Polonia e Russia vengono prese in questo agile e denso libretto intitolato appunto “Fra Oriente Europeo e Occidente Slavo. Russia e Polonia“, a cartine di tornasole di una separazione acquisita dalla slavistica: quella tra slavia latina e slavia greca (altre sono state le proposte di denominazione, tutte passate in rassegna dall’autore, Luigi Marinelli, nei primi due capitoli). Ora, quale che sia la soluzione terminologica che scegliamo di adottare, la questione non cambia. L’autore ricorda inoltre – premessa indispensabile a ciò che seguirà – che la slavia greco ortodossa fu caratterizzata per secoli da una ulteriore frattura al proprio interno: da una parte la slavia ruteno-russa pressata e dominata dai mongoli almeno fino al regno di Ivan III (1462-1505), regno che diede il via all’ascesa politico-militare della Moscovia; dall’altra la slavia balcanica, lungamente dominata dalla potenza turco-musulmana.
Non esistette invece questa frattura all’interno della slavia latina che, di fatto, finì per essere attore importante, a volte defilato ma comunque non secondario del dibattito culturale che spesso si ritiene appannaggio solo dell’Europa romanzo – germanica. Si pensi a quest’ultimo proposito agli strali di Benedetto Croce nei confronti della cultura russa, ritenuta inessenziale: “la sterminata quantità di teorie storiche e sociali e religiose e morali, compilate dagli scrittori russi, non ha fruttato nulla alla scienza, e nulla che meriti di esser segnalato nella storia di questa” (citato a p. 15) o al Curtius di Letteratura Europea e Medioevo Latino, per cui l’Europa non va oltre lo spazio geografico del mondo germanico.
Quali dunque i tratti distintivi di queste due slavie, soprattutto a livello culturale? E in cosa tali tratti distintivi sono più o meno debitori, più o meno accostabili a quelli della cosiddetta “Europa Occidentale”?
L’idea di fondo di Marinelli – che poi non è solo sua e lo studioso lo riconosce senza problemi – è che la scollatura originaria tra Russia e Polonia stia nel diverso sistema politico che s’instaurò nei due Stati: da una parte una Repubblica nobiliare, con un re elettivo e sostanzialmente allineato ai desideri della nobiltà; dall’altra una monarchia assoluta; e poi ancora, in Polonia documenti come gli articoli enriciani del 1573, che vietavano al re designare in vita il suo successore; l’obbligo di preservare la pace interconfessionale e di discutere le questioni inerenti la pace e la guerra con il Senato e il Sejm; dall’altra invece, un sovrano assoluto, lo zar, che non si faceva problemi a chiamare i propri sudditi “schiavi”. Su questi presupposti s’innesta inoltre, nel popolo russo (utilizzo la parola “russo” per comodità espositiva) il principio fideistico che Vasilij Osipovič Ključevskji (1841-1911), storico e membro dell’Accademia delle Scienze di Mosca riconduceva all’eredità bizantina, ovvero, in russo: Веруй, но не умствуй, “credi, non raziocinare”, che suona come l’esatto opposto del cartesiano Cogito ergo sum e dell’agostiniano si fallor, sum, ovvero l’esatto opposto di quel “fondamento ontologico individualistico su cui si è sviluppata la società dell’occidente europeo” (Marinelli, p. 30).
Di qui dunque una sostanziale frattura tra una Russia in cui vige il primato dell’entità statuale a scapito dell’individuo e una Polonia in cui predominano le libertà individuali a scapito dello strapotere statuale.
Marinelli decide allora di sondare questa dicotomia in una sfera peculiare della vita di una nazione, vale a dire quella culturale, e lo fa nel capitolo più ampio del suo volume, proponendo cinque “vite parallele”, dieci personaggi, uno legato alla Polonia, l’altro alla Russia, con il loro modo di guardare alla controparte.
La prima coppia è costituita dal Filippo Bonaccorsi (San Gimignano 1437- Cracovia 1496) e Michele Trivolis. Il primo è una tipica figura di umanista italiano, coinvolto nella congiura per assassinare papa Paolo II, si rifugiò prima a presso gli Ottomani come ambasciatore di Venezia, poi a Buda; divenne in seguito protetto del vescovo Gregorio di Sanok (cittadina polacca sui Carpazi) e infine consigliere culturale alla corte di Cracovia, dove morì il 1 novembre 1496 e fu sepolto con tutti gli onori. Tralasciandone altri, val la pena ricordare il suo merito forse maggiore, quello di essere stato l’organizzatore di quella Sodalitas litteraria Vistulana – sorta di Accademia sul modello di quella romana di Pomponio Leto – da cui passarono personaggi come Niccolò Copernico.
