In esclusiva un estratto italiano del ritratto/reportage Papusza di Angelika Kuźniak
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di Angelika Kuźniak, traduzione italiana a cura di Francesco Annicchiarico
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[Clicca qui per leggere l’intervista con l’autrice]
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PAPUSZA
«Mi tolsi il lutto perché era già passato un anno dalla sua morte».
Morì in casa sua, sotto le coperte, la testa su un grande cuscino. C’era tutta la famiglia riunita da Gorzów, i Wajs e i Dębicki. Io tremavo, avevo le gambe congelate e quando la morte fu al suo capezzale io non ero con lui perché ero andata a bere un tè in cucina. Sentii urlare, mi precipitai e fu allora che la vidi seduta accanto al mio vecchio zingaro. Nessuno si accorse che era lì, solo io. Urlai disperata, per tutta la casa:
«Salvatelo, dategli del latte!»
Fu tutto inutile. Un soffio di vento gelido e Dyźko fu dell’altro mondo.
Lo guardai in volto, avvizzito come terra asciugata dal sole, non aveva quasi più le labbra, la bocca era solo un buco spalancato, non sembrava neanche più una persona.
Da quel giorno sono phivli, vedova, ed è tutta colpa di quella casa, nient’altro che questo. Dyźko era sopravvissuto a due guerre intere, più di una volta aveva dormito nei campi tra fango e muschio e non gli era mai successo niente. E invece gli è bastato stendersi su quel letto comodo per non rialzarsi più.
Era cambiato molto durante la malattia: cominciò ad assillarmi con i suoi dubbi, faceva smorfie strane e aveva continue crisi di nervi. Aveva attacchi come le vittime di incantesimi, mi tirava dietro piatti e bicchieri. Era diventato impossibile vivere così. Fu proprio il dottore a dirmi: «Strano che non l’abbia ancora uccisa», ma io gli risposi «Se la prenda con me, se proprio vuole, ma lo salvi, è un uomo buono, è solo malato, e chi si ammala diventa come lui».
Anch’io avevo i miei acciacchi ma Dyźko stava peggio, era diventato proprio vecchio, aveva ventiquattro anni più di me.
Aveva le articolazioni deformate, bisognava stargli dietro. Quando poi non riusciva a camminare più da solo lo portavo in spalla, in camera da letto, in cucina e in cortile. A contare tutti quei passi fatti con lui, penso di aver girato mezzo mondo. Edzio Dębicki di casa nostra disse così davanti a tutti:
«Grazie a lei lo zio ha avuto qualcuno che si è preso cura di lui».
E chi avrebbe dovuto stargli vicino se non io?
Così le donne lo lavarono, lo vestirono e dovettero fare in fretta prima che il corpo si facesse freddo. Gli misero in testa un fazzoletto bucato, l’anima così sarebbe potuta tornare indietro se lo avesse voluto. Tutti i maschi della famiglia gli misero un soldo in tasca per non mandarlo a mani vuote all’altro mondo. Gli diedero anche ago, pettine e sigarette.
Non si canta per i morti, non suona la banda, accendiamo gli incensi, ne viene un fumo tanto fitto che non ci si vede più niente. Quando c’è un morto in casa non ci è permesso fare niente, neanche lavarci o pettinarci. Gli uomini non si fanno neanche la barba, se ne stanno seduti e basta. Scherzano, bevono la vodka e raccontano storie di paura, come quelle sui serpenti che succhiano il latte dal seno delle puerpere, quei serpenti che di notte strisciano nei letti e succhiano dalle donne fino a farle sanguinare. Quando la nostra era ancora una famiglia camminante mi occupavo io di fare il cerchio di fumo per non fare avvicinare i serpenti, giravo intorno al campo con uno straccio acceso. Il serpente è un brutto segno, proprio come la civetta, la bestia dei morti. Gli zingari sanno che la morte è vicina quando la sentono cantare. Giuro su Dio di averla sentita strillare per un attimo prima che Dyźko morisse. L’avessi acchiappata e buttata nel fuoco, Dyźko sarebbe ancora lì in camera sua a bussare sul pavimento per farsi portare qualcosa.
Invece è morto.
Era rimasto un giorno intero a letto, poi un altro e al terzo finì al camposanto.
Così fu chiaro a tutti che la sua anima non ci aveva ripensato.
I maschi scavarono una fossa, ci misero una croce su e lasciarono il mio vecchio zingaro nella terra dura.
Una volta a casa sedetti sull’uscio a guardare verso la stanza vuota. Poi bruciai il lenzuolo in cui era morto, come secondo l’usanza. Quel lenzuolo brucia sempre in fretta.
