Per la prima volta su PoloniCult il racconto integrale e inedito dello scrittore polacco contemporaneo Janusz Rudnicki.
introduzione e traduzione a cura di Francesco Annicchiarico ( frannicchiarico@gmail.com )Janusz Rudnicki è nato a Kędzierzyn Koźle in Polonia nel 1956. E’ stato attivista di Solidarność, dunque arrestato nel periodo in cui fu in vigore la legge marziale. È emigrato nel 1983 ad Amburgo, dove ha compiuto studi di slavistica e germanistica. Attualmente si divide tra Germania e Polonia. Ha inaugurato una felice collaborazione con il celebre quotidiano polacco Gazeta Wyborcza, e con la rivista letteraria Chimera.
Ha debuttato con la raccolta di racconti Można żyć (1992). Del 2004 è Mój Wehrmacht, del 2007 Chodźcie, idziemy, per il quale ha ricevuto una nomination al premio NIKE e al Premio Letterario Europeo. La raccolta Śmierć czeskiego psa (“Morte di un cane ceko di cui oggi pubblichiamo il racconto omonimo) è del 2009 ed è stata finalista al premio NIKE, nonché nominato per il premio GDYNIA, il premio “Gwarancja Kultury” di TVP Kultura e il premio letterario ANGELUS. Del 2011 è la seconda edizione di Męka kartoflana, del 2013 la raccolta di racconti Trzy razy tak! e del 2014 Życiorysta.
Le sue opere sono state tradotte in inglese, ceco, giapponese, tedesco e russo.
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Morte di un cane ceko
Un paio di anni fa gli zingari si misero a occupare il campo di concentramento di Bergen-Belsen. In questo modo lottavano per il riconoscimento del loro status di minoranza in Germania; per i risarcimenti, per quello che era successo a suo tempo. Bisognava farlo lì dove in passato si veniva uccisi, ecco perché Bergen-Belsen. Ecco perché c’era stato anche lo sciopero della fame a Dachau (!). Eppure, nessun pezzo grosso se ne fregò molto delle loro proteste, anche se così eclatanti. Questo il motivo che rese la protesta tanto lunga da indurli a mettersi comodi, letteralmente. Fino a che la polizia non li cacciò via, il campo di Bergen-Belsen divenne la loro nuova casa, per un lungo periodo.
Le nove di mattina. Siedo a letto. Testa penzoloni. Occhi chiusi. Colpa dei colombi che tubavano, già dall’alba. Ancora una volta. Un solo colombo, in effetti. Il simbolo dell’amore, della pace e dello Spirito Santo. Il solista. Uno solo è peggio. Il solista è irritante, il coro soporifero. Quindi mi ristendo sulle mie vecchie spalle, bestemmiando.
Mi alzo, mi trascino fino alla buca delle lettere, una di queste è un volantino, è l’anniversario di “Grandi Affari”, quarantanove anni di attività. Mi dirigo verso “Grandi Affari”, magari compro qualcosa. Non compro niente, esco, passo davanti a una rosticceria, polli a prezzi da anniversario, mezzo per due euro, e un panino. Compro, mangio, sulla panchina, c’è sole ed è una bella giornata. Mangio con le mani, come piace a me.
Passa un vecchio signore col suo vecchio cane, il cane zoppica e il vecchio zoppica, temo per il mio pollo, ma anche lui ha un pollo e il suo cane non si cura di me.
Il vecchio signore si siede sulla panchina a fianco, dà da mangiare al cane, il cane mangia. Pure io. Mi squilla il telefono, nella tasca, non posso rispondere, ho le mani sporche, proprio perché mangio con le mani. Mangio e il telefono suona, una musichetta qualunque, era già impostato così, ogni volta voglio cambiarla con un trillo classico, ma mi chiamano tanto raramente che ogni volta me ne dimentico.
Una panchina, il sole, il pollo e questa allegra musichetta imbecille.
Passano due donne, parlano in polacco, sono polacche.
La prima: – Se la spassa quel barbone, eh? La panchina, il sole, il pollo la musica, mica male come picnic.
La seconda: – Che ne sai tu che è un barbone?
La prima: – Come che ne so, non lo vedi anche tu? Scommettiamo.
La seconda: – E come si fa a vedere chi ha ragione?
