Di belle e di bestie – su Panna a netvor

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Panna a netvor di Jurai Herz, la rilettura boema del classico eterno de La bella e la bestia

di Roberto Reale

Un amico mi disse una volta che leggere Sade è igienico. Serve a purgarsi di quell’anticchia di appiccicosa melassa che una certa idea mid cult, edificante e “buonista” dell’arte ci insinua dentro nostro malgrado. Serve a restituire al sistema di simboli di cui il nostro immaginario si nutre la violenza ancestrale, dirompente e a suo modo pura, che il filtro color di rosa di certo entertainment ha desacralizzato, trasformandoli in favolette innocue, in fairy tales.

Così, per dirne una, il destino di den lille Havfrue, della creatura marina che il racconto di Hans Christian Andersen immerge in un mondo saturo di sottile crudeltà e di erotismo onirizzante—tra l’altro precorrendo genialmente certe proposte della Wiener Secession o addirittura dell’arte surrealista—è di occupar spazio nel nostro immaginario nei panni che la vulgata disneyana le ha cucito addosso: una scialba Sirenetta vagamente seduttiva che più che altro pare una a metà di coed a caccia del maritino.

A questo punto, naturalmente, ci sta tutto il piacere dell’approccio con l’originale e il suo potenziale di enthousiasmós e di adrenalina, e definirlo “riscoperta” è un eufemismo. Dove per originale non va inteso soltanto l’Urtext, ma andrà bene qualsiasi tentativo di ritrovare le radici di un simbolo al di là degli addomesticamenti di varia estrazione.

È di questo genere il piacere che dà la visione di Panna a netvor, adattamento cinematografico cecoslovacco del classico La Belle et la Bête pubblicato nel 1740 da Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve (in La Jeune Américaine et les contes marins), nel 1756 in versione ridotta da Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (in Magasin des enfants) e nel 1889 da Andrew Lang (in The Blue Fairy Book). Il regista si chiama Juraj Herz, è di origine ebrea, aperto alla sperimentazione e alla contaminazione tra linguaggi e generi, ed ha già alle spalle una certa notorietà in patria con film tuttora godibili: il drammatico Petrolejové lampy (Lampade a petrolio, 1971), l’horror gotico Morgiana (1972), il sentimentale Un giorno per il mio amore (Den pro mou lásku, 1976).

In Panna a netvor (1978) Herz propone il recupero di una lettura non ingenua della “fiaba”, porgendo il destro a quelle aperture all’irrazionale e al “sacro” che già la classica riduzione cinematografica di Jean Cocteau (1946) teneva presenti, ed esaltandone anzi la densità fino a trasformare la narrazione in una analisi dell’inconscio, del sogno, della paura, della non-comunicazione, dell’emarginazione, dei legami sotterranei tra uomo e natura. Rintracciando, in altre parole, i temi fondanti della “fiaba”, tra i quali la critica recente ha enucleato il motivo antichissimo dell’unione sessuale uomo-animale (Maria Tatar, Beauty and the Beast: Classic Tales of Animal Brides and Grooms from Around the World, Random House Penguin, 2017).

Del resto, se la trama la conosciamo e non mette conto di raccontarla (né gli autori del soggetto e della sceneggiatura, František Hrubín e Ota Hofman, apportano modifiche macroscopiche rispetto alla versione classica), sulla scelta di campo del regista il titolo dice invece già tutto. Panna a netvor, più precisamente che La bella e la bestia, vale La vergine e il mostro. Il che implica il rigetto di una sottolineatura in chiave sentimentale, e l’implicita polemica con gli estimatori del ben più levigato e rassicurante Kráska a zvíře (da tradurre La bella e la bestia, stavolta senza scrupoli) di Antonín Moskalyk, il quale appena qualche anno prima (1971) aveva offerto all’immaginario nazional-popolare cecoslovacco l’occasione di esercitarsi castamente sul tema. È poco sorprendente, per inciso, la notizia che la nuovissima riduzione cinematografica della fairy tale a firma Disney si schiera a favore della dizione Kráska a zvíře.

Apre il film una lunga quanto memorabile sequenza onirica, dominata dall’accumulo di concrezioni singolari, di suggestioni grafiche riecheggianti De Chirico, Dalí, Max Ernst e forse Chagall, di deformazioni aberranti alla Alfred Kubin: elementi disparati che la potente colonna sonora di Petr Hapka riduce alla singolare unità logica di certi sogni. Le sequenze successive, però, sono un risveglio violento: una carovana attraversa la nebbia fonda di un bosco, una creatura dalle fattezze tanto vaghe quanto minacciose ne fa scempio, lo scannatoio di un villaggio si offre in tutto il trionfo della sua rivoltante giovialità in un giorno di festa. E la micidiale creatura sembra avere inquietanti parentele con le immagini della sequenza iniziale.

