Llach: dalla Catalogna in Polonia in direzione ostinata e contraria

La strada che porta dalla Catalogna in Polonia è quella che lega il cantautore catalano Lluis Llach a Marek Kaczmarski in un inaspettato connubio lirico.

di Luca Ventura Saltari

Lluis Llach

Pare che David Bowie abbia avuto la sua prima epifania musicale vedendo la cugina scatenarsi al ritmo di Hound Dog. “Per un personaggio interessato alla persuasione delle masse,” ha scritto Luca Majer,  “la scoperta di simili possibilità da parte di una forma artistica così rudimentale e appena iniziata doveva rappresentare un irresistibile stimolo.”

Anche Jacek Kaczmarski deve aver avuto un’esperienza simile quando, agli inizi della sua carriera cantautoriale, ascoltò un disco di Lluis Llach, Barcelona gener de 1976. Si tratta di una di quelle registrazioni in cui la presenza e la passione del pubblico sono quasi tangibili. I cori e gli applausi devono aver colpito Kaczmarski, ma potrebbero anche avergli fatto scendere un brivido lungo la schiena: l’isteria della folla, la potenziale mostruosità delle masse. È da queste sensazioni contrastanti che sarebbe nato uno dei capolavori del bardo polacco, Mury. Ma andiamo con ordine.

Il vinile che Kaczmarski ascoltò, secondo quanto riporta Filip Łobodziński, è il disco del concerto del gennaio del 1976, ma Lluis Llach era attivo almeno dal 1968. In quell’anno Llach aveva pubblicato il suo primo disco, il quale, oltre ad essere interamente cantato in catalano, cosa che poteva infastidire più di un censore, conteneva una canzone esplicitamente contro il regime, L’estaca” (Il palo).

La canzone, che per l’immaginario architettonico ricorda la poesia di Gil de Biedma “L’architrave”, parlava di un certo Nonno Siset che spronava il nipote a liberarsi del palo a cui, cantava Llach, erano tutti legati. Il testo poteva essere interpretato, senza troppi sforzi, come un invito al sollevamento popolare, o almeno al sabotaggio collettivo, con il ritornello che diceva, traducendo liberamente:

“Se io tiro un po’ di qua

E tu tiri un po’ di là

Vedrai che cade, cade, cade

Il palo è già bello tarlato”

All’inizio, inspiegabilmente, “L’estaca” non subì censura alcuna. L’errore, per dirla con Nabokov, “può essere ascritto solo alla vena di stupidità che scorre fatalmente attraverso la tirannia più competente.” Non ci volle molto tempo, però, perché le autorità si rendessero conto dell’antifranchismo della canzone e a Lluis Llach fosse impedito di cantarla in pubblico.

Llach prese il divieto alla lettera: smise di cantarla, ma non di suonarla. Si limitava a suonarne gli accordi e il pubblico, in poco tempo, imparò il testo a memoria e cominciò a cantarlo sopra la base. Siamo, ad inizio anni degli anni settanta, nell’ultima fase del franchismo e questo può forse spiegare la relativa permissività che lasciò Llach libero di utilizzare un tecnicismo per sfuggire alla censura. Questa storia leggendaria deve essere arrivata all’orecchio di Kaczmarski insieme alla canzone, se in Mury parla di un pubblico che canta “solo la melodia senza le parole”.

Il concerto del ’76 fu uno dei primi dopo la morte di Franco e, questa volta, Llach poté cantare anche le parole. Eppure, e questo è ancora più evidente in un pezzo come Silenci che nell’Estaca, il pubblico conosce così bene i testi del cantautore che spesso lo sovrasta in decibel e passione. Un personaggio come David Bowie, non c’è dubbio, avrebbe solo notato la potenzialità di dominio delle masse. Specie il Bowie che durante gli anni Settanta giocò più di una volta con l’immaginario nazista. Kaczmarski, invece, non si limitò a notare questa potenzialità, ma ne fu, si può dire, spaventato.

Secondo Filip Łobodziński L’estaca di Lluis Llach e Mury di Kaczmarski sono all’apparenza la stessa canzone, ma in realtà è solo la stessa musica. Il testo di Jacek Kazmarski parla della canzone L’estaca, di chi l’ha cantata e di una precisa esecuzione

È verosimile che un germe di Mury sia nato quando Kaczmarski ha ascoltato L’estaca. Esiste una “precisa esecuzione” che ha ispirato Kaczmarski ed è probabilmente quella del ’76. Ma l’incubo immaginato dal cantautore polacco non si è avverato, anche se questa paranoia gli ha permesso di operare una riscrittura più ricca e interessante dell’originale.

