
Ostatnia rodzina, l’ultima famiglia, è un biopic dal gusto noir dedicato alle vite di Zdisław e Tomasz Beksiński
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di Roberto Reale
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La storia, scrive Maurizio Ferraris, esiste “nel momento in cui cominciano a esserci delle tracce, quando alcune cose cominciano a venir registrate” (Lasciar tracce: documentalità e architettura, Mimesis, 2012). Quando cioè, preso dall’horror vacui di una vicenda che, aggredita dall’entropia montante nel cosmo, minaccia di consumarsi senza che nulla resti, l’uomo comincia ad impegnare gran parte delle energie vitali toccategli in sorte nell’invenzione di modi e supporti che gli permettano di perpetuare il proprio esserci nel mondo. E allora, se non basta più la continuazione pura e semplice della specie, ecco nascere a poco a poco il culto dei morti, le strutture familiari, l’espressione erotica, la parola, la scrittura, l’architettura, la fotografia e il cinema, internet e i nuovi media, la realtà virtuale e l’intelligenza artificiale…
Sul bisogno primario del lasciar tracce, articolato in forme e “tecnologie” tanto diverse, Jan Matuszyński, classe 1984 e una militanza nel genere documentaristico, decide di fare un biopic. Il soggetto, particolarmente ghiotto, è la vicenda umana della famiglia Beksiński: Zdzisław (Andrzej Seweryn), pittore surrealista di fama mondiale, sua moglie Zofia (Aleksandra Konieczna) ed il figlio Tomasz (Dawid Ogrodnik), appassionato cultore della musica e della cinematografia inglese, ma dalle marcate tendenze nevrotiche. Ne nasce Ostatnia rodzina (L’ultima famiglia, 2016), presentato in Italia nella cornice del CiakPolska Film Festival.
Zdzisław Beksiński, nato nel 1929 a Sanok, è un orgoglio della storia dell’arte polacca. Pittore, scultore, fotografo, le sue opere esplorano il linguaggio di un surrealismo distopico e l’angoscia che scaturisce da un approccio al corpo che potremmo definire perverso, nel senso in cui usa il termine Janine Chasseguet-Smirgel (Éthique et esthétique de la perversion, Champ Vallon, 2006). Perversione, per la psicoanalista francese, non è semplicemente un imbrigliare il mondo nella rigidità di un a priori: ma è, al contrario, un ripensare il mondo, reinterpretarlo, ricrearlo, attraverso i due momenti dell’estetizzazione e dell’idealizzazione. In particolare, perversione può voler dire usare il corpo come generatore di storia e nello stesso tempo come supporto scrittorio, come depositario di tracce. È del 1957, ad esempio, il Corsetto del sadico, un progetto fotografico in cui Beksiński ritrae il “corpo femminile in un modo molto diverso dal nudo tradizionale. Il personaggio viene allontanato dalla fotocamera e viene mostrato in modo frammentario, il viso e le gambe non sono visibili”.
Nel 1977 la famiglia Beksiński si trasferisce nella capitale e Zdzisław, conscio che si tratta di un momento di svolta anche a causa dell’estromissione (in termini psicoanalitici) di Tomasz che va a vivere in un appartamento poco distante, decide di dedicarsi con maggior determinazione a un progetto intrapreso già vent’anni prima: impiegare gli strumenti che il progresso tecnologico gli mette via via a disposizione per documentare lo scorrere della vita comune, articolata tra momenti ordinari e istanze di crisi. Attraverso fotografie prima, e poi registrazioni audiovisive, egli sovrappone all’occhio “partecipante” alla vita familiare l’occhio discreto ma implacabile dell’obiettivo.
Davanti alla macchina da presa si alternano le due personalità, delicate e complesse, di padre e figlio, che trovano nella presenza rassicurante della quieta Zofia un punto essenziale di riferimento. Le vicende della famiglia Beksiński attraversano tre decenni, intrecciandosi senza rumore con la storia nazionale, benché in certi momenti il lasciar tracce emerga come opera corale: in una ripresa in ascensore, ad esempio, sotto il graffito di una piccola forca fa bella mostra di sé la sigla PZPR (Polska Zjednoczona Partia Robotnicza, il partito comunista polacco).
Poi ci saranno il generale miglioramento delle condizioni di vita, l’emergere quasi inavvertito della Polonia dagli anni del regime (e silenziosamente scompare il graffito PZPR dall’ascensore, mentre fanno capolino hamburger e Pepsi Cola), l’affermarsi di Tomasz come critico musicale e traduttore per il cinema; ma questi eventi non determinano, per i Beksiński, anni felici. Al contrario: Zofia morirà nel 1998 e un anno dopo lo stesso Tomasz si toglierà la vita, la vigilia di Natale.
Ma Zdzisław continua ad affidare al proprio progetto di documentalità il nucleo di ricerca e coerenza che ormai è il suo appiglio alla vita. Nuove forme di documentazione, più radicali, vengono man mano prospettate, precorrendo i tempi in modo sorprendente: al principio del film, ad esempio, uno Zdzisław ormai maturo immaginava le possibilità estreme offerte dalla virtual reality, specie se applicate al soddisfacimento di una versione post-moderna ed eroticizzata del sogno di Pigmalione.
Nel finale, però, ritorna prepotente la dimensione della carne: Zdzisław verrà trafitto con 17 coltellate da Robert Kupiec, figlio adolescente della sua badante, e il corpo torna a essere supporto estremo, e paradossale, di scrittura, in una drammatizzazione del rapporto dualistico che legava il padre al figlio. Allo stesso modo, nella Colonia penale di Kafka l’ufficiale finisce per scontare la colpa imputata al condannato.
Leslie Felperin ha parlato di debiti verso la commedia noir romena, pensando in particolare ad un Cristi Puiu o ad un Cristian Mungiu (The Guardian, 3 novembre 2016). Ma a noi sembra di ritrovare in Ostatnia rodzina, una suggestione, forse inconsapevole, del gesto di Sada Abe, che in Ai no korīda di Nagisa Oshima scrive sul corpo dell’amante da lei ucciso ed evirato, col sangue sgorgato dalla ferita di lui come un flusso mestruale, la formula che ne consacra l’unione oltre la decadenza verso la materia e la morte: per giungere, come scrive Pier Vittorio Tondelli, all’ampliamento “delle ragioni di Eros in modo tale da poter consentire a […] rappresentanti della specie l’accesso a un universo trasformato, qualitativamente più ricco e più ampio”.