La prima: – Gli do dei soldi.
La seconda: – Ma smettila. Io dico che è uno zingaro.
Passano, ripassano, ho mangiato, vado a casa. A casa mi stendo, sono sonnolente per colpa di quella sveglia sconquassata. Abbastanza riuscita questa prima mezza giornata. Neanche tanto male direi. Ce ne sono state di peggiori. Mah, tra mattinate o pomeriggi, quante giornate mi sono andate in malora per intero.
Sarei rimasto a vedere cosa avrebbe portato l’altra metà del giorno. Se niente allora non mi sarei lamentato, del resto, poi, di pomeriggi e serate riuscite ne avevo avute molte, un uomo non dovrebbe pretendere troppo se già di suo è una boa solitaria sperduta nel mare della quotidianità, vero?
Avrei dormito, forse qualcosa mi avrebbe svegliato, se niente allora non mi sarei lamentato, neanche se lo avessi voluto, come ci si può lamentare mentre si dorme?
Mi sveglia l’abbaiare di un cane, dal telefono. Il telefono mi sveglia, e nel telefono c’è un cane che abbaia. Mi ha chiamato un cane? Un istante dopo la voce di un uomo in primo piano. Disturbata, molle. Tanto molle da scivolargli tra le gengive. La voce di uomo anziano parla, chiede se sia stato io ad attaccare al palo quel volantino dove dicevo che potevo occuparmi dei cani.
Io dico che sono io.
Lui dice, appunto l’avevo chiamata oggi per questo motivo, ma non mi ha risposto nessuno.
Io dico, beh, effettivamente qualcuno ha chiamato, ma stavo mangiando un pollo proprio in quel momento, con le mani, perché è l’anniversario di “Grandi Affari”, vicino casa, lei mi capisce, non potevo rispondere.
Lui dice, “Grandi Affari”? Anche…anche io stavo lì, ho comprato un pollo per il cane e…
Io dico, il suo cane zoppica, vero?
Lui dice, sì! Anche io zoppico. Ma lei come fa a…
Io dico, chiedo, e ha dato da mangiare del pollo al cane sulla panchina?
Lui dice, proprio lì! Ma lei come fa…ah, quello era lei? Era lei seduto sulla panchina a fianco a mangiare?
Io dico, sì, io. E chiedo, ma allora è stato lei a telefonarmi?
Lui dice, proprio io. E chiede, e quella…quella musichetta…
Io dico, è il mio telefono, ce l’ho al posto dello squillo, dimentico sempre di cambiare la suoneria, sa com’è, mi chiamano raramente…
Lui dice, da non credere, quant’è piccolo il mondo. Lei sulla panchina, io sulla panchina…E chiede, allora, può venire qui da me?
Io dico, certo, e chiedo, quando?
Lui dice, oggi, anche adesso, se può.
Io dico, sì, posso. Ma…dove di preciso?
Lui dice, ah sì, mi scusi, maledetta vecchiaia, ha da scrivere?
Mi dà l’indirizzo, il cognome e parla ancora. Che il cognome sul citofono del palazzo l’ha scritto a mano, tutto storto, ma io, sa signore, dice, scrivo come parlo, e parlo così perché non ho i denti.
Vado, porterò il cane a passeggio, perché no. Ho già avuto un cane una volta, lo avevo, poi è morto. Una femmina di boxer, Asta. Era malata, il veterinario mi disse che sarebbe venuto a sopprimerla, che le avrebbe fatto un’iniezione, un veleno. Era distesa immobile sul pavimento in cucina a guardarmi. Non le davo mai del pollo, per evitare che potesse farsi male con gli ossicini. Uscii, ne comprai mezzo allo spiedo, lo mangiò distesa. Arrivò il veterinario e le diede un sonnifero, dopo di che lei vomitò quell’ultima cenetta e morì. All’epoca abitavo in un palazzo molto vicino al bosco, andai nel bosco, scavai una buca, ritornai a casa, aspettai che facesse buio, altrimenti sai che circo nell’isolato, la distesi su uno slittino, perché era già caduta la neve e lei era pesante, e mi avviai. Camminai avanti e indietro con lei, perché non ricordavo bene dove fosse il posto, ed era buio, cercavo quel buco, il buco non c’era. La lasciai, perché era difficile trascinare lo slittino in mezzo agli alberi, e continuai a cercare da solo, camminavo e mi bestemmiavo da solo, finché finalmente lo vidi, l’avevo trovato, l’avevo scavato per lei e per poco non ci finivo dentro io, finalmente, andai a prenderla, camminavo e camminavo, non c’era, non riuscivo a trovarla! Che succede, che succede?! Asta?! L’urlo quasi mi squarciò la gola, ancora un altro così e me ne sarebbe rimasta solo per fischiare. Alla fine la trovai, quasi ci camminai sopra, e la seppellii, pensando che se un uomo ha un buco, allora non ha un cane, e se ha un cane allora niente buco, o no? E questo è quanto.