Michele Trivolis, noto come Massimo il Greco (Arta, odierna Albania 1470 ca.-1556 Mosca), allievo di Giano Laskaris, dopo un’iniziale formazione veneziana (lavorò per Aldo Manuzio) e poi fiorentina (segretario di Pico della Mirandola), si riconvertì alle sue origini “orientali”, prendendo i voti monastici sul monte Athos. Fu chiamato alla corte moscovita dal padre di Ivan il Terribile, con il preciso incarico di una revisione, da condursi sull’originale greco, del Salterio commentato e di altri testi liturgici. A Mosca non rinunciò a dire la sua su questioni importanti come quella delle proprietà ecclesiastiche e fu accusato per due volte di eresia; nell’ultimo quarantennio della sua vita chiese più volte senza successo di essere rimandato al monte Athos e morì in un non meglio precisato giorno del 1556 nel monastero della Trinità di S. Sergio a Mosca. Otterrà un riconoscimento postumo solo nel 1988: in occasione del millenario della conversione della Rus’ kieviana verrà santificato.
Mi sono dilungato sulle biografie di questi due personaggi, poco familiari ai non specialisti, perché mi pare bastino da sole a palesare le differenze esistenti tra la corte moscovita e quella cracoviana, e sulle modalità di esercizio del potere politico che in esse si esercitava.
Voltaire e Rousseau non hanno invece bisogno di presentazioni. Il primo, entusiasta sostenitore di Caterina II, scrive una lettera datata 18 maggio 1767 alla marchesa Du Deffand esaltando la marcia di 50mila uomini della zarina, che avrebbero portato in Polonia “la tolleranza e la liberta di coscienza”. Marinelli ricorda di come il filosofo avesse appena ricevuto dall’imperatrice medaglie d’oro e preziosissime pellicce…
Rousseau invece, nelle sue Considération sur le government de la Pologne et sur sa reformation progetée, 1772, esprimeva giudizi diametralmente opposti a quelli di Voltaire, idealizzando al parossismo le istituzioni democratico-repubblicane polacche, che venivano a coincidere con i suoi stessi sogni.
Ora, pare riscontrabile in questi due atteggiamenti, l’atteggiamento ambivalente dell'”Occidente” tout court nei confronti del mondo slavo: timore del diverso vs interesse e apertura per l’altro; ragion di stato vs utopia; militarismo vs ideale democratico; e le preoccupazioni espresse da Rousseau per la Polonia in procinto – succederà di lì a un ventennio – di essere smembrata e scomparire dalle carte geografiche, va ben al di là della contingenza: è la preoccupazione per la salvaguardia dell’identità nazionale e della tradizione nel contesto della tradizione europea. E, aggiungo, non è forse questo l’atteggiamento di molta Europa Occidentale? La Russia come speranza di rigenerazione (il Sol dell’Avvenire) o come barbaritas da arginare grazie all’antemurale Christianitatis che per secoli è stata considerata la Polonia (e la stessa Polonia si è considerata tale). Del resto, ho già avuto modo di ricordare in altra sede, di come alle elezioni politiche italiane del 1948 la propaganda anticomunista stampasse volantini in cui l’homus sovieticus aveva le fattezze del mongolo, dell’assoluta alterità.
La terza coppia è quella formata da Aleksander Puškin e Adam Mickiewicz, entrambi massimi rappresentanti del romanticismo nei rispettivi Paesi e, per un periodo delle proprie esistenze, amici.
Se Il cavaliere di Bronzo del poeta russo è racconto di una forza cieca e distruttiva a cui tutto soccombe, incarnazione di una Storia a cui non si può che piegare il capo, Mickiewicz per converso, nell’ Episodio (ma si potrebbe anche dire: Epilogo, Digressione) del suo monumentale dramma poetico Dziady [Gli avi] descrive l’innaturalità della Terza Roma (Mosca), con la sua propaggine baltica di Pietroburgo, attraverso il parallelo di due statue equestri: da una parte la nobile calma che emana dal cavallo di Marco Aurelio a Roma (sul Campidoglio) e che porterà il proprio cavaliere – “padre di milioni di figli” – all’immortalità; dall’altra, il “bucefalo” (è parola di Mickiewicz) di Pietro che lascia presagire una corsa sfrenata e distruttrice dell’autocrate russo. Ma, e qui Marinelli cita direttamente Mickiewicz, “come il sole della libertà splenda / e il vento di ponente scaldi questo impero, / che mai avverrà di questa cascata di tirannia?”. Siamo di fronte sostanzialmente a due opposte concezioni della Storia, come avevo più sopra anticipato: da una parte il prevalere dello Stato sull’individuo, che, se necessario ai meccanismi del potere, viene travolto; dall’altra quella concezione “civica”, propria alla tradizione polacca, per cui il singolo prevale sulla statualità.
