Maus – l’Olocausto per immagini

Maus

Il racconto più inconsueto mai fatto dell’Olocausto, la graphic novel Maus.

di Mara Giacalone
 

Adorno sosteneva l’impossibilità di tornare a scrivere poesia dopo Auschwitz e molti altri autori, come Tadeusz Borowski, si sono pronunciati in merito alla “forma” della scrittura della letteratura su Auschwitz.

Fa strano quindi che ci sia stato qualcuno che abbia voluto rappresentare tale tragedia tramite il disegno, o meglio, attraverso una graphic novel. Si è soliti declassare o nemmeno prendere in considerazione i fumetti: perchè dunque farlo ora e soprattutto farlo nei confronti della Shoah? Non è una mancanza di rispetto? Non è un prendere alla leggera un tema così delicato?

Il lavoro di cui sto parlando è Maus, graphic novel ad opera di Art Spiegelman pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti tra il 1986 e il 1991; in Italia è ora disponibile per Einaudi, ma la prima pubblicazione fu di Rizzoli nel 1989.

Il testo, vincitore del Premio Pulitzer nel 1992, è diviso in due parti: la prima Mio padre sanguina storia composta da sei capitoli e la seconda E qui sono cominciati i miei guai di cinque capitoli; a ciò si aggiunge l’intermezzo Prigioniero sul pianeta inferno.

MausProtagonista della vicenda è il padre dell’autore, Vladek, ebreo polacco sopravvissuto alla guerra; ma protagonista è anche Art, il quale si auto-disegna all’interno del fumetto per spiegare al lettore come ha costruito il racconto. Ciò che è interessante sono proprio le modalità della rappresentazione usate da Spiegelman: la narrazione si dipana in due filoni che proseguono paralleli, convergono e si separano. Da una parte abbiamo la narrazione “contemporanea” in cui vediamo l’autore recarsi a casa del padre per registrare le sue memorie, scopriamo la sua malattia, le sue debolezze, conosciamo cosa è stato dopo Auschwitz, veniamo trasportati nella loro intima quotidianità in modo che la finzione narrativa possa cadere, rendendo noi lettori ospiti della loro realtà; abbiamo poi una serie di lunghi flashback nei quali prende corpo l’esperienza di Vladek durante la Seconda Guerra Mondiale.

Ciò che appare davvero degno di nota, è che Art Spiegelman non si tira indietro nella rappresentazione, così che né lui né il padre risultino molto simpatici. Bisogna capire che l’intento non è quello di far sì che il pubblico si affezioni al protagonista, come in un romanzetto d’amore, ma quello di raccontare in modo oggettivo la storia: afferma Vladek in una vignetta “Qui io ero testimone oculare”. Ecco uno dei motivi per cui questa graphic novel può, e riesce, a entrare in quella Letteratura vera sull’olocausto.

Tutto ciò che è narrato non è edulcorato, non passa attraverso filtri né lenti, arriva direttamente dalla bocca del sopravvissuto, elemento imprescindibile come sosteneva Sofia Nałkowska quando affermava che l’autore non deve fare da tramite, sporcando il racconto. Art Spiegelman stesso, in una parte del lavoro, esprime i suoi dubbi circa il testo: Qualsiasi cosa realizzi, non sarà mai nulla rispetto all’essere sopravvissuti ad Auschwitz. E in un altro passaggio si vede Art reagire alla pressione della stampa americana circa Maus e alla domanda “che messaggio devono cogliere nel suo libro?” risponde, molto semplicemente, che non ha mai pensato di ridurre il testo a un messaggio in quanto non voleva convincere nessuno di nulla.

Il testo è così costellato di punti in cui l’autore mette a nudo le proprie paure e mostra le difficoltà di fronte a un tema importante e impossibile da ridurre in poche semplici pagine, figurarsi in vignette. Eppure è un lavoro che funziona. C’è verità e questo basta al lettore che cerca i fatti e non la finzione. Purtroppo il mercato di oggi è pieno di libri e film sull’Olocausto, molto spesso non storicamente veritieri e ciò non è dignitoso per la Memoria, o citando Primo Levi, “per quel che è stato”.

Maus

Art Spiegelman, si addentra nelle paure proprie e in quelle del padre, nella riscoperta del dolore provocato dalla morte della madre con semplice naturalezza. L’immagine di Vladek che abbiamo davanti agli occhi è quella dell’ebreo stereotipato, ma se Vladek era così è giusto che così noi lo conosciamo. È giusto per la sua memoria. È giusto per quello che rappresenta.

Ultimi due punti su cui soffermarsi: il disegno e la lingua. La graphic novel si presenta qui sotto forma di allegoria, in quanto ogni popolo viene raffigurato tramite l’associazione con un animale e per cui abbiamo gli ebrei che diventano topi, i polacchi maiali, i tedeschi gatti, i francesi rane… Lo stesso protagonista, nelle pagine off-topic in cui si auto-dipinge dallo psicologo o nel suo studio, da “umano” indossa la maschera di topo. È sicuramente una scelta strana e potrebbe essere giudicata “leggera”, “irrisoria”, eppure, per quel che mi riguarda, l’ho trovata una scelta interessante proprio perché gioca con la questione della razza: il risultato è brillante e funziona, aiutando il lettore a riconoscere chi è il personaggio rappresentato. La questione della lingua pure è molto interessante e ben riuscita. All’inizio dell’edizione italiana c’è una nota del traduttore, assolutamente da leggere, nella quale lo stesso spiega il metodo utilizzato per riuscire a rendere la parlata di Vladek il più simile possibile all’originale: il protagonista si è trasferito in America e si esprime perciò in un inglese che ricalca le strutture stilistiche del polacco contaminato a sua volta dall’Yiddish: il risultato è un italiano a volte magari grammaticalmente non corretto ma che, ancora una volta, trasuda verità.

Occorre evitare che Auschwitz divenga un romanzo. Non lasciamolo allontanare nel passato: facciamo che rimanga ciò che è stato, non perchè sia possibile trarne un ammaestramento, ma proprio perchè ognuno ricordi che questo è stato.” 1

1 Luca Bernardini, “La verità non artistica su Auschwitz, o la neve su Birkenau” in Rappresentare la Shoah a cura di Alessandro Costazza, Milano, Cisalpino 2005

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Maus di Art Spiegelman

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