PoloniCultori. Intervista a Francesco M. Cataluccio.

Cataluccio PoloniCult 2

Entra a far parte dei polonicultori Francesco Matteo Cataluccio, scrittore, critico e operatore culturale profondamente legato alla Polonia.

 
di Salvatore Greco.

 

Francesco Matteo Cataluccio (1955) ha studiato Filosofia e Letteratura a Firenze e Varsavia. Si occupa dei programmi culturali dei  Frigoriferi Milanesi. Collabora al  supplemento domenicale del “Sole24Ore”, “il Post“, “doppiozero”, “Inventario” ed “Engramma”. Nel 2012 ha vinto il Premio Ryszard Kapuściński.
Ha scritto: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi, Torino 2004; nuova edizione riveduta e ampliata 2014; Siruela, Madrid 2006; ZNAK, Kraków 2006); Vado a vedere se di là è meglio. Quasi un breviario mitteleuropeo (Sellerio, Palermo 2010; Premio Dessì per la letteratura 2010; ZNAK, Kraków 2012; Noir sur Blanc, Paris 2014); Che fine faranno i libri? (Nottetempo, Roma 2010); Chernobyl (Sellerio, 2011; Zsolnay, Wien 2012; Wyd. Czarne, 2013); L’ambaradan delle  quisquiglie (Sellerio, 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio, 2013); I bambini del dottor Korczak, in Almanacco Sellerio 2014-2015 (Sellerio 2014); La stazione, nella raccolta di racconti Milano (Sellerio 2015).

Vorrei partire da un suo libro che personalmente mi è molto caro. Lei definisce Vado a vedere se di là è meglio in maniera molto precisa già nel suo sottotitolo come “un breviario mitteleuropeo”. La prendo un po’ da lontano nel chiederle: esiste ancora la Mitteleuropa? Nel mondo di oggi “spezzato” tra una globalizzazione perlopiù finanziaria e posizioni di resistenza nazionali sente ancora una comunione di spazi e di intenti tra gli intellettuali che oggi abitano quell’area? Uno come Rumiz non lo crede più e leggendo la narrativa polacca contemporanea abbondano i romanzi costruiti su memoria e identità nazionali che renderebbero difficile promuoverla come mitteleuropea. Lei cosa ne pensa?

Mitteleuropa” è un’idea che si è diffusa, tra la metà dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale, all’interno dell’Impero austrungarico, identificando l’Austria e la sua cultura come l’elemento unificante di una miriade di popoli e culture diversi. Lo si usa ormai per comodità per intendere tutto, e quindi spesso niente. “Europa Centrale” è un concetto geografico che rimanda però a un comune destino di piccole nazioni che ha generato una sensibilità e un sentire comune, diverso dalla nostra “Europa Occidentale”. La letteratura del centro Europa è stata fino al diciassettesimo secolo dominata dalla lingua latina. La produzione letteraria nelle lingue “volgari” dei vari paesi ha iniziato ad affermarsi proprio quando questi paesi tentavano di acquistare l’indipendenza politica. Allora nacque una vera e propria “letteratura nazionale”. La lingua divenne il luogo di sopravvivenza dell’identità nazionale oppressa. Gli scrittori e i poeti, come profeti, si sentirono obbligati a trattare temi patriottici. A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, ma per alcuni popoli anche prima, cominciò a formarsi un’intelligentsia di origine borghese o contadina i cui membri avviarono un lavoro di raccolta delle tradizioni popolari, specie dei racconti e dei canti, che andò a costituire il materiale di una letteratura nazionale, di una musica nazionale, di un’arte nazionale. Ha notato giustamente il filosofo polacco Krzystof Pomian, ne L’Europe et ses nations (1990): “Se esistono nazioni delle quali si può dire che furono create dai loro stati, queste nazioni invece sono state create dalle loro élites religiose e culturali, dai loro sacerdoti e maestri di scuola”.

Tornando un po’ più strettamente a quello che ci compete, se esiste PoloniCult è perché più di qualcuno tra chi l’ha creato ha desiderato ardentemente andare a vedere se di là fosse meglio. E che “di là” sia davvero meglio o meno, quello che cerchiamo di fare ogni giorno in sostanza è raccontare quali risposte può dare e quali domande nuove può far sorgere confrontarsi con un panorama culturale spesso sottovalutato come è quello polacco. Secondo lei qual è il valore aggiunto della letteratura polacca per un lettore italiano nel 2015?

