L’incredibile storia di Mission to Moscow, film sovietico di produzione hollywoodiana.
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di Andrea Ferrario
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Uno dei film stalinisti più “fedeli alla linea” è stato prodotto non a Mosca o in qualche altra capitale del blocco sovietico, bensì a Hollywood. E non si tratta di un film di serie B, o prodotto in semiclandestinità da qualche cineasta marginale, ma di una produzione costosa e promossa con notevole dispiego di mezzi sul mercato statunitense. Stiamo parlando di Mission to Moscow, una pellicola del 1943 prodotta da uno dei maggiori studi americani, la Warner Bros, che tesse spudoratamente le lodi del regime di Stalin, giustificandone senza riserve le politiche di terrore e dipingendo allo stesso tempo l’Unione Sovietica degli anni trenta del secolo scorso quasi come un paradiso in terra. Il film è diretto da un regista hollywoodiano di grande successo come Michael Curtiz, che ha firmato la regia di molte pellicole rimaste nella storia del cinema, tra tutte Casablanca del 1942, per il quale aveva ottenuto l’Oscar appena prima di girare Mission to Moscow. Ironia della sorte, subito dopo questo film Curtiz ha diretto This Is the Army, interpretato dal futuro presidente degli Stati Uniti e grande anticomunista Ronald Reagan. L’autore della sceneggiatura è anch’egli di primo piano: Howard Koch, che aveva firmato lo script del già citato Casablanca e successivamente avrebbe scritto la sceneggiatura di un classico del cinema Usa come Lettere da una sconosciuta di Max Ophüls (1948). La colonna sonora è di Max Steiner (che aveva composto la musica di Via col vento, 1939) e l’interprete principale è Walter Huston, un popolare attore che di lì a qualche anno sarebbe stato coprotagonista insieme a Humphrey Bogart di un classico come Il tesoro della Sierra Madre (1948), diretto dal figlio John Huston.
Mission to Moscow si basa sull’omonimo libro autobiografico di Joseph Davies, ex ambasciatore Usa a Mosca dal 1936 al 1939, un bestseller che aveva venduto oltre 700.000 copie. Davies è stato un acceso ammiratore di Stalin e del suo regime e alla fine del suo mandato aveva incontrato il leader sovietico dichiarandogli che “la storia la ricorderà come un grande edificatore che ha lavorato per il bene dell’umanità”, una frase che viene ripresa anche nel film. Negli anni quaranta del secolo scorso l’amministrazione Usa sentiva il pressante bisogno di rendere accettabile agli occhi di un pubblico molto scettico l’alleanza con l’Unione Sovietica comunista. Nell’ambito di questa linea, Hollywood ha prodotto durante il periodo della Seconda guerra mondiale alcuni film, oggi tutti dimenticati, mirati a presentare l’Urss e, soprattutto i suoi abitanti, come buoni e umani. Si possono citare come esempi la pellicola romantico-musicale Song of Russia (1941), il film di guerra The North Star (1943), la commedia Three Russian Girls (1943) e il dramma The Boy from Stalingrad (1943). A questi titoli si aggiunge il divertente breve cartone animato Russian Rhapsody, in cui un folletto Stalin, insieme ai suoi gremlins from the Kremlin, sabota un aereo da guerra diretto verso Mosca e pilotato da un furioso quanto idiota Adolf Hitler. Si tratta però di opere che si limitano a inviare un messaggio antinazista e di solidarietà tra il popolo statunitense e quello sovietico, senza toccare la politica interna dell’Urss. “Mission to Moscow” è invece l’esatto contrario e dall’inizio alla fine è un film interamente politico. L’idea di realizzarlo è dello stesso ex ambasciatotre Davies, che ha ricevuto a tale fine tutto il sostegno politico e organizzativo delll’amministrazione del presidente Franklin D. Roosevelt, di cui era amico personale.
