Pokora è il nuovo libro di Szczepan Twardoch, autore de Il re di Varsavia, un romanzo che declina in modi nuovi i grandi temi dell’autore.
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di Salvatore Greco
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Szczepan Twardoch in Polonia è ormai un personaggio pubblico. Il successo in patria del suo attuale best-seller Król (recentemente uscito in Italia come Il re di Varsavia) lo ha trasformato in una stella letteraria da copertina. Meritatamente, s’intende. Senza mai fare (troppe) concessioni al gusto corrente, ma seguendo la sua idea di letteratura, si è lanciato nel mondo in cui le copie vendute si contano con cinque zeri e i produttori televisivi e cinematografici bussano alla porta per proporre riduzioni.
Non stupisce dunque che il suo ultimo romanzo, Pokora, fosse già tra i più venduti della settimana quando era ancora solo in prevendita. Atteso con l’hype che di solito si riserva agli Stephen King e autori di quella lega.
Pokora è il secondo romanzo, dopo Drach, che Twardoch dedica alla Slesia, la regione di cui è fieramente originario. Ed è il quarto, dopo Morfina, Król e Królestwo, dove affronta a viso aperto il tema dell’identità collettiva e nazionale in terre contese dalla storia. Questo non significa affatto che Pokora sia simile ai suoi precedenti lavori, ne parleremo, ma sottolinea una continuità di ricerca che rende chiaro il percorso letterario dell’autore.
Dunque Pokora. In polacco è la parola che significa umiltà, ma è anche il cognome del protagonista, non privo del resto di sottili evocazioni simboliche che toccherà al futuro traduttore di questo romanzo sbrigliare. Quando lo incontriamo, Alojs Pokora è un giovane ufficiale dell’esercito tedesco guglielmino, impegnato in qualche battaglia di retrovia durante la ritirata dalla Francia negli ultimi mesi della prima guerra mondiale. Quasi completamente annichilito dall’esperienza della trincea, e dalle visioni fluttuanti di corpi smembrati, commilitoni morti, nemici uccisi, Alojs tiene i suoi pezzi insieme pensando a una donna del suo passato, Agnes. I pezzi sono tanti, le schegge di un’identità senza pace e irresolubile. Quello che Pokora sa per certo di sé stesso è di essere figlio di un vecchio minatore slesiano, veterano dell’esercito prussiano alla battaglia di Sedan, uomo nutrito dalla vita con un odio costante e onnicomprensivo. Nella casa dei Pokora, popolata di tutti i figli che sono sopravvissuti abbastanza a lungo da diventare minatori a loro volta, si parla slesiano, a volte tedesco, raramente il polacco. Polacchi ce ne sono nelle vicinanze, chi ne ha voglia li legge pure i giornali polacchi, ma quella è terra del Kaiser e i minatori amano parlare nel loro dialetto. È in questo mondo di pane di segale, acquavite cattiva fatta in casa e sopraffazione, che il destino di Alojs Pokora sembra doversi compiere come quello del padre e dei fratelli: armarsi di piccozza e vivere di lavoro duro e stenti. Solo che per Alojs arriva inaspettato un gancio dall’esterno. Viene dal parroco del villaggio che si presenta a casa Pokora a perorare la causa del ragazzo, troppo intelligente per finire minatore, e per farlo studiare al liceo in città, a Gleiwitz (oggi Gliwice). Comincia per lui una nuova vita che non sarà affatto facile, con il suo tedesco sporco da slesiano di campagna, e un senso di inadeguatezza e smarrimento senza fine. Insieme all’incontro con Agnes, la figlia di un uomo benestante da cui Alojs è ospitato a convitto, e per la quale il giovane Pokora vive un invaghimento che sfora presto nella sottomissione. L’adorata Agnes, il cui pensiero lo salva dalla follia in trincea, è una figura feroce, algida, capace di comandarlo a bacchetta. Eppure, o forse proprio per questo, irresistibile.
Nella sua nuova vita borghese, Alojs Pokora conosce cose di cui non aveva mai nemmeno immaginato l’esistenza. Si confronta con il cameratismo, con l’odio di classe, con i nazionalismi tedesco e polacco che fioriscono a Gleiwitz e poi a Breslavia dove inizia gli studi di filosofia, prima dello scoppio della guerra e del suo arruolamento come volontario.
Il protagonista macina questo flashback sul letto di un ospedale da campo di Berlino, dove si risveglia ferito in un mondo irriconoscibile. Il Kaiser è fuggito, l’impero è caduto, c’è la repubblica, monta la rivoluzione. Per lui, mai abbastanza tedesco per stare tra i tedeschi, troppo intelligente per stare tra i suoi minatori slesiani e in fondo mai davvero interessato alla causa polacca, la nuova Berlino è un posto che fa paura, ma è anche carico di opportunità. Vivrà mille vite Alojs Pokora, mille transizioni nella speranza di trovare il suo posto nel mondo. Spartachista, nazionalista, grigio impiegatucolo, insorto slesiano. In nessuna troverà una vera risposta.
Twardoch ha dichiarato che Pokora è il suo romanzo migliore. Difficile dire se sia vero, perché lo ha fatto con tutti i suoi libri una volta usciti, un riflesso incondizionato evidentemente. Rispetto al ritmo incalzante de Il re di Varsavia, Pokora abbassa i giri del motore, ci consegna un protagonista più fragile e meno machista di Jakub Shapiro, e in qualche modo molto più umano. In questo somiglia più a Morfina, forse davvero il suo romanzo migliore, rispetto al quale però sceglie uno scavo psicologico meno profondo e doloroso. Cosa ci regala allora Pokora? Sicuramente l’essere finora il romanzo più variegato di Twardoch, un libro in cui il protagonista non divora il contesto, ma cerca disperatamente di ritrovarcisi. E per questo, stavolta, il contesto vince. La Gleiwitz della borghesia tedesca, il movimento nazionale polacco, la Berlino di Rosa Luxembrg e degli spartachisti ma anche il mondo cameratesco dei Freikorps e del nascente nazionalsocialismo. Tutti questi non sono i palcoscenici dove Alojs Pokora recita il suo monologo, ma mondi complessi, ricchi, colorati nei quali il nostro eroe cerca ogni volta sé stesso. Per Twardoch è certamente una novità. E lo è anche il ruolo dei personaggi secondari, in particolare di quelli femminili. Rispetto a Il re di Varsavia dove praticamente ogni donna è una prostituta o una moglie sottomessa, le donne di Pokora assumono ruoli variegati e caratteri complessi che superano per lucidità lo stesso protagonista. Senza contare la presenza, nella geniale Berlino rivoluzionaria del 1919, i primi personaggi non binari della produzione di Twardoch.
Pokora si legge, si leggerà forse in Italia, in un modo diverso da quello che i primi lettori di Twardoch nostrani hanno trovato ne Il re di Varsavia. Nessun gangster, meno pistole, e più spazio di pace tra le pagine di azione. Un approccio diverso, insomma, ma con il piglio di sempre, i temi amati di un’intera carriera e la stessa fedele penna di un grandissimo scrittore.