La gente ora mi dice: «Non piangere signora, tuo marito non si sveglia se piangi» ma io non riesco a togliermi questo dolore di dosso. Quante lacrime ho pianto, mio dio, avrei potuto farci il bagno.
Perché è sempre così: se muore un albero piange tutto il bosco, se muore uno zingaro piangono tutte le stelle. E allora vai, marito mio, trade nella terra sconosciuta, ci rivedremo sulla luna o su un cespuglio di bacche o forse mai più, chi lo sa.
Mentre moriva mi chiese solo una cosa:
«Non mettere pietre sulla tomba, sarà dura dall’altra parte anche senza pietre, meglio dei fiori. Così se non vuoi venire per me almeno verrai per i fiori, per dargli l’acqua».
Vado da lui ogni domenica e porto sempre dei fiori freschi. Anche per Ognissanti ero lì, mi ero vestita leggera e quando arrivai alle tombe sentii tanto freddo che strappai un ciuffo d’erba e me lo feci bruciare in mano. Non riuscivo più a muovermi, come se qualcuno mi avesse fatto un incantesimo. Non riuscivo proprio a capire. Forse era qualcuno che mi voleva male? La gente mi guardava e diceva:
«Povera Wajs!» Anche la febbre mi venne tanto forte che, scusatemi, mi costrinse a cambiare tre volte al giorno la biancheria, le forze mi abbandonarono completamente tanto che mi misi a letto il primo novembre, e mi sembra ieri soltanto, e invece sono passati tre mesi, mi sono alzata solo perché era arrivato il prete per la benedizione di Natale.
E degli zingari se non venisse nessuno? Gli vorrei bene comunque. Quando sono malati gli compro la cioccolata, le arance, vado a trovarli in ospedale. Sono fatta così, che mi piace dare al più povero.
Chiedo sempre: il bambino vuole una caramella? C’è qualcuno che ha fame? O magari non ha i soldi per il pane?
Io ci vado da loro, mi mortifico per loro, scusate tanto. E poi per cosa, neanch’io lo so.
Per quattro giorni ho sofferto la fame, e da me non è venuto nessuno.
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Quando si toglie il lutto ha forse sessantatré anni, neanche lei ne è più sicura. Il tempo in questo racconto è il tempo degli zingari e non ci si può fidare. Chiedi a uno zingaro quando è aprile e ti dirà quando fioriscono i meli. Settembre? Quando finisce il raccolto delle patate. È inutile chiedere che anno sia, nei tabor zingari nessuno tiene il conto.
Si racconta che alcuni contadini finirono di mietere i campi nel giorno in cui nacque, il diciassette agosto circa. Circa, perché c’è anche un’altra data, il dieci maggio. Incerto anche l’anno dell’evento. Alcuni dicono sia il millenovecento dieci, altri il nove, ma nella tessera dell’unione dei letterati polacchi è annotato così: Bronisława Wajs – 1908. Dove è nata? Chi può dirlo. Nel bosco forse, sotto le stelle perché lì si facevano nascere i bambini. Forse vicino Płońsk, dai documenti si dice Lublino o Sitaniec, ma non esiste nessuna prova certa.
Il destino di questa bambina si decise al suo terzo giorno di vita. Gli zingari raccontano che quel giorno le rese visita uno spirito che le annunciò fortune e disgrazie del suo futuro, ammonendo tutti.
La madre di Papusza attendeva questa visita, la temeva, perciò per quella notte restò con una zingara anziana. Non si potevano riferire le parole dello spirito ma le donne continuavano a ripetersi «Tua figlia sarà un grande orgoglio o una grande disgrazia». Portarono la bambina dal bosco al campo e la battezzarono. Nessuno del tabor però si rivolgeva a lei col suo nome, Bronisława, ma vedendola dicevano solo «Bellissima!» così la chiamarono papusza che in zingaro vuol dire bambola.
«Mia mamma mi chiamava lalunia. Ero sana come un pesce, che mani avevo, e che petto! Le labbra così rosse, i capelli così lunghi, come una principessa, ci facevo le trecce (non li avrebbe più tagliati in vita sua). Mi piaceva ballare, cantare, ero molto allegra. Portavo sempre delle gonne con dei fiori ricamati, color rosso ciliegia, ero agile come gli scoiattoli del bosco, solo che ero nera».
Una volta, addirittura, era stata regina della festa, se è vero ciò che ha scritto nel suo diario (se ne sono conservate quasi 200 pagine). Era già sposata con Dyźko. Lui l’aveva portata con se perché suonava in una banda (“Aveva il suo gruppo, quindici persone”).
