Le siepi – Maria Karpińska #2

Il brano che segue è tratto dall’opera Żywopłoty di Maria Karpińska (W.A.B., 2019). Tutti i diritti appartengono a Maria Karpińska e a Grupa Wydawnicza Foksal.
I diritti per la traduzione italiana sono liberi e gestiti in esclusiva da Nova Books Agency s.c.
Per informazioni: agent@novabooksagency.com 
La traduzione dal polacco è di Francesco Annicchiarico.
Continua da qui.

Le siepi - Maria Karpińska

Durante quel periodo mi veniva facile provare disprezzo per gli altri. L’empatia e l’orgoglio mi venivano difficili, provare nostalgia era praticamente impossibile, il disprezzo invece era una sensazione facile, comune, si potrebbe dire. Innanzitutto, c’erano gli amanti delle cosiddette piante poco impegnative a risvegliarlo. “Poco impegnativo” è uno slogan che serve solo ad offendere i potenziali clienti. Quanta poca considerazione di se si può avere, per comprarsi un ficus al centro commerciale e, uscendo dal parcheggio sotterraneo, rallegrarsi che gli serva poca acqua?

Quando pensavo al “poco impegnativo” mi assaliva un’ondata di disprezzo, ma anche un’insalubre soddisfazione, un attimo dopo. “Poco impegnativo” nella realtà può voler dire anche insidioso. Il pericolo si insidia anche nell’apparente confort che si vende gratis insieme al vaso. Qui non si tratta affatto della pianta che secca, se non viene annaffiata per un po’, cosa che, comunque, non dovrebbe succedere. O che appassisce se messa al buio, nonostante l’etichetta dica che sarebbe stata bene ovunque. È l’umana noia ad uccidere le piante. Questo genere di dilettanti, scocciati persino di svolgere quelle piccole mansioni, mette i vasi sul balcone al pieno sole di metà agosto, facendone bruciare le foglie o, ancor peggio e più frequente, dando loro troppa acqua. Eppure è così, che senz’acqua le piante muoiono e con troppa marciscono.

Verso la fine dell’estate, apparvero due variabili nell’equazione della mia vita. La prima di esse in forma di tre energumeni. Bednarczyk, il direttore del palmeto, zoppicava dietro a loro tre. Uomo di statura modesta e con un orribile carattere, oltre ad essere afflitto dalla psoriasi. Anche se sapevo che non era contagiosa, titubavo sempre a stringergli la mano. Penso che se ne fosse accorto e su questo si basava la nostra strutturata antipatia reciproca.

«Non fare cazzate», minacciò, poi uscì scuotendosi i risvolti della giacca.

Avevo ordinato di mettere al centro della serra, ossia al posto migliore, una rara, preziosa bismarckia nobilis addirittura blu. Era dove mettevo le mie preferite o le più magroline, che altrove soffrivano.

La bismarckia sembrava messa su un podio. Dai vetri sporchi filtrava un sole mediamente né troppo forte, né troppo debole. Ci girai attorno per un’ora, a osservare i rami e il fogliame di un blu quasi cianotico. Era in perfetta forma. Non aveva macchioline, pieghe, punte secche o flaccide. Evidentemente, i vivaisti precedenti erano riusciti a realizzare le pretese esorbitanti della bismarckia, per quel che riguardava il bilanciamento tra illuminazione, temperatura e umidità. Restai di fronte a lei e toccai delicatamente una foglia, spiegata come una mano aperta, come se volessi darle il cinque. Ci mancava soltanto che venisse accompagnata da un cartello che diceva “cavoli tuoi”, ma stavolta non avevo bisogno di cartelli per riconoscere cosa avessi davanti a me.

La seconda variabile, o piuttosto fattore, potenza e incognita tutto in uno, era Judyta. Arrivò in silenzio al palmeto, insieme con un gruppetto di visitatori e, proprio come loro, si guardava intorno con l’indifferenza di chi è obbligato, a una visita del genere in un posto del genere, per i mille motivi diversi che conducono qualcuno a un giardino botanico. Di solito, non avrei neanche fatto caso a lei, occupato com’ero a pulire i vasi di argilla e a preparare la Lagerstroemia per la riproduzione. Avrei dato le spalle ai visitatori. Mi irritava quel loro tedio e quella loro perenne aspettativa, scritta sulla faccia, come se si dicessero continuamente: “andiamo un po’ più in là, magari lì dietro c’è qualcosa che vale la pena, qualcosa di bello da vedere”. Per evitare che le facce di gente così mi facessero perdere le staffe, avevo sviluppato un mio riflesso di indifferenza. Quindi, non avrei fatto caso a Judyta se non l’avesse fatto invece lei, visto che, come si rivelò più tardi, niente attirava meglio l’attenzione di Judyta che l’ignorarla.

«Ne capisci di piante?» mi chiese fissando il vaso svuotato, come se il recipiente vuoto dimostrasse che no, non ne capivo niente e che fossi lì, con guanti, tuta e tesserino per pura coincidenza. Mi diede fastidio e fu probabilmente proprio per questo che restai a fissarla per un secondo di più, che poi era già troppo tardi per sbraitarle addosso e tornare alle mie faccende, di sicuro molto più importanti di qualsivoglia domanda dei clienti. Ci scambiammo due parole, poi qualcuna in più e fu già troppo tardi per tirarsi indietro e dire: “senti, ora non posso, magari un’altra volta”, oppure “io queste cose non le faccio, ti aiuterei se potessi, ma proprio non posso”, o molto più semplicemente, come avevo fatto mille altre volte prima e mille altre avrei fatto poi: “no, non posso”.

La verità era che quel giorno avevo già un appuntamento con Helena. Credo che tutto cominciò appunto quel giovedì 13 agosto. Non perché fu quando incontrai Judyta. Ma perché quando Helena mi chiese con il suo solito tono indifferente e preoccupato: “che si dice al lavoro?”, io risposi: “niente” forse con troppa foga, prima ancora che lei finisse di pronunciare “al lavoro”. Quello poteva essere l’inizio, l’ultima scheggia di secondo in cui ci si poteva ancora tirare indietro. Un tradimento, parola troppo grossa per questa storia, comincia proprio in questo modo, con un “niente” che nel giro di un paio di giorni, settimane, mesi si eleva al rango di “tutto”.

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