La trama di Mission to Moscow è piuttosto rozza. È l’anno 1936, i venti di guerra soffiano già forti sull’Europa e Davies viene nominato ambasciatore a Mosca personalmente dal presidente Roosevelt, con il mandato specifico di sondare se l’Urss è disponibile e pronta a un’eventuale guerra contro la Germania nazista a fianco degli Usa. Davies si reca a Mosca con la moglie e la figlia, facendo tappa in una Berlino evidentemente già pronta alla guerra e sotto il tallone di ferro dei nazisti. Arrivato nella capitale sovietica vi trova invece un’atmosfera rilassata, quasi gioiosa. Si incontra con vari dirigenti politici, in particolare Kalinin e Molotov. Visita il paese e partecipa a ricevimenti, per poi assistere alle sedute di uno dei megaprocessi contro i sabotatori “nazi-trockisti” che vede sul banco degli imputati, tra gli altri, Nikolaj Bucharin, Genrich Jagoda e Karl Radek, e nel ruolo di pubblica accusa il procuratore generale Andrej Vyšinskij. Alla fine del suo mandato Davies incontra Stalin. Successivamente l’ex ambasciatore incontra Churchill raccomandandogli un’alleanza con l’Urss e viene a conoscenza della firma del patto Molotov-Ribbentrop, che durante un giro di conferenze anti-isolazioniste difende come strategia per dare tempo agli Usa di prepararsi alla guerra. Intanto Hitler ha invaso la Polonia e poi i giapponesi hanno bombardato Pearl Harbor. Il film termina con un lungo parlato sovrapposto prima a scene di guerra e poi a immagini di un’umanità che marcia verso un futuro di pace e libertà.
Buona parte del film è un “one-man show” dell’egocentrico Davies. Mission to Moscow si apre con una lunga quanto verbosa introduzione dello stesso ex ambasciatore in persona e nel suo svolgersi non abbandona mai questo tono pesantemente didattico. La schematicità con la quale vengono ritratti i personaggi è disarmante. Dirigenti dell’apparato staliniano come Molotov, Kalinin o lo stesso Stalin hanno un aspetto eternamente bonario e sorridente, mentre già prima di essere smascherati Bucharin, Jagoda e Radek vengono dipinti con un ghigno lombrosiano. L’Unione Sovietica è un paese del bengodi, appena ne hanno varcato i confini l’ambasciatore e la sua famiglia sembrano entrati in un mondo da favola e si concedono un ricco pranzo a base di carne e pesce presso il buffet di una stazione, in un periodo in cui nell’Urss reale si faceva invece la fame. L’intero film è teso a dimostrare come tra la “american way of life” e la “stalinist way of life” non ci siano sostanziali differenze. Ci sono momenti grotteschi, per esempio quando la moglie dell’ambasciatore Davies si incontra con una borghesissima signora Molotov nel lussuoso negozio di profumi gestito da quest’ultima. E ci sono altri momenti che riprendono pari passo i più abusati cliché della cinematografia stalinista, come il viaggio dell’ambasciatore nel paese, descritto con una successione di riprese di fabbriche di trattori, di dighe monumentali, di acciaierie, di miniere e di stakhanovisti al lavoro. Nel film non manca nemmeno la tradizionale parata militare sulla Piazza Rossa, alla quale Davies assiste con entusiasmo. Le immagini dell’esplosione in una fabbrica introducono poi un altro tema classico del cinema stalinista, quello dei sabotatori. L’aspetto forse più agghiacciante di questo film è proprio il modo in cui, con l’aiuto di una lunga quanto stalinianamente ortodossa ricostruzione del terzo processo del 1938 contro i sabotatori, giustifica per intero e senza riserve la politica del terrore instaurata da Stalin. Secondo il film gli “agenti nemici” Bucharin, Jagoda e Radek sono al servizio non solo dei nazisti, ma anche del principale oppositore di Stalin, gioè Lev Trockij. L’aguzzino Vyšinskij viene ritratto come un uomo inflessibile, ma giusto e ragionevole, che in altre sequenze in cui viene ripreso un ricevimento discute amabilmente con un ammirato Davies. E’ difficile trovare nella cinematografia sovietica un film altrettanto ossequioso nei confronti dei dogmi staliniani di allora. Tanto che questa lunga e noiosa pellicola hollywoodiana in bianco e nero è lontana anni luce dall’avere il forte impatto estetico che, nonostante i loro indigeribili contenuti politici, hanno classici del cinema stalinista “doc” come il sovietico Pad Berlina (La caduta di Berlino, 1950), con le sue forti dosi di follia drammatica e visiva, o il cecoslovacco Zítra se bude tančit všude (“Domani si ballerà ovunque”, 1952), con la sua esuberanza di colori, musica e giovani corpi.
