Osannato dalla critica, condannato dal pubblico, Plac zabaw ha scosso le acque del cinema impegnato in Polonia.
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di Salvatore Greco
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«[In Polonia] il cinema diventa ogni giorno più importante, può mostrare cose di cui si parla poco e fare domande prima che sia troppo tardi». In queste poche, ma pesanti, parole si riassume la poetica del giovane regista originario di Gdynia Bartosz M. Kowalski. E ovviamente è ben rappresentata dal suo primo film di (quasi) fiction: il pluripremiato Plac Zabaw.
Plac zabaw in polacco significa parco giochi, ma nel film di Kowalski non c’è nulla di quell’atmosfera di gioia ignara e risate allegre che si collegano nelle immagini mentali a un luogo del genere. Però c’è l’infanzia, un’infanzia avvelenata, abbrutita e crudele che è quella che il regista ha deciso di mettere al centro del suo film. In un’ora e ventidue minuti di scelte essenziali ed esteticamente spoglie fino quasi alla maniacalità, Plac Zabaw racconta la storia dell’ultimo giorno di scuola elementare di tre pre-adolescenti diversi per estrazione e condizione familiare ma legati da una trasversale e drammatica incapacità verso la vita.
C’è Gabrysia, figlia silenziosa e impacciata di una famiglia benestante e borghese, prima della classe ma incapace a relazionarsi; c’è Szymek che si occupa con un misto di cura e rabbia cieca del padre disabile; e poi c’è Czarek, ragazzino timido e apparentemente sensibile che vive con una madre patologicamente cinica e un fratello maggiore indifferente alle sue sorti. Il film presenta il loro arrivo a scuola per sequenze spezzate, isolate, come del resto i rapporti reali tra loro, ma poi la situazione in evolversi li porta a interagire. E veniamo a sapere che Szymek e Czarek sono amici, condividono sigarette sfumacchiate in maniera malamente furtiva e passano una sequenza che sembra eterna a lanciare un grosso pezzo di plastilina contro il muro. Gabrysia invece frequenta i bagni delle ragazze per confidarsi con una compagna di classe “esperta” nei rapporti con i maschi e che la istruisce dall’alto di un’esperienza proto-sessuale che pare un latente grido d’aiuto. Gabrysia è “innamorata” di Szymek e ha solo quell’ultimo giorno di scuola per poterglielo confidare. L’amica che indossa una gonna maliziosa e un rossetto inadeguato alla sua età le spiega come irretirlo, la invita ad aprire la camicetta, le mette in mano un condom.
La brutalità silente di questo momento si interrompe quando i ragazzi si trovano in classe, in quel momento svuotato di ogni senso che precede il raduno di tutte le classi nell’auditorium per il saluto degli insegnanti, insensato anch’esso con le parole della preside che sprofondano come sassi nel vuoto della loro stessa retorica e della totale indifferenza di chi li ascolta. Sono momenti noti a ogni infanzia, eppure attraverso le videocamere di Kowalski e senza aggiunta alcuna, la loro inconsistenza e noia appaiono ancora più profonde di quanto chiunque le possa ricordare.
Alla fine del saluto di plastica della scuola inerme ai suoi scolari indifferenti, Gabrysia si spinge in un edificio ridotto in macerie poco lontano pronta ad attuare il suo goffo piano e a dichiarare il suo confuso sentimento al compagno di classe. Szymek la raggiunge all’appuntamento più indifferente che incerto, lo fa accompagnato da Czarek che lo segue ovunque bramando sigarette da scrocco e che finisce per filmare l’appuntamento tra i due con il suo cellulare. Tutto quello che accade durante questa dichiarazione goffa oltremisura è uno spettacolo che non sarebbe privo di una sua tenerezza se non fosse per il contesto post-apocalittico in cui si svolge e per la reazione rabbiosa e offensiva di Szymek (e di Czarek che poi si fa vivo di gran carriera) che umiliano e attaccano con una cattiveria senza nome la fragilità alla quale la ragazzina si è esposta e della quale il regista si fa testimone inappellabile.
La storia di Gabrysia finisce qui, strozzata in un momento senza ritorno e del quale non sapremo altro, perché è chiaro fin da ora che le sorti dei personaggi non sono interessanti in quanto tali ma come esempi, e non c’è spazio per seguire le sotto-trame. I due ragazzi allora si recano da soli al centro commerciale cittadino dove lasciano macerare la loro noia invincibile comprando caramelle o bighellonando sulle scale mobili, non c’è nulla che apparentemente possa salvarli da quell’incubo di vuoto pneumatico, ma poi si rivela, candido e tragico allo stesso tempo.
Nell’interesse di chi vorrà guardare il film, presentato in esclusiva in Italia nella cornice del CiakPolska Film Festival, è bene interrompere qui il racconto della vicenda che per altro in Polonia ha suscitato critiche furiose e numerosi appelli alla censura. Ma la censura, invocata da chi ha trovato il film di una crudezza inaccettabile, è proprio la cifra stilistica contro cui Kowalski si pone come autore, regista e intellettuale impegnato. La sua scelta di raccontare una storia di infanzia brutale e gratuita non può conoscere censure e questo non per motivi di integrità artistica o di libertà individuale quanto per la forza di un messaggio che Plac Zabaw lancia «a tutti i genitori, perché questa storia sarebbe potuta succedere ovunque».
Quello confezionato da Kowalski è un prodotto pensato per far discutere, far riflettere, strappare senza troppe remore lo spettatore dalla propria confort zone e lanciarlo in un’arena di sentimenti e azioni che forse conosce ma che fatica a porre fuori da sé stesso e ad analizzare, a partire dal tema di una generazione smarrita la cui infanzia fatta di un carillon rotto di ripetute solitudini può produrre mostruosità. E non è un caso che il regista, al suo primo film di fiction dopo anni di esperienze nel documentario, tragga dal genere del cinema verità molte delle sue modalità di lavoro: a partire dalla fotografia, procedendo con il montaggio volutamente poco fluido per finire con l’audio di alcune scene colto in presa diretta: tutti elementi che inconsciamente danno l’idea di trovarsi di fronte a un documentario, ovvero di stare a guardare la verità.
Perché Plac Zabaw è una storia di finzione, ma ispirata a fatti realmente accaduti, e soprattutto verosimili e plausibili, cose che -ammonisce il regista- possono accadere di fronte alla noia, all’inaridimento e all’incapacità strutturale di una generazione di giovanissimi fiondata in un mondo a cui non è adeguatamente preparata. Da figlio di una psicologa infantile, Kowalski ha affrontato temi in qualche modo a lui vicini, osservati dal vivo e dall’esperienza diretta della madre, mettendo in atto un dramma possibile in grado di rivoltare stomaci e -si spera- coscienze. Non c’è una morale del resto in Plac Zabaw, né un appello bacchettone ai costumi inveleniti delle nuove generazioni, ma il disvelamento di qualcosa che può accadere fuori dagli schemi narrativi più probabili. Cogliendo sempre pronti l’indicazione apocrifa di Albert Camus: l’inferno siamo noi.