Pani Furia – una storia di rabbia post-coloniale

Pani Furia PoloniCult

Ultimo libro di Grażyna Plebanek, Pani Furia porta la letteratura polacca fuori dai suoi confini e su temi drammaticamente attuali.

di Salvatore Greco

Una storia ambientata tra il Belgio e il Congo, tra gli eredi del grande regno leopoldino e quelli della sua più grande e insanguinata colonia africana. La storia di una donna ferita, abbandonata e perennemente straniera anche nel Paese in cui ha vissuto quasi tutta la sua vita. Pani Furia è questo ma per noi di PoloniCult è un’opera dal respiro globale della varsaviana Grażyna Plebanek che ha pubblicato il romanzo con l’editore Znak nel 2016.

La storia di Pani Furia (Lady Furia, abbozzando una traduzione “italiana”) è quella di Alia, figlia di un meccanico e autista congolese di nome Eddy che ha una grande passione per il pugilato e un talento straordinario per la poesia orale. Se Alia porta questo nome curioso è proprio in onore di Muhammad Alì e dell’epico incontro combattuto e vinto a Kinshasa contro George Foreman e in occasione di cui -l’uomo racconta alla figlia con il suo stile poetico e vagamente parabolico- Alia è stata concepita. Questa dimensione magica e fuori dal tempo della vita di Alia dura pochi anni e una manciata di pagine del libro, perché presto tutta l’azione si sposta in Belgio dove la famiglia intera si trasferisce per seguire il padre e il suo datore di lavoro, un dignitario d’ambasciata, a Bruxelles. L’arrivo in Belgio sconfessa subito le promesse di miglioramento e porta con sé la miseria dell’alienazione; Eddy, Alia e tutta la famiglia si stabiliscono in un quartiere periferico abitato da altri immigrati che però, essendo perlopiù bianchi e arrivati prima, discriminano Alia e i suoi nella più classica delle guerre tra poveri). La sorte peggiore tocca alla madre di Alia, da tutti chiamata Formica, che da donna sensuale ed energica si trasforma in una tele-maniaca compulsiva che ignora i figli, affonda le sue ore inutili nelle soap di fine anni ’70 e sperpera soldi in creme sbiancanti e balsami per i capelli allo scopo di apparire meno africana. Anche Eddy tuttavia, dall’allegro cantastorie che era, perde via via la sua vena come se la lontananza dal Congo gli avesse rubato ogni fonte di ispirazione, e in questo panorama Alia finisce terribilmente sola. A poco vale la presenza positiva di sua zia Issa, sorella di Eddy in Belgio anni prima che Alia nascesse e orgogliosamente africana e femminista: Issa prova con tutte le sue forze a mantenere vivo l’orgoglio di Alia e la sua voglia di lottare, ma può fare poco di fronte a un panorama avvilente e alle vicissitudini della sua stessa vita che la allontanano dalla nipote.

Nel frattempo, l’opera di disgregazione si compie inesorabile: Formica è sempre più indifferente alle sorti della famiglia; Eddy prima si trova un’amante bianca in uno squallido quartiere e poi -con il pretesto della morte del padre- vola a Kinshasa per non fare mai più ritorno in Belgio; Alia e suo fratello, totalmente abbandonati a se stessi, alle incombenze di una vita immiserita rispondono dandosi ai furtarelli di quartiere. Per sua fortuna, Alia trova un’ancora di salvataggio dalle due cose ereditate dal padre fuggiasco: il pugilato e la poesia orale. È in un momento particolarmente duro che Alia, come dal nulla, esorta suo fratello a tirare di boxe con lei e lo fa raccontandogli una parabola che ha tutte le caratteristiche di quelle che era solito raccontare il padre e la sua “firma” finale è da subito chiara: Pani Furia.

L’identità africana per Alia è una cosa solo vagheggiata, la vive sulla sua pelle senza averla mai conosciuta. L’Africa che si porta dietro è quella che la rende sola e poco accettata, povera, diseredata e soprattutto furiosa, nel Belgio incapace o disinteressato a fare i conti con il suo passato coloniale e con tutto ciò che comporta. Intimorita da un clima di violenza diffuso, vittima del suo carattere oltre che della condizione di donna nera delle periferie in un sistema di uomini bianchi del ceto medio, Alia conosce sulla propria pelle il dolore delle ferite inferte da parte di uomini di cui si fidava -a partire da un allenatore di boxe che la molesta passando per un musicista senegalese che inizia una relazione con lei pur essendo sposato con un’altra- e il totale spaesamento di vivere in un Paese talmente straniero da impedirle anche di vedere il proprio nome su un documento di identità perché non riconosciuto dal sistema informatico dell’anagrafe.

Un po’ per caso un po’ per destino, Alia finisce col trovare una sua dimensione cominciando a lavorare nella polizia di Bruxelles. Non c’è nessun senso di appartenenza a ispirarla né una missione nobile che scalfisca il suo disincanto, ma nel cinismo procurato di chi vive ogni giorno la strada e i suoi orrori Alia trova un surrogato di famiglia. Non è nemmeno questo un percorso facile, in un ambiente colmo fino all’orlo di machismo e diffidenza, l’identità di Alia sarà un ostacolo da superare, ma alla fine il costituirsi di una pattuglia multietnica per infiltrarsi nel racket della prostituzione sembra davvero essere il suo posto, dove vivere perlomeno in pace. Ma l’ombra del razzismo non risparmia la polizia, dove anzi il capo della pattuglia di cui Alia fa parte si scopre essere un teorico del complotto che mette i suoi uomini, immigrati “assimilati”, contro i clandestini dell’ultima ora, colpevoli di infettare la purezza belga. Alia a quel punto è messa di fronte a un dilemma, se fare finta di niente e vivere in pace o rivoltarsi contro la cosa, tirando fuori per un’ultima volta le parabole e la rabbia di Pani Furia.

Grażyna Plebanek è un’autrice decisamente nota nel panorama letterario polacco, autrice di numerosi best-seller ambientati prevalentemente a Bruxelles (dove la Plebanek vive), ma Pani Furia è il primo romanzo in cui cede ogni timidezza nel raccontare le ambiguità del Paese che la ospita. Le passate protagoniste femminili della Plebanek condividono con Alia la passionalità e i rapporti infelici con uomini amorali, ma Pani Furia fa un passo in più e costituisce non solo un romanzo avvincente e gradevole alla lettura quanto anche un tassello importante nella galassia della letteratura post-coloniale con un elemento innovativo non da poco dato dal fatto che l’autrice è terza rispetto ai fatti e non suona dall’interno la campana dei carnefici né quella delle vittime, ma osserva da vicino il disgregarsi di un’identità sociale forse mai davvero esistita e che causa solitudine, alienazione e rabbia. In Belgio, ma non soltanto.

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