Ci sono, citofono, entro, monto le scale, tante di quelle scarpe alle porte sui ballatoi che sembra Auschwitz. Mi presento. Lui dice che si sente male, miseramente, ma il cane bisogna portarlo fuori due volte al giorno, lui non ce la fa più. Dice di zoppicare, pure il cane zoppica, qualche volta bisogna trascinarlo per le scale, o riportarlo a casa in braccio, è troppo pesante per lui. E poi ci sono tante di quelle scarpe in mezzo alle scale che non si può passare, ci abitano i turchi qui, ecco perché. Mi dice di dargli da mangiare, gli ha dato la sua ciotola, così si abituerà presto a me. Haf-Haf, abbaia, cioè, lui abbaia, e dice che così abbaia un cane in ceko. L’ha comprato nel villaggio di Medlov Králová, un bel nome vero? Lui è nato in quel villaggio, per questo s’è portato dietro un cane da lì, per farsi, haf-haf, abbaiare in ceko, e non sentire il solito bau-bau. La sua flebo ceka, questo cane.
Do la ciotola al cane, il cane mangia. Il cane ha mangiato. Lui dice che posso andarci insieme al parco, e che quando torno regoliamo il conto.
Io dico, scherzando, che non c’è problema, che ci metteremo d’accordo meglio che per Zaolzie.
Ride lui per primo, poi rido io.
Scendo le scale col cane, ogni gradino per lui è come un ostacolo della Velká Pardubická. Lo prendo in braccio, è pesante, scendiamo, che gli prenda un colpo a ‘ste scarpe. Camminiamo per strada, tengo il guinzaglio, il cane mi cammina dietro. Lentamente. Di colpo un’ambulanza, sbucata dal nulla, accende la sirena prima dell’incrocio. Passata, tiro il guinzaglio, niente, un macigno. Mi giro, il cane è steso, non si muove. Lo chiamo, tiro, il cane resta per terra. Arriva una donna incinta, si china sul cane, gli tocca il collo, dice che è morto. Le è difficile rialzarsi con quel pancione, l’aiuto ad alzarsi, dice che ora ci manca solo che le si rompano le acque, le chiedo se sia il caso di chiamare un’ambulanza, dice di no, che è ancora troppo presto e che è meglio che mi occupi del cane.
Dico di farcela, che il suo pancione è più importante. Prendo il cane in braccio, pesante come un televisore e me ne vado. Lo porto su una panchina, mi siedo con lui sulla panchina, ci sediamo sulla panchina. Il suo muso ceko sulle mie ginocchia polacche. Titillo un po’ il suo musetto. Lo accarezzo come se dormisse, non voglio suscitare scalpore. Penso a cos’altro fare. Un taxi non me lo prenderebbe. Portarlo a casa in braccio? È pesante, ma non c’è altra via d’uscita. Mi alzo, voglio tenerlo come un bambino, così come si tiene un bambino per fargli fare il ruttino, con la testa sulle spalle, ma è troppo grosso, allora lo porto così, penzoloni dal braccio, lo porto come i soldati o i pompieri portano in braccio i bambini feriti o ustionati. La gente si volta, commenta, chiede cosa è successo, io rispondo che è stato anestetizzato per un’intervento e non riesce a svegliarsi, vecchio com’è. I bambini mi chiedono come si chiama, non lo so, ho dimenticato di chiederlo e il ceko ha dimenticato di dirmelo, maledetta vecchiaia, quindi ci rifletto un momento, rispondo che si chiama Pepik, i bimbi mi vengono dietro, strillano Pepik, Pepik svegliati, sempre più bimbi.
