Kamil Bałuk, autore di Wszystkie dzieci Louisa, è una delle penne più interessanti del reportage polacco contemporaneo.
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di Salvatore Greco
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Sulle colonne di PoloniCult abbiamo parlato di recente di Wszystkie dzieci Louisa, reportage dedicato alla storia incredibile di un donatore di sperma che negli anni Ottanta nei Paesi Bassi ha contribuito a concepire più di duecento bambini che oggi sono giovani adulti alla complessa ricerca di identità. Non c’è una briciola di sensazionalismo nel modo in cui il giovane autore Kamil Bałuk (qui il suo sito ufficiale) affronta la storia, ma anzi una grande attenzione nei confronti delle vicende umane di tutti i protagonisti e una grande capacità nell’utilizzare gli strumenti del reportage. Per approfondire meglio la cosa ho deciso di parlarne con lui. Lo incontro un pomeriggio di ottobre davanti a una tazza di caffè da Wrzenie świata, locale varsaviano “colonia” degli autori dell’Instytut Reportażu che d’altronde ha sede al piano di sopra.
D: Il tuo libro sembra diverso dagli altri reportage perché il tema storico o politico non è dominante. Che rapporto hai con la storia?
Diciamo che, quando scrivo, il contesto storico per me è un po’ come i compiti per casa, qualcosa che faccio perché devo, ma mi interessano di più le persone e i loro sentimenti. Nel caso di Wszystkie dzieci Louisa per esempio mi sono chiesto: come ci si sentirà ad avere duecento figli? Come ci si sentirà a essere uno di loro? Il fattore umano è sempre stato importante per me, anche se con questo libro ho dovuto cambiare un po’ approccio perché c’erano molti temi importanti da approfondire, compreso capire il contesto e la legislazione olandese sul tema dell’inseminazione artificiale e non solo.
D: Quanto è durato il lavoro? E come hai fatto a iniziare?
Ci ho messo circa due anni e mezzo, è iniziato tutto mentre facevo uno stage presso un’agenzia di stampa fiamminga. Mi era capitato sotto gli occhi un articolo dal tono un po’ da tabloid intitolato “La mafia dello sperma”, mi sono addentrato nella storia e ho pensato che avrei potuto scriverci qualcosa, un reportage breve magari. All’inizio della storia sapevo pochissimo, non sapevo che i “figli” fossero tutti adulti, non avevo idea se il donatore o il medico fossero morti o magari in prigione, il che era plausibile, insomma non pensavo di potere avere il materiale per un libro. E invece sì.
Quanto a incontrare i miei protagonisti, tutto è partito da Henrik, uno degli “halfies”, gli ho banalmente scritto su facebook e ha accettato di incontrarmi. Nel frattempo ho sottoposto il progetto alla borsa di studio Kapuściński, l’hanno ritenuta valida e allora sono tornato nei Paesi Bassi per lavorarci. Ho iniziato a incontrare i ragazzi pian piano e da lì è venuto fuori il libro.
D: E com’è stato entrare in contatto con loro? Hai avuto difficoltà a farti raccontare le loro storie?
Ti dirò, tutto il contrario. Di alcuni non lo diresti, ma avevano tutti voglia di raccontarsi. Certo, la storia è delicata, ma hanno tutti un forte bisogno di raccontare le proprie vite e di ricevere attenzioni. È stato difficile a volte organizzarsi con loro, questo sì, uno mi ha dato buca più volte e io nel frattempo spendevo soldi e tempo in giro per i Paesi Bassi.
Ma in questo lavoro devi fare i conti con questa cosa, le persone con cui parli ti offrono un pezzo della loro vita e devi essere pronto a essergliene grato, sempre. E c’è sempre un grande rischio, nel reportage non puoi sceglierti i personaggi o trasformarli, sono loro e basta. Se un numero consistente avesse rinunciato non avrei proprio avuto materiale sufficiente a scrivere il libro. Ho dovuto conquistare la loro fiducia, dimostrarmi affidabile e soprattutto uno che non era a caccia di storie da riviste da due soldi. Per fortuna ci sono riuscito e sono molto contento, alla fine del lavoro conoscevo alcuni di loro più dei membri stessi del gruppo.