La stessa identica dicotomia ricompare anche nella quarta coppia: Glinka / Sienkiewicz. Il compositore russo musicò Ivan Susanin (1836), libretto di Egor Rosen e Vasilij Žukovskij. Il contadino che dà il titolo all’opera, non rivelando a un gruppo di polacchi il luogo in cui si trovasse lo zar, salvò la vita a quest’ultimo. Quello che più importa in questa sede è che Ivan è un personaggio “spersonalizzato”: esiste solo e soltanto in funzione dello zar, null’altro sappiamo di lui.
Jan Onufry Zagłoba è invece uno dei personaggi della Trilogia di Henryk Sienkiewicz – noto ai più per il romanzo Quo vadis. I romanzi che la compongono (Col ferro e col fuoco; Il diluvio; Il Signor Wołodyjowski) racconta la storia della Polonia dal 1647 al 1673, ovvero la cosiddetta Guerra Cosacca (1648-1657), il “diluvio” (invasione) svedese del 1655-1660, la guerra contro i Turchi 1668-1673. Ebbene, Zabłoga, che pure a differenza di Susanin è un personaggio totalmente inventato, letterario, è molto più reale del contadino russo: incarnazione letteraria dello szlachcic (nobile) polacco, ne ha tutte le qualità (il senso dell’onore, della libertà e della persona umana) ma anche i difetti, che Sienkiewicz non nasconde: è incline all’alcool, alle risse, alla mitomania e alla pigrizia. Del resto, è lo stesso Sienkiewicz ad aver dichiarato di essersi ispirato, nella costruzione dei propri eroi nazionali, a moschettieri di Dumas, che, come si sa, non erano esattamente degli stinchi di santo.
Infine, occorre ricordare dopo Puškin e Mickiewicz, un’altra coppia di grandi scrittori, quella che mette a confronto Iosif Brodskij e Czesław Miłosz, entrambi premi Nobel per la letteratura (1987 e 1980), entrambi, per motivi diversi, costretti all’esilio e a vivere la condizione dell’esule.
Ciò che colpisce a leggere soprattutto le opere saggistiche dei due (per Brodskij Profilo di Clio e Fuga da Bisanzio, per Miłosz La mia Europa) sono gli atteggiamenti nei confronti della Storia, che solo apparentemente sono in contrasto con quanto abbiamo appena visto. Brodskij, avverso al pari di Miłosz a qualsiasi forma di oppressione e totalitarismo, reagisce alla violenza che la sorte gli ha riservato cercando scampo nei valori di una parola poetica riservata solo a se stessa, fuori dalla storia, solitaria; il poeta polacco invece, non potrebbe mai accettare una simile impostazione: poetare è per lui parlare ad altri, rendere testimonianza, conquistare al Suo paese un posto in Europa. Apparentemente, dicevo, pare venire sconfessato quanto avevo detto fin qui. Ma non è forse l’atteggiamento di Brodskij quello tipico di chi “crede e non raziocina”, per citare la formula di cui sopra? Non è forse l’atteggiamento di chi è rassegnato alla violenza della storia, alla sfrenatezza del cavallo dello zar Pietro? E che, al limite, cerca di sottrarvisi con la poesia?
Chiudono il volumetto due brevi capitoli che ricordano il ruolo giocato dai territori ruteni (l’odierna Ucraina) nel fare da ponte tra le due Slavie, quella orientale e quella occidentale; uno dedicato sostanzialmente al ruolo della Repubblica Ceca nell’ecumene europeo.
Mi sento di condividere la speranza dell’autore di un’Europa a venire che sappia accogliere in sé la ricchezza culturale e le esperienze dolorose del passato di tali nazioni; per farlo, va da sé, occorrerà deporre quella supponenza che sempre ci ha contraddistinti – in quanto “occidentali”; occorrerà smettere di guardare alle “periferie” (ma periferie rispetto a cosa poi? E secondo quali criteri?) come a un luogo dove vivono solo lontani parenti – e magari “poveri”, giusta la folle propensione al monetizzare tutto e tutti. Occorrerà, io credo, senso vero di comunità.