Iwaszkiewicz e l’Italia: un racconto vicendevole

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di Salvatore Greco

Nel panorama della Polonia a scaffale da poche settimane c’è una gradita sorpresa, le Novelle italiane di Jarosław Iwaszkiewicz finalmente disponibili in Italia dai tipi di 21 editore nell’efficace traduzione di Dario Prola. Di Iwaszkiewicz si parla poco e si legge poco, persino per gli standard “modesti” a cui siamo abituati, e quindi la notizia è di quelle che a noi di PoloniCult piacciono parecchio.

Come introdurle  però le Novelle italiane? Potremmo dire, innanzitutto, che per un prosatore così elegante e raffinato esteta le calli di Venezia e le notti siciliane sono un invito a nozze per descrizioni di incredibile lirismo; e potremmo dire anche che, a loro volta, i panorami italiani dicono de l nostro autore molto più di quanto non si creda.

Potremmo dirlo e lo diremo poi, ma per introdurre Iwaszkiewicz facciamo parlare Iwaszkiewicz:
“Per le persone che scrivono, per i poeti e i letterati, nulla è come il viaggiare. Non solo le mutazioni dell’ambiente, ma lo stesso dondolio del vagone, il rumore cadenzato delle ruote ferrate sui binari suscitano nell’intelletto un particolare fermento. Le idee si moltiplicano, il ritmo della poesia diviene racconto e così, invece di osservare e stupirsi per tutte le meraviglie della terra straniera, il viaggiatore s’immerge nei ricordi e da essi nascono le finzioni che, pur non avendo nulla in comune con la realtà circostante, sorgono grazie ad essa. Giunto invece nella città sconosciuta incontra solo più figure a lui ben note e da tempo in attesa di incarnarsi nei suoi personaggi”.

Una premessa semplice per dare coordinate di lettura chiare: le Novelle italiane di Iwaszkiewicz sono racconti di viaggio, ovviamente da non confondere con dei reportage; il narratore è quasi sempre partecipe delle vicende, in alcuni casi addirittura protagonista, ma non bisogna mai perdere di vista decenni di teoria letteraria in maniera così facile, si tratta sempre e comunque di narrativa.

Le storie si svolgono tra Venezia, Firenze e la Sicilia, con un passaggio tra le rovine di Ostia e l’ultimo racconto che -quasi a indicare la conclusione ideale del viaggio- racconta di un giovane benestante polacco di ritorno in patria dopo i suoi viaggi in Italia. In tutte le vicende, tranne un paio, i contatti con gli “autoctoni” sono inesistenti: i protagonisti,  uomini polacchi, vedono in Italia un riverbero delle proprie vicende passate -come il protagonista di uno dei racconti veneziani che attraverso una foto e un fortuito smarrirsi per Venezia ritorna a una storia dolceamara con una donna a Varsavia- o la meta esotica di amori improvvisi e improbabili, come accade al giovane protagonista del racconto fiorentino della raccolta. L’Italia di Iwaszkiewicz in questo senso somiglia a quella di Thomas Mann, un luogo dove le “mollezze” del clima mediterraneo sciolgono finanche in maniera distruttiva le remore morali del compito uomo mitteleuropeo. Non fosse che Iwaszkiewicz di mitteleuropeo ha davvero poco o nulla essendo nato nelle campagne ucraine e istruito a Kiev, e infatti una certa empatia tra il sud slavo di cui l’autore è in qualche modo figlio e le storie siciliane c’è, delicata ma evidente, se non altro nel modo in cui in quei contesti si accomoda più facilmente il tema popolare.

Ritornando alla citazione con cui abbiamo aperto il pezzo, comunque, è indubbiamente vero che le storie esistono quasi a prescindere dalla presenza reale di Iwaszkiewicz in Italia, è il ritmo del viaggio più del viaggio stesso a creare il ritmo delle storie e a fare mulinare i personaggi che, per altro, dall’Italia raccontano molto della Polonia, più o meno involontariamente. Infatti la vita normale e tranquilla descritta nelle Novelle italiane evoca un mondo che non esiste più nel 1947, anno di uscita delle novelle in volume, e che di certo non esisteva mentre Iwaszkiewicz le scriveva. Raccontare di vacanze, amori, profumo di olive e zagara mentre il Paese è distrutto da due fronti di guerra? Com’è possibile? Le accuse non sarebbero mancate all’autore che difatti nella premessa scrive chiaramente:

“Non c’è in questo libro alcuna fuga o il benché minimo tentativo di nascondere la testa sotto la sabbia, ma bensì il ritorno a quegli elementi della nostra vita che restano sempre attuali”.

La risposta -preventiva- di Iwaszkiewicz è il sintomo di un senso di colpa prevedibile da parte di uno scrittore polacco, dopotutto gli anni dell’occupazione avevano cancellato le velleità degli autori che tra le guerre lottavano per poter fare letteratura libera dalle vicende nazionali e avevano rimesso la Storia con l’impegno pressante di raccontarla e onorarla al centro del dibattito, non poteva avere nessun senso parlare di vacanze romane. Ma proprio nella sua excusatio non petita in realtà Iwaszkiewicz racconta un rapporto con il reale più sincero di quanto non si creda, la lettura delle sue Novelle italiane infatti strania a tal punto con la realtà degli anni ’40 in Polonia da non poter passare inosservata, il suo silenzio sui fatti polacchi di quegli anni è il tipico silenzio assordante che -evocando la normalità- ne fa pesare l’assenza. Se nell’intenzione dell’autore la scrittura di questi racconti è stata un esercizio terapeutico per sopravvivere alle frustrazioni e alle paure della guerra, è anche il richiamo nostalgico di un passato difficilmente ritrovabile. È lecito ritrovare in questo simbolismo della memoria un richiamo al capolavoro assoluto di Iwaszkiewicz “Le signorine di Wilko“? Per quanto mi riguarda, certamente.

Per concludere le Novelle italiane svolgono più di un ruolo nella Polonia a scaffale: presentano Iwaszkiewicz a chi non lo conosce e lo fanno in una veste tematicamente accessibile, e a chi già conosce l’autore offrono un arricchimento coerente ed eccentrico allo stesso tempo della sua ampia e pregiatissima produzione in prosa.

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