D: Siete ancora in contatto?
Sì, naturalmente! Anche perché il libro uscirà a breve nei Paesi Bassi e ci sono dei dettagli che sono cambiati, i ragazzi sono aumentati ad esempio e il dottor Karbaat è morto, quindi dovrò apportare degli aggiornamenti. E poi sono estremamente curiosi di leggere cosa ho scritto, so che ne parlano spesso tra loro. Mi fa piacere che lo facciano e visto che non sono finiti, non sono stati scoperti ancora tutti i figli di Louis, mi piace pensare che il libro possa essere una specie di “guida” per i nuovi.
D: A proposito di Louis, ho molto apprezzato lo spazio che gli concedi. Anche se è ovvio solidarizzare con i ragazzi, viene voglia di sentirsi un po’ vicini anche a lui. È una cosa che hai voluto o ti è sfuggita di mano?
Era assolutamente voluta (ride), anzi sono contento che si noti. Volevo proprio che passasse il messaggio che Louis non è un uomo cattivo, affatto. È solo un incompreso, un solitario, uno che non vuole che si usi il suo nome perché ha paura di ripercussioni, anche fisiche. E poi la sua sindrome di Asperger gli rende difficile confrontarsi con le persone, e sono pochi a capirlo, ma Louis è un uomo con un’unica sola grande speranza e ha agito in un modo per alcuni inumano, ma solo allo scopo di raggiungerlo. Alla base del libro mi sono posto due domande; la prima era: com’è stato possibile che un uomo per metà surinamese e afflitto dalla Asperger abbia generato duecento figli nei Paesi Bassi e non solo? E la seconda: perché mi faccio questa domanda? Cosa c’è di controverso in questa storia? Che sia surinamese? Che avesse l’Asperger? O altro?
Io stesso non sapevo bene cosa pensarne all’inizio, mi sono chiesto se non ragionassi in modo scandalistico, ma molto banalmente non ne sapevo abbastanza. E ho deciso di costruire il libro così, come un palco buio su cui i personaggi appaiono pian piano e raccontano la propria versione e solo alla fine quando sono lì tutti assieme riusciamo a farci un’opinione.
Lo stesso Karbaat in fondo, beh, non posso dire di essergli vicino, anche se in qualche modo sono vicino a tutti i miei personaggi. Di certo non penso sia l’unico colpevole in questa storia. Penso che le colpe di questa storia siano un po’ di tutti, dello stato olandese, della società civile, degli altri medici che hanno fatto finta di niente e forse anche dei genitori che hanno fatto poche domande. Erano i Paesi Bassi degli anni Ottanta, ossessionati dalla libertà e dall’efficienza, e visto che contava fare nascere più bambini possibile e nel modo più veloce possibile Karbaat in qualche modo era l’uomo giusto al momento giusto, no?
D: Dici insomma che non ci sono buoni e cattivi nella tua storia?
Esatto, ma credo che sia così in generale, non solo nella mia storia, io cerco solo di assecondare questo stato di cose. Di solito il reportage, specialmente quello della generazione precedente, prende un punto di vista in maniera netta e capisco che sia così quando si parla di genocidi, stupri, violenze di massa, pedofilia, non sono certo cose che si possono trattare in maniera imparziale, ma per me è difficile. Ti dirò, penso che non potrei mai scrivere di assassini o criminali perché penso che anche in quel caso potrei solidarizzare con lui o se non altro dargli la sua parte di ragione.