La citazione dal Re Lear di Shakespeare che ho usato per il titolo del mio libro è anche un po’ ironica. Di là comunque, negli anni ottanta quando ci andavo io, non era affatto meglio. Lo dico per i “nostalgici” nostrani che non hanno mai provato veramente cosa fosse la fame e la mancanza di libertà. Di là era però c’era anche un mondo interessante e culturalmente vivace, poco conosciuto da noi. Ritengo che la cultura del Centro Europa, nel Novecento, sia stata assai importante per come ha saputo confrontarsi con i drammi delle guerre, degli stermini, delle oppressioni totalitarie. Ha sviluppato dei pensieri e delle narrazioni di notevole importanza anche per noi, oltre che delle modalità espressive piuttosto originali (soprattutto nel campo della poesia, del teatro, della storia e della filosofia).

In una recente intervista a “Lettera99” ha raccontato di essersi avvicinato per la prima volta al mondo polacco grazie al teatro. Anche alla luce dell’importanza data al festeggiamento dei 250 anni di attività del teatro pubblico in Polonia o delle feroci polemiche della scorsa primavera contro lo spettacolo Golgota Picnic tacciato di blasfemia, cosa ne pensa del ruolo sociale che ancora il teatro ricopre in Polonia con forza? Pensa che per una società come la nostra ossessionata dall’intrattenimento a ogni costo possa essere un monito o anche un obiettivo?

In Polonia il teatro ha un ruolo e un’importanza che in Italia possiamo difficilmente immaginare. Come per l’Atene democratica del V secolo, il teatro svolge una funzione di “catarsi” nazionale: è un elemento fondamentale della vita civile e della democrazia. Ma anche nella vita spirituale e fisica delle persone: basti pensare alla lezione di Jerzy Grotowski e al suo pionieristico Teatro Laboratorio di Wrocław. Il teatro in Polonia non si è mai fermato. Persino durante la Seconda Guerra Mondiale, ha continuato a funzionare un diffuso teatro clandestino. Tadeusz Kantor, ad esempio, realizzò una rappresentazione de Il ritorno di Odisseo, di Wyspiański, nella stazione ferroviaria di Cracovia. Per un’ingerenza della censura nella messa in scena de Gli avi di Mickiewicz, a Varsavia, iniziò la rivolta studentesca del sessantotto polacco. Teatri come il Teatr Ósmego Dnia di Poznań, l’Akademia Ruchu di Varsavia, Gardzienice hanno svolto un ruolo signicativo nella formazione di una coscienza di opposizione per molti giovani polacchi. Ed era un teatro non soltanto impegnato e mal visto dal potere, ma di alto livello spettacolare.

Facciamo un po’ di “storia”, se le va. Lei è stato curatore negli anni delle opere di Witold Gombrowicz, con praticamente tutti i suoi romanzi pubblicati per Feltrinelli, e anche di quelle di Bruno Schulz, pubblicate da Einaudi. Qual è stata la ricezione iniziale? Seppur parlando di nomi, soprattutto quello di Gombrowicz, noti al pubblico internazionale, è stato difficile convincere pubblico ed editori ad accoglierli tra i propri protetti?

Gombrowicz era apprezzato, seppur da una ristretta cerchia di lettori appassionati e critici, già negli anni Sessanta (grazie alle prime edizioni Einaudi, Bompiani e Feltrinelli). Non dimentichiamo, ad esempio, che nel fumetto Valentina di Guido Crepax, pubblicato dal mensile “Linus”, il compagno della protagonista legge ostinatamente, sulla spiaggia, ignorando la bellissima ragazza che è con lui, Cosmo di Gombrowicz… Ma Gombrowicz è un autoreCataluccio destinato a diventare sempre più apprezzato col passare degli anni e con il chiarirsi di alcune sue intuizioni, come la questione dell’ “immaturità” (partendo dalla sua interpretazione della quale ho scritto un libro, pubblicato nel 2004 da Einaudi, e di recente ristampato in edizione riveduta e ampliata: Immaturità, la malattia del nostro tempo). Negli anni Novanta, le nuove edizioni Feltrinelli dei romanzi, racconti e diari, curata da me (e con la traduzione di Vera Verdiani), ha fatto conoscere lo scrittore polacco a un pubblico più ampio anche perchè ne sono state fatte rapidamente delle edizioni economiche (la vedova dello scrittore, Rita, ha sempre molto insistito sul fatto che Gombrowicz andasse pubblicato in edizioni tascabili a poco prezzo per farlo leggere ai giovani). Addirittura, Ferdydurke, mi è stato detto, è stato fatto portare da alcuni insegnanti come lettura per l’esame di Maturità (non c’è libro migliore!). Il successo di uno degli ultimi spettacoli del Piccolo Teatro di Milano, con la regia del grande Luca Ronconi, tratto da Pornografia, ne è l’ulteriore prova.

