso di scriverne uno su quella bizzarra specie animale che è l’uomo. E lo fa con grande piacere, guardando gli esseri umani come dall’esterno, concedendo loro lo stesso amore che ha per ragni o falene. Ormai è raro trovare uno scrittore che ami così tanto gli umani e che guardi a loro con tanta sensibilità.