Mission to Moscow è stato un flop totale al botteghino Usa. Costato circa 2 milioni di dollari, una cifra molto alta per quei tempi, ha chiuso con un passivo di 600.000 dollari, classificandosi all’84° posto sui 95 film di produzione nazionale proiettati quell’anno negli Usa. Il pubblico di massa americano evidentemente non era così ingenuo come i produttori della Warner Bros e Roosevelt pensavano. Va comunque tenuto conto che Mission to Moscow è stato proiettato gratuitamente a centinaia di migliaia di militari Usa a quel tempo mobilitati. Il film è stato pressoché ignorato dalla critica statunitense mainstream e/o conservatrice, mentre è stato duramente attaccato da quella trockista e radicale di sinistra, che ai tempi aveva ancora una certa rilevanza negli Usa. Mission to Moscow ha avuto una distribuzione anche nell’Urss. Lo stesso ambasciatore, sempre su incarico del presidente Roosevelt, ne ha infatti portato una copia in omaggio a Stalin che, visionatala insieme a lui nella sua sala privata, la ha apprezzata e ha deciso l’acquisto dei diritti per la sua proiezione nelle sale sovietiche. Non sono purtroppo reperibili dati sul numero di spettatori che ha avuto nella “patria del socialismo”. È interessante notare che l’Urss alla fine delle guerra ha acquistato ben altri 73 film di Hollywood, distribuiti poi nelle sale fino al 1947, anno in cui cessò ogni collaborazione tra Mosca e Washington. Mission to Moscow ha avuto una breve seconda vita ai tempi del maccartismo, quando il suo sceneggiatore Howard Koch, che era tra l’altro un sincero militante della sinistra antistalinista e aveva scritto la sceneggiatura solo perché gli era stata imposta da Warner, è stato incriminato a causa proprio di questo film (per poi finire nella famigerata “lista nera”) e Jack Warner, presidente della Warner Bros è stato chiamato sul banco dei testimoni, una testimonianza che lo ha messo a dura prova e ha rischiato di farlo passare sul banco degli imputati. Si è salvato in corner richiamando l’attenzione dei giudici sul fatto che il film era stato criticato non tanto dai “patrioti” di destra, quanto dai trockisti, cioè dai comunisti. Successivamente il film è giustamente finito nel dimenticatoio.
Si chiude così un breve e curioso capitolo della storia delle relazioni tra l’Unione Sovietica e Hollywood, un rapporto che fino all’inizio della Guerra Fredda è stato rilevante. I registi dell’avanguardia sovietica guardavano infatti per la maggior parte al cinema americano come modello dal quale partire, sebbene con l’obiettivo di seguire un percorso molto diverso. E il pubblico sovietico di massa ha sempre dato la propria preferenza ai film di Hollywood, regolarmente proiettati nelle sale fino agli anni trenta con enorme successo. Tanto che la visita di due star come Mary Pickford e Douglas Fairbanks a Mosca nel 1926 è stata salutata da folle entusiaste. Lo stesso Stalin, una volta consolidato negli anni trenta il proprio potere, aveva accolto con favore, approvandolo, il progetto del produttore Boris Šumjackij di realizzare in Russia una Hollywood sovietica improntata sul modello dell’originale americano. Il progetto poi naufragò perché i costi erano troppo alti per un’Urss che si stava preparando all’imminente guerra, e Šumjackij finì in disgrazia per infine essere ucciso in una delle numerose purghe dell’epoca.