Certo, la prima strofa di Mury (1978) sembra dare ragione a Łobodziński: nel primo verso viene introdotta la figura di un cantante: non è più l’anziano Nonno Siset, ma un musicista giovane e ispirato (on natchniony i młody był), che intona una canzone in cui dice che l’alba è vicina e che è tempo che i muri cadano, di fronte a una folla di gente. Questa folla, ci dice la seconda strofa, impara in fretta la melodia senza le parole (wkrótce na pamięć znali pieśn i sama melodia bez słów) e la canzone, che già aveva un atmosfera vagamente sinistra dovuta alla successione degli accordi, acquista anche a livello testuale un elemento di minaccia, quando il battere le mani della folla viene paragonato ad uno sparo (jak wystrzał poklask ich brzmiał). In questa seconda strofa, l’immaginazione di Kaczmarski si stacca dal concerto del gennaio del ’76 e ci porta in una dimensione da incubo, sviluppata nella strofa successiva.

In quest’ultima strofa, infatti, la folla di gente, ispirata dalla canzone, comincia a distruggere strade e monumenti, fino a dirigere la propria furia contro allo stesso cantante, che ha l’unica colpa di non essere allineato, di essere solo (recita l’ultimo verso della terza strofa: “Chi è solo è il nostro peggior nemico!” detto dal popolo, seguito da un raggelante: “e anche il cantante era solo”).

Se Mury è certamente l’interpretazione più celebre di una canzone di Llach, non si può dire che ne sia la più fedele (e nemmeno pretende di esserlo: già il solo fatto che il narratore de L’estaca sia interno al racconto e quello di Kaczmarski sia esterno è un utile indizio sulla prospettiva radicalmente diversa assunta dagli autori). Forse fu in parte per sopperire a questa mancanza che Łobodziński, con il suo gruppo Zespół Reprezentacyjny, si dedicò, negli anni ’80, a tradurre molte delle più belle canzoni di Llach (con la collaborazione del maestro iberista Carlos Marrodán, traduttore anche di Pablo Neruda e Octavio Paz, oltre che di Agnieszka Rurarz, che ritradurrà L’estaca). La prima pubblicazione del gruppo fu la cassetta semiamatoriale intitolata Za nami noc (dietro di noi la notte), titolo preso dalla versione polacca di “Venim del nord, venim del sud”, un inno alla solidarietà al di là dei confini nazionali.

Oltre ai testi scritti da Llach (tra cui versioni delle politiche La gallineta [Kura], Cançó sense nom [Piosenka bez tytułu] e della tragica Debilitas Formidinis, in questa registrazione è presente anche una delle poesie di Kavafis che Llach musicò (W karczmie nad morzem).

Al di là degli adattamenti necessari per la differenza tra le due lingue, è importante riconoscere a Łobodziński il merito di essere stato un ascoltatore attento. Un esempio perfetto è la traduzione di Abril ‘74, una canzone dedicata alla rivoluzione dei garofani (nel testo il riferimento più chiaro è “un ramo di fiori rossi”) che il 25 aprile 1974 permise ai portoghesi di liberarsi di Salazar: molte traduzioni spagnole reperibili in rete, tra cui quella presente sul sito lluisllach.cat, traducono el cau de la sirena con el canto de la sirena, quando invece “cau” non significa canto (sarebbe ‘cant’), ma tana, rifugio. Łobodziński  traduce il tutto con l’isola delle sirene, dimostrando di aver capito il senso del testo originale.

Abril ‘74 (ovvero Kwieczeń ’74) è arrivato anche alle orecchie di un pubblico più giovane grazie agli Strachy Na Lachy. Il gruppo di Krzysztof Grabowski aveva già riproposto Mury di Kaczmarski (presente in ‘Autor’, del 2007) in un arrangiamento più veloce, quando nel 2008 inserì nell’album Zakazane Piosenki proprio Kwieczeń ‘74 dei Zespół Reprezentacyjny, interpretandola come avrebbero potuto farlo i Sonic Youth.

Forse è anche in parte merito loro se quando nel 2014 gli Zespół Reprezentacyjny registrarono Mur – Piosenki Lluisa Llacha il loro disco scalò le classifiche polacche fino al trentesimo posto, un buon risultato se si considera il genere musicale.

Attraverso voci e stili anche molto differenti tra loro, la musica e i testi di Llach hanno così continuato ad essere presenti in Polonia. Tutto sembra essere nato da L’estaca, ma ci potrebbero essere ragioni più profonde. I catalani sono stati per anni chiamati ‘polacos’, con intenzione dispregiativa, dagli spagnoli delle altre comunità. La ragione di questo bizzarro insulto (la cui connotazione offensiva si sta affievolendo negli ultimi anni) è ancora un mistero. Una delle teorie la trova nelle somiglianze di certi suoni, come la “x” catalana (simile alla “sz” polacca). E chissà, forse l’attaccamento di Llach alla propria lingua, una lingua minoritaria e minacciata, una lingua senza stato (ricorda a qualcuno la situazione del polacco?) potrebbe aver giocato a  favore del bardo catalano nello stabilire una simpatia agli occhi dei musicisti che ne hanno reinterpretato le canzoni. Sì, forse ha ragione Miguel Bosé, che in un’intervista diceva a Llach che se avesse cantato in spagnolo avrebbe fatto “un carrerón”, una carriera ancora più di successo, ma chissà che non sia stata in parte questa cocciutaggine, questa ostinazione, a far sì che le sue parole venissero tanto amate in Polonia.

 

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