Tanti che ormai mi trovo alla testa di una piccola processione, inizia a formarsi del traffico perché si fermano alcune macchine incuriosite, dietro di loro la gente bussa sui clacson…niente male come funerale per un immigrato ceko del villaggio di Medrov Králová.
Un bel nome… Medrov Králová.
Non so che fare, vedo un’officina dove riparano i televisori, ne ho le tasche piene di questa processione, ci entro. Una donna alla vista di me col cane e della ressa fuori dalla finestra sviene, sbuca dal retrobottega un uomo, guarda me, il cane e la Stesa, si incanta anche lui, perciò l’officina di televisori si trasforma in un’officina di automi immobili, nella quale l’unico visitatore sotto forma di me stesso stende il cane a terra, chiude la porta e rianima la Stesa. La Stesa si alza, racconto cosa è successo, non mi stanno a sentire, la Stesa prova a sbarazzarsi del Tizio in piedi con un “Alt, zitto tu!”, che perdita di tempo, mi guardo intorno, cerco un cartone grande, vedo un cartone grande, ci infilo il cane dentro, fatto, guardo dalla finestra se c’è via libera, è libera, esco, pesante questo cartone, lo tengo in braccio, penso che chiamerò un taxi col telefono, solo ora posso farlo, lascio il cartone per terra, voglio chiamare un taxi, non ho il numero, lascio il cartone lì per terra, torno all’officina, il Tizio in piedi sta già meglio: ora siede, la Stesa china su di lui: è in piedi, chiedo il numero del taxi, me lo danno, chiamo, prenoto il taxi, esco, il cartone non c’è.
Scomparso.
Guardo a destra, a sinistra, non c’è.
Dov’è il cartone?!
C’è qualcuno alla fermata del bus, sembra un controllore, magari lo è, chiedo del cartone, l’ho posato qui un attimo fa e non c’è più. Il televisore? L’hanno preso gli zingari, sono arrivati in macchina e l’hanno preso, era suo? Beh, l’hanno rubato, quei ladri, io ho visto tutto, quelli si fregano tutto.
E come mandarla giù una cosa così? Ladri di televisori a forma di cane? Il mondo oggi va a rotoli a spese mie. Il cuore mi batte come una campana. E nelle orecchie mi risuonano le campane, non riesco a sentire niente. Chiedo al Controllore se le sente anche lui queste campane, ma lui non mi sente, mi urla di parlare più forte perché ci sono le campane che suonano, dalla chiesa a fianco. Ma tra un battito di campana e l’altro, come se già non fosse troppo, qualcosa strombazza, mi volto, è il taxi, il Tassista mi chiede se sia stato io col telefonino ad aver chiamato una vetturina, rispondo di sì e d’improvviso mi balza un pensiero in testa che non mi riesce di sbalzare fuori, perché tutto questo? Devo tornare dal tipo e poi? Cosa gli dico al Vecchio Ceko? Che il cane è morto stecchito? Che faccia gli faccio quando dirà va bene, ma dov’è? Gli dico che si è suicidato e poi si è dato alla macchia, o che me l’hanno rubato per guardare la tivù?
Perciò chiedo al Controllore da che parte siano andati quelli col mio cartone, il Controllore mi mostra dove, chiedo con quale auto, il Controllore mi dice con quale, con una strana, simile ad un carro funebre, salgo sul taxi, dico cos’è successo, dico che dobbiamo ingaggiare una specie d’inseguimento, il Tassista chiede, tanto per dire, quale macchina dobbiamo inseguire, gli dico quale, partiamo.
Così veloce che per poco non gli si stacca Gesù Cristo dal parabrezza.