«Non potevano mica venire tutti, solo quelli importanti perché la festa era a inviti. La musica da ballo era molto bella. Un signore preside di scuola, scapolo di mezza età, era il re della festa e io la regina. Ricevetti dei fiori freschi e dieci arance, quattro pezzi di cioccolata grandi, tre bottigliette di profumo, il tavolo era pieno di liquori e torte. La voce aveva fatto il giro della città e le zingare erano molto gelose e cattive con me. E i vecchi mi guardavano come lupi, ma io ero innocente davanti agli occhi di dio».
Suo padre: nei suoi racconti non ha nome né cognome. Proveniva dalle famiglie zingare polacche dei Warmijak e Bernik. Papusza ha scritto che papà viene da una famiglia migliore, ma non si capisce il perché. Proprio gli zingari si perdono in mille spiegazioni: si sa che morì in Siberia (pare ci fosse finito per un furto). Nel diario c’è ancora una frase su di lui: avevo cinque anni, mio padre tornò a casa e io avevo paura di lui perché non viveva con noi. Nient’altro.
Spesso, molto più spesso Papusza parla di sua madre, Katarzyna di casa Zieliński, che veniva dagli zingari di Galizia, ma migrava con quelli di Wołyń. Katarzyna si sposò una seconda volta dopo la morte del padre di Papusza, con Jan Wajs, cugino di primo grado di Dyźko. Mamma soffriva la miseria perché lui era un ubriacone e giocava a carte. Perdeva tutto ciò che lei si procurava dai campi. Se i soldi non bastavano per comprare la vodka lui la prendeva a bastonate, e i colpi sibilavano spietati e lasciavano sulla schiena strisce nere come vipere. Nessuno dei maschi osava dire niente per difenderla, perché uno zingaro di sua moglie può fare tutto ciò che gli passa per la testa: perderla al gioco; spaccarle la faccia, schiacciarle la gola con un piede. Oltraggiarla come una carogna qualsiasi.
La madre di Papusza cercò di ingraziarsi suo marito facendo dei figli. Molti figli – molta fortuna, dice un proverbio zingaro. Prima Przemek e poi ancora altri quattro, messi al mondo con ostinazione: Janina, Julia, Tadeusz e Wincenty. Ma non bastò, Katarzyna ci metteva settimane a guarire dalle ferite.
Papusza si ricorda di sua madre, accoccolata vicino al fuoco, tra le ginocchia una gallina dalla testa mozzata a cui cavava gli occhi con un coltello. La donna si tagliava un ciuffo dalla treccia e lo univa agli occhi dell’animale per farne una coda, e con un gesto svelto strappava le unghie alla gallina per ricavarne delle corna… Era pronto il bengoro, il piccolo demone necessario per le pratiche magiche.
Le altre zingare rincorrevano le contadine; quando una veniva raggiunta, la zingara si faceva tre volte il segno della croce, poi sputava e urlava «Muori, sparisci forza del male!»
Papusza racconta in che modo la zingara riuscisse a far scivolare il bengoro nel bicchiere d’acqua della contadina. Era un piccolo cadavere di cera, un esserino pallido come i morti, dalle gambe ritte e le braccia incrociate sul petto.
Qualcuno morirà in questa casa, dicevo io alle contadine. Questa è l’acqua del defunto, vi porterà la morte. Bisogna spargerla al cimitero. Questa casa è vittima di un incantesimo, io posso cacciare il male, signora, ma prima devi darmi i soldi, o da mangiare. Mi portavo sempre due fagotti pieni. Non ho pietà per gli stupidi.
Così sua madre terminava il primo diavoletto. Il terrore avvolgeva la piccola Papusza che si copriva il viso con le mani. Quel diavolo la fissava come fosse vivo.
Un moccolo di candela si scioglieva in una pentola, sua madre frantumava con le dita un pezzetto di carbone e lo mescolava alla cera liquida. Poi dava a Papusza un mazzo di foglietti strappati. Papusza ritagliava dei cuori rossi e da questi ne faceva gli occhi del diavoletto, un po’ distrattamente però. Aveva fretta, Adam, il suo primo amore, la stava aspettando.
Aveva la mia età, avevamo tutti e due dieci anni quando giocavamo a moglie e marito. Lui mi picchiava, mi mandava addirittura nei campi a fare l’indovina, io quando tornavo gli portavo qualcosa nei fagotti, costruimmo anche una nostra casa, mettemmo in piedi una piccola baracca.
Correvano uno davanti all’altro, evitando i sentieri del bosco perché di lì sarebbe uscito il diavolo a cercarli. Meglio non tentare la sorte.