Pomiędzy słowami – quando l’altro siamo anche noi

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Pomiędzy słowami: l’ultimo film di Urszula Antoniak, una fuga da noi, in noi per ritrovarci tutti umani.

di Mara Giacalone

Urszula Antoniak è la regista che ha posto la firma su questo film dell’anno scorso. Una regista a me finora sconosciuta ma il cui debutto avvenne già qualche anno fa, nel 2009, con il film Nothing Personal (Nic osobistego) che la portò a ricevere quattro Golden calves – i premi del Netherlands Film Festival che si tiene ogni anno a Utrecht.

Pomiędzy słowami (Tra le parole) inizia con una lunga e quasi immobile inquadratura del giovane Michael (Jakub Gierszał), prima di mostrarcelo impegnato in un colloquio con un poeta africano che cerca rifugio in Germania. Una conversazione secca, asciutta. Una conversazione in tedesco e in una lingua africana. Una sala vuota, loro seduti ad un tavolo con un telefono in mezzo: l’interprete è dall’altro capo della linea telefonica, è tra le parole dei due. Noi vediamo solo due uomini incapaci di comunicare ma molto più simili di quanto uno possa pensare, condividono infatti lo stesso status – quello di immigrato. Il bianco e nero della pellicola, risalta tantissimo in questa scena: il giovane Michael, con il suo completo nero perfetto e la camicia bianca si trova di fronte al ragazzo di colore che indossa una maglietta bianca:  è come se si guardassero in uno specchio che li riflette al contrario o come se formassero lo yin e lo yang. Michael però non ne vuole sapere di questa similitudine, di questa complementarietà, tutto nella sua vita è perfetto e immacolato, preciso al millimetro, sano, bello. Si finge forte e altro per essere accettato dalla società che gli sta intorno, ma è facile, per lui. Bianco, biondo, avvocato: la finzione regge alla perfezione. Lo vediamo esercitarsi nella pronuncia del tedesco in modo da nascondere la più lieve traccia di un qualsivoglia accento. Sì, perché Michael in verità è polacco. È emigrato in Germania e ora vive lì cercando di lasciarsi alle spalle un paese, le sue origini, il suo passato e un padre che non ha mai avuto… o almeno fino a quando non si presenta a casa sua.

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Con l’arrivo del padre Stanisław (Andrzej Chyra), il mondo asettico del protagonista viene scombussolato, qualcosa di altro viene ad insinuarsi nella sua vita organizzata e ordinata. Stanisław sembra l’opposto del figlio, musicista mai arrivato, barba e capelli randagi, camicia stropicciata. Eppure lui è l’anello di (ri)congiunzione con la patria lasciata alle spalle, se non proprio abbandonata e rinnegata per quel paese a cui tutti puntano, quel paese visto da tutti come quello dove si trova lavoro, ricco, che offre un mare di possibilità. Dal tedesco il film passa al polacco, quella lingua che dovrebbe esser famigliare ma che sembra così lontana e quasi finta pronunciata da Michael, sì, perché aveva convinto anche noi con la sua maschera tedesca e quindi suona strano sentirlo parlare in modo diverso. Poco a poco il ragazzo cede al padre, sembrano amici, compagni di fumate e di uscite fino a quando Stanisław non scompare di nuovo lasciandolo da solo un’altra volta. È un abbandono non solo fisico ed emotivo dalla figura paterna che credeva ritrovata ma anche un nuovo e rinnovato distacco dalla Polonia: viene a spezzarsi quel filo che lo stava lentamente riallacciando al suo paese d’origine. Il padre è la personificazione della Polonia, è qualcosa di odiato e rinnegato, qualcosa da cui andarsene e di cui, contemporaneamente, sente la mancanza… eppure quando lo conosce, il padre è quello che fa riaffiorare i legami con la sua terra; andandosene, conferma la scelta di Michael e il disprezzo che prova per entrambi, padre e patria.

Arrabbiato, illuso e in preda ad una crisi di identità, il giovane si reca nella zona di Berlino piena di stranieri: cosa sta cercando? Cerca qualcuno di simile a lui – un immigrato – per identificarsi in quella categoria sociale a lui allergica e di cui ha paura, vuole vedere cosa li accomuna, cosa li diversifica, cerca risposte, conferme oppure smentite identitarie. Vuole vedere, sapere e capire cosa sia lui. E allo stesso tempo, per dimostrare che lui è diverso, che lui non abita in periferia, che non è povero, che non vive in situazioni di miseria. Che lui è quello che ce l’ha fatta a non essere schiacciato dal peso di una società che esclude e segrega. Una società che decide per altri dove e come stare, chi e cosa essere. Una società che è disposta a dare e accoglierti solo se sei biondo, bianco e avvocato. Una società che guarda all’immigrazione come la più grande minaccia: ecco perché c’è bisogno di nascondersi, ecco perché Michael finge di essere qualcuno che non è.

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Pomiędzy słowami è un film forte, fatto più di silenzi che di parole. Perché la violenza non ne ha bisogno. Perché il disagio e il disprezzo sociale vanno oltre ciò che possiamo dire. L’immigrazione, lo status di immigrato, va al di là della singola parola, è una condizione identitaria, che ci portiamo sempre addosso, che ci segue e ci perseguita. Che cambia di valore a seconda del colore della pelle, perché l’immigrato bianco, biondo e avvocato è diverso dal ragazzo africano. O forse no. È quello status che ti farà sempre sentire a disagio anche in un posto dove ormai vivi da anni, in cui ti sei acclimatato. Perché ci sarà sempre qualcosa che ti farà tornare al tuo passato, alla tua patria, ai tuoi fantasmi. E allora è proprio lì che ci si scopre utti uguali, lì tra le parole. Dove non ci sono barriere linguistiche perché siamo tutti umani, e soffriamo allo stesso modo.

Pomiędzy słowami è un film strano. Bello di una semplicità che sconcerta talmente è complessa. Esattamente come la vita di Michael e il suo appartamento: solo l’essenziale, pulito e preciso da destare il sospetto che qualcosa non funzioni. Il bianco e nero, assieme ad una colonna sonora fatta di voci e musiche ridotte al minimo ma presenti, conferisce alla pellicola molta forza. Sembra un film anni ‘50, con quel gusto quasi retrò, una fotografia lenta e fatta di immagini lente, di dialoghi scarni. Di tanta luce. Di cose non dette.

È Pomiędzy słowami che dobbiamo trovare il senso nostro, della nostra identità senza assumerci l’arroganza di poter decidere dove un’altra persona possa stare, specie quando siamo noi i primi ad essercene andati.

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