Il Tassista è preso dall’inseguimento, io ancora di più, e poi, all’improvviso, una specie di musichina idiota alla radio, alla radio? No, è il mio telefono, non rispondo, è il Vecchio Ceko, di certo è lui, un incrocio, da che parte andiamo adesso? Ci rinuncio, tutto questo non ha senso, voglio scendere, il Tassista mi dice di non mollare e di non scendere, e che se mi frulla qualcosa di brutto in testa, allora è il caso di pensare che al mondo non c’è camicia che non si possa stirare. Il Tassista dice che così dice sua moglie, che è una che ha studiato, e che lui conosce un posto dove loro, gli Zingari, sono proprio tantissimi. E ci stanno di notte, e di giorno, a menare il can per l’aia, come fossero in un museo a cielo aperto, nel bel mezzo di Bergen-Belsen, l’istinto non l’ha ancora tradito, mai, anche un cecchino, dice lui, ogni tanto può sbagliare, ma un tassista giammai.
Mi pare proprio strano, Bergen-Belsen è stata un campo di concentramento, appunto, dice il Tassista, appunto signore caro, è proprio qui che se ne sbarazzarono. Sospiro, siamo un po’ lontani da Amburgo, non devo preoccuparmi, lui spegne il tassametro, andiamo a tariffa adesso, andiamo allora?
Andiamo. Velocemente. Quasi quanto questa storia gira in tondo.
Siamo arrivati. Il Tassista si ferma sulla porta, quella dell’auto, in mezzo ad auto simili a carri funebri. Il Tassista col pretesto che gli fregano il mezzo resterà qui ad aspettare, entro dunque da solo. Mi fermo al cancello. Nel campo fiammeggia un falò, mamme sparpagliate qua e là allattano neonati attaccati qua e là, i bambini giocano a nascondino, gli uomini giocano a carte. Resto immobile all’entrata, mi guardano.
Ovest, ho il sole dietro di me, dietro alle spalle, davanti a me si stende una lunga ombra.
Le mamme smettono di allattare, i bambini escono dai nascondigli, gli uomini smettono di giocare.
Cerco con gli occhi il mio cartone, non lo trovo. Si alza uno degli uomini, forse uno importante, viene verso di me. Penso a cosa dirgli, magari che se non mi ridanno il cartone col cane me ne vado, ma ritorno stanotte e li brucio vivi tutti?
Apro la bocca, ma l’Importante è più svelto, con un tedesco arrancante in più punti parla, le do il benvenuto signore nei nostri tragici alloggi, lei è il primo tedesco che scende a trovarci. Lei è un uomo che ha fretta di salvare l’onore del popolo tedesco. Di conseguenza a questo fatto, signore, avrebbe lei piacere a prendere parte ad una cena condivisa insieme a noi tutti?
Dico, un momento, torno subito, vado dal Tassista, gli dico di andarsene, io resto qui, gli spiego perché, dico che esistono cose che è impossibile disdire.
Il Tassista mi dice di scappare via da qui, che c’è qualcosa che non va in questo posto, ha visto tanta polizia, e un po’ se la fa sotto.
Non posso, dico, non posso, abito in questo paese da vent’anni ed è il caso che faccia io qualcosa per lui, e non solamente vendicarmi della seconda guerra mondiale, sebbene sia uno dei miei sport preferiti.
Il Tassista comprende, mi augura che il Signore sia con me, rispondo di no, è meglio che Dio resti con lui, visto che per il suo mestiere Dio è più importante, il Tassista ringrazia per avergli reso Dio, sale in macchina e se ne va, io torno al campo.
Mi stanno già aspettando vicino al Grande Fuoco, ricevo il posto d’onore e alcuni fiori, gli uomini iniziano a suonare, le donne iniziano a ballare, i bambini si siedono vicino ai miei piedi.
Distribuiscono cibo dallo spiedo, ricevo un piatto di carne fumante, sono affamato, mezzo pollo per tutto il giorno è pochino, inizio a mangiare, con le mani, come piace a me.
Siedo e mangio con coloro che abitano il suolo dove vennero letteralmente polverizzati i loro antenati.
Inghiotto il primo boccone, strano sapore, chiedo, ma che carne è, parla l’Importante, non importa, dice, importa che sappia di buono, guardo verso lo spiedo, poi alla carne e in un istante mi spengo, lampadina fulminata.
Non starò mica inghiottendo la flebo del Vecchio Ceko?
Mi sento mancare, sverrei se non fosse per una musichetta imbecille, è il telefono che mi squilla. Non posso rispondere, ho le mani unte, proprio perché mangio con le mani, come piace a me, passano due polacche per il campo, una dice, lo vedi che è uno zingaro, c’avrei scommesso.