Diverso discorso va fatto per i racconti di Bruno Schulz. Complice anche la diffusione in italia del bel film di Wojciech Has, Il sanatorio all’insegna della clessidra (1973), Schulz è diventato un autore di culto. Molto si deve anche al fatto che la traduzione di Anna Vivanti Salmon è bellissima (ha risolto brillantemente, con l’aiuto di Wojciech Jekiel, le molte difficoltà dei testi). L’edizione italiana, che ho curato per Einaudi, è stata la prima al mondo che ha collocato i disegni originali di Schulz esattamente nel posto dove le aveva voluti l’autore, che aveva in mente un’opera organicamente illustrata (anche in Polonia, forse per risparmiare, lo si pubblicava, fino a pochi anni fa, senza illustrazioni).

Gombrowicz e Schulz, secondo me, sono tra i venti scrittori più grandi del Novecento.

Cosa ne pensa della ricezione della letteratura polacca oggi? Vede delle differenze rispetto a un tempo o la diffidenza permane? Cosa si sentirebbe di rispondere a un editore che rinuncia a pubblicare un romanzo perché “troppo polacco”?

L’offerta di romanzi e poesie provenieti dalla Polonia è oggi certamente molto maggiore, ma è molto frammentata. Grazie soprattutto ad alcuni meritori piccoli editori, che si avvalgono anche dei finanziamenti dell’Istituto polacco per la diffusione della letteratura “Adam Mickiewicz “(come fanno anche gli istituti simili degli altri paesi del Centro Europa). Questo però fa sì che i libri siano poco promossi, mal distribuiti, spesso introvabili. I libri tradotti quindi ci sono, ed alcuni di autori davvero interessanti (come Jacek Dehnel, Antoni Libera, Olga Tokarczuk, Magdalena Tulli, Tomek Tryzna), ma pochissimi li conoscono. Però quando li si consiglia a qualcuno, quello poi ci ringrazia dicendo di non aver mai immaginato che dietro quei nomi complicati si celasse una letteratura così vivace e bella.

Oggi lei, tra le altre attività, è direttore artistico dei Frigoriferi milanesi, cornice che ha ospitato un’iniziativa bellissima come quella del Book Pride. Sappiamo che buona parte della Polonia a scaffale in Italia arriva grazie alla testardaggine dell’editoria indipendente oltre che alla attenzione di grandi gruppi, anche se questa è più spesso rivolta a classici e autori affermati piuttosto che alle nuove voci del panorama letterario. In generale secondo lei qual è lo stato di salute in generale dell’editoria italiana? Cosa serve perché la qualità possa venire riconosciuta senza il timore – pur legittimo – di non vendere?

CataluccioOltre che ai problemi strutturali che affliggono l’industria e il mercato editoriale in tutto il mondo (cinque anni fa quando lasciai il lavoro nell’editoria provai a descriverli in un piccolo libro, pubblicato da Nottetempo: Che fine faranno i libri?, che purtroppo si è dimostrato anche troppo ottimistico), ci sono questioni che riguardano, più a monte, la cultura, almeno quella in Occidente. C’è poca curiosità. Il cattivo funzionamento del sistema scolastico è il primo responsabile, anche rispetto al nostro discorso. Perché, oltre a non invogliatre alla lettura (i romanzi NON debbono essere imposti come un dovere o materia per esami ma come un piacere!), la scuola non favorisce l’interesse e il confronto con altre culture, mentalità, espressioni artistiche. Manca inoltre un’ educazione al pensiero critico, che si riflette anche nei giornali e nella maggioranza dei mezzi di comunicazione di massa. L’eccessiva, indistinta, offerta, senza una critica che sappia orientare e suggerire disinteressatamente il meglio, lascia spazio al pigro conformismo delle grandi e potenti concentrazioni che seguono solo le mode e non hanno voglia di investire nella scoperta di nuovi campi.

Per concludere e nel ringraziarla per la disponibilità, vorrei chiederle di interpretare il suo ruolo di ‘polonicultore’ dando un consiglio ai nostri lettori su una cosa a sua scelta, un film, un libro, un dipinto, una città… Che cosa, parlando di Polonia, è imprescindibile per Francesco Cataluccio?

La Polonia, e la sua cultura, scontano il pregiudizio, ingenerato da una superficiale interpretazione della musica di Chopin, di essere malinconici. Questo è vero solo in parte e, comunque, la malinconia induce a una efficace lettura critica e riflessiva della realtà. Infatti sta spesso alla base dei capolavori. Per questo, mi sentirei di suggerire un dipinto di grandi dimensioni che per la sua potenza visionaria, e la perfetta lettura della storia della Polonia, è stato spesso citato nella letteratura, nel teatro e nel cinema ed è un po’ la sintesi di quel mondo: Melancholia (1890-1894) del talentuoso pittore simbolista Jacek Malczewski, conservato nel Muzeum Narodowe di Poznań.

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