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Si inaugura così il gioco di continui rimandi tra il piano della realtà fattuale e il piano onirico, senza che in nessun momento l’uno trionfi definitivamente sull’altro. E nella realtà irrompono le tre figlie di un mercante vedovo (interpretato da Václav Voska), il quale essendo caduto in ristrettezze è costretto a vendersi un ritratto della moglie per fare la dote alle figlie. Ma nell’attraversare il bosco gli si para dinanzi un castello semidiroccato, ove strane presenze gli approntano cena e pernotto e gli fanno dono di ricchi gioielli (in cambio beninteso del ritratto). Senonché, proprio sul punto di riprendere il cammino, l’avverso destino fa incontrare le mani del mercante e la bianca, tenera, fragile rosa al quale il padrone del misterioso maniero tiene più che alla vita.

Il quale padrone finalmente si palesa (almeno attraverso la mediazione dello sguardo terrorizzato del mercante) e ordina all’uomo di portargli una delle ragazze, se non vuol rendere l’anima a Dio seduta stante. Ripresa allora il vecchio la via di casa, le opportuniste Gábinka e Málinka si guardano bene dall’accettare; soltanto la diletta Julie (Zdena Studenková), tanto simile a sua madre da esserne praticamente un avatar, si offre volontaria, per amor di suo padre o per insensata curiosità.

Così la fanciulla si mette a sua volta in viaggio e, pervenuta  al castello del “mostro”, vi si stabilisce con naturalezza. Si innamorerà di lui, naturalmente, pur senza vederlo mai in vivo ma soltanto sotto forma di phantasme erotico, in un rovesciamento grottesco della favola di Amore e Psiche (Alena Prokopová, Recensione a Panna a netvor, in Filmový přehled).

E quanto al “mostro”, lui in realtà è innamorato di Julie ab origine, come testimonia l’acquisto del ritratto della madre di lei. Solo che ancora non lo sa. Sorte meschina la sua, d’altra parte, perché Herz sceglie di nasconderne l’anima bella non già, come nella versione tradizionale, dentro fattezze leonine ma pur sempre virili, ma dentro quelle di un gigantesco, repellente uccello antropomorfo: testa coperta di piume, immenso becco, artigli d’aquila. Lo scopriamo non prima del quarantunesimo minuto, ossia al centro esatto del film, e l’epifania è di quelle che lasciano il segno.

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Simulacro perfetto di impervietà della comunicazione, nonché ovvio simbolo fallico (Gilbert Durand, Les Structures anthropologiques de l’imaginaire, P.U.F., 1960), la facies ornitologica (firmata dai mascheristi Jiřina Bissingerová e Jiří Hurych) costringe al silenzio il mostro, al quale non resta altra strada ad esprimersi che ricorrendo a una voce fuori campo; non è chiaro se risonante telepaticamente oppure vettore di un dialogo interiore ai limiti dell’allucinato. È la tragica condizione di un essere non (necessariamente) malvagio, ma emarginato a causa della “sacralità” della sua condizione; viene in mente l’episodio del Simposio platonico, quando Alcibiade paragona Socrate a quei Sileni che “nelle botteghe degli scultori servono da contenitori per le raffigurazioni degli dèi” (Pierre Hadot), aspetto orrendo e anima divina.

Man mano che l’amore gli si fa chiaro, il déchirement interiore del mostro si accentua, e forze misteriose fanno di tutto per trattenerlo in una dimensione animalesca (“The Beast has also picked up some schizophrenic traits along the way”, scrive l’arguto estensore del blog The Bloody Pit of Horror). Una voce insistente gli impone di resistere al sentimento umanizzante, e di uccidere la dolce Julie siccome usava prima del fatale incontro. La muta inquietudine trova allora sfogo in una sorta di esagitata coreografia: l’attore, Vlastimil Harapes, oggi sulla settantina, è stato anche ballerino al Teatro Nazionale di Praga, e si vede. In lui le risorse della grande tradizione tersicorea cecoslovacca si sommano alle influenze del mimo e del teatro delle marionette (teatr lalka), orgoglio nazionale, per dar vita a un linguaggio capace di esprimere con estrema originalità il travaglio della bestia che si fa uomo.

Ma la tensione drammatica non può crescere ad libitum, e un epilogo adeguato è d’uopo. Sarà il fuoco a farsene carico: qualcuno non aveva già proclamato che “la fiamma è bella?”. E la stessa fiamma, divorando il castello del mostro, si vuole che abbia distrutto anche la scenografia fatta costruire da Herz nei venerandi Studi Barrandov, a Praga. Piani che continuano a intersecarsi.

Alla fine resta intatta, un po’ sgualcita forse, e sicuramente non immune da ironia, la “morale” che era pure sottesa ai testi della Villeneuve e della Beaumont: la donna innamorata tira fuori dal suo uomo la bellezza (o l’umanità) che egli nascondeva chissà dove. È un’idea come un’altra, come cantava Paolo Conte; ma diventa apprezzabilissima se per arrivarci ci tocca gustarci la bellezza stralunata di questo horror gotico dall’erotismo sottile, magnificamente strano come soltanto un uomo impregnato del kollektive Unbewusste di certa Mitteleuropa avrebbe potuto fare. E se, en passant, ci saremo convinti che belle e bestie ce n’è tanti tipi.

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