Con questo libro mi sono costruito un modo di procedere che probabilmente userò anche in futuro, perché la realtà non è quasi mai così ben definita e mi convince molto l’idea che il reportage debba essere un invito a porsi domande alle quali ogni lettore poi è tenuto a rispondere partendo dal proprio background. Credo con Umberto Eco che il lettore abbia il potere di interagire con il libro e a volte proprio crearlo. Mentre era in promozione ho scoperto cose interessanti a cui io stesso non avrei pensato, ed è una cosa che mi rende orgoglioso di come ho lavorato.
D: Ma come hai scelto proprio questa storia? Ha un qualche valore per te il fatto che sia successo in un Paese ritenuto da tutti all’avanguardia come i Paesi Bassi?
Sì, assolutamente, per questo pensavo di inserirlo in un’antologia di reportage olandesi a cui sto lavorando adesso e da cui poi Wszystkie dzieci Louisa è uscito perché è diventato una storia più grossa e definita come dicevo. Ma il tema di come i Paesi Bassi siano un Paese che in superficie appare straordinariamente organizzato, liberale, multiculturale e moderno in profondità mostri delle crepe non da poco e soprattutto come sia in realtà l’eredità di una nazione che -nemmeno sessant’anni fa- era divisa sotto ogni punto di vista, puritana e niente affatto liberale.
D: Che ci dici di questo nuovo libro? Puoi anticiparci qualcosa?
Dovrebbe uscire fra un paio d’anni, il lavoro va a rilento anche perché l’edizione olandese di Wszystkie dzieci Louisa mi sta prendendo tempo, per il traduttore non è facile ritradurre dal polacco testimonianze dirette che io ho preso in olandese e quindi siamo sempre in contatto. Comunque si tratterà di storie varie, dalla testimonianza dei caschi blu che erano di stanza a Srebrenica alla vicenda di Giethoorn, la città costruita interamente sull’acqua, passando alla storia incredibile legata agli aiutanti di Babbo Natale, la conosci?
D: No, assolutamente, di che si tratta?
Beh, nella versione olandese della tradizione di Babbo Natale i suoi aiutanti sono degli elfi di colore, il sottotesto è chiaramente coloniale e ultimamente c’è una pressione sociale enorme per eliminarlo, ma puoi immaginare quanto sia faticoso: vanno cambiati i riferimenti in tutti i canti, le fiabe, i racconti, i cartoni… ci sono contrasti naturalmente, quelli che “ma perché non si adeguano loro alle nostre tradizioni?” ma il fenomeno è forte, penso che alla fine si farà.
D: Da come parli delle storie che racconti si capisce quanto ti appassioni questa scrittura. Ci dici cosa significa il reportage per te? Come hai cominciato?
Quando avevo circa 17 anni ho letto quasi in sequenza Come se mangiassi pietre di Tochman e poi Il negus e Shah-in-shah di Kapuściński e mi hanno veramente colpito. Mi sono detto che sarebbe stato bello scrivere reportage, ma all’epoca non era un progetto serio, non pensavo che l’avrei davvero fatto nella vita. Ho iniziato a studiare sociologia e comunicazione, poi ho iniziato anche a studiare olandese perché io e la mia fidanzata pensavamo di trasferirci nei Paesi Bassi, poi il progetto è cambiato ma alla fine siamo partiti lo stesso e io ho fatto quello stage all’agenzia di stampa fiamminga di cui parlavo prima. Il mio primo reportage era sulle donne delle pulizie polacche che lavorano in Belgio, una cosa curiosa è che c’è una vera e propria tradizione di domestiche polacche in case degli ebrei ortodossi perché erano gli unici ad assumerle all’epoca.
D: C’è qualche autore a cui ti ispiri in particolare?
Da ragazzo ero un grande fan di Tochman e, intendiamoci, lo sono anche oggi per quanto non riuscirei a imitare il suo stile. Ti dirò una cosa che ti farà piacere, penso che uno dei miei libri preferiti in assoluto sia italiano: Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Calvino. Lo amo moltissimo perché si occupa del tema della forma e la forma per me è estremamente importante, tanto quanto il contenuto, a volte anche di più.
D: Anche nel reportage?
Anche nel reportage.