Le siepi – Maria Karpińska #1

Il brano che segue è tratto dall’opera Żywopłoty di Maria Karpińska (W.A.B., 2019). Tutti i diritti appartengono a Maria Karpińska e a Grupa Wydawnicza Foksal.
I diritti per la traduzione italiana sono liberi e gestiti in esclusiva da Nova Books Agency s.c.
Per informazioni: agent@novabooksagency.com 
La traduzione dal polacco è di Francesco Annicchiarico.

Si può sapere che combini?

«Sopravvivo», ansimai. Traboccavo orgoglio per i risultati ottenuti, mescolato a una gioia semplice, infantile. A breve (troppo poco, purtroppo), la libertà che ingurgitavo avidamente mi avrebbe colmato i polmoni fino a farmi annegare. Ma prima che ciò succedesse, l’avrei inghiottita a bocca spalancata, di più, sempre di più.

In momenti come questi, che capitano alle persone di età compresa tra i 15 e i 25, distinguere le azioni segnate con un “molto bene” da quelle con “molto male” risulta praticamente impossibile. “Molto male” è sempre sfocato, come la vista di un miope dall’oculista, e appare come un “molto bene”; di seguito il “molto bene”, persino se chiaro e ben a fuoco ha sembianze sbiadite, tristi, repellenti. L’uomo è come un cavallo coi paraocchi, vede solo quel che ha davanti a sé, e se la visione l’aggrada, allora perde la testa. Nell’esempio descritto, quell’uomo, o quel cavallo, sono io e quel che vedevo davanti a me era una palma.

Helena emanava una certa sua aria di libertà, che la rendeva irresistibile. Potevo non telefonarle per una settimana intera, e dopo tutto quel tempo mi avrebbe accolto sempre lo stesso tono di voce, scevro da qualsiasi ombra di risentimento, di chi è nel bel mezzo di faccende importanti e non per essere scortese, ma preferirebbe non interromperle. Aveva una vita sociale più che florida, quindi non aveva alcun bisogno di piantare radici in altri terreni. E la cosa a me andava benissimo, perché avevo conosciuto Helena durante un periodo di lavoro intenso al palmeto.

Lavorare con le palme mi ha insegnato molto, anche se ora posso dire per certo che questa professione non faccia più per me. Tutti quei lussureggianti esemplari di palme, che per qualche motivo mi trasmettevano sempre una sensazione di solitudine, anche se crescevano una accanto all’altra, richiedevano costante attenzione e tenacia per sopportare continue frustrazioni. Malattie e parassiti si riproducevano a ritmo vertiginoso. Un giorno il verde fogliame carnoso si allungava pigro al vento, un altro, giaceva ingiallito sotto il tronco spoglio, la cui corteccia sembrava composta di tegole sparpagliate da un operaio con l’esaurimento nervoso.

Helena ogni tanto si faceva vedere tra le palme, nel loro periodo buono ne ammirava la simmetria e nei periodi peggiori mi confortava con delle amichevoli pacche sulla spalla. Mai nient’altro a parte questo, ma quel “niente” conteneva tutto quello di cui avevo bisogno, e che sarebbe possibile definire come distacco. Di cui pativo la mancanza nella mia vita privata e che perciò mi serviva al lavoro. Ogni tanto, per la frustrazione, mi capitava di dare un calcio a un secchio o a una pala nel terreno, bestemmiavo all’impassibile palma di San Pietro, minacciavo col falcetto una yucca del Guatemala. Una volta, ho addirittura rotto il vetro della serra, ferendomi la mano. Proprio non sopporto chi dice che la botanica sia una professione tranquilla. Le piante sono effettivamente tranquille, se restano vive, ma con la stessa tranquillità seccano, marciscono, scompaiono, cioè, molto semplicemente, se ne vanno in silenzio, unico modo che conoscono, ed è allora che si scatena la mia tempesta emozionale, la frustrazione. Non ho ancora imparato a dominarla, quando arriva.

Così, il mio tempo era sfilacciato tra due poli: i miei incontri con Helena e il lavoro al palmeto. Metà della mia vita era placida e sicura, l’altra: colma di caos e urla. Urlavo io, non le piante, ed erano urla di avvilimento, dato che, diciamocelo francamente, ero sul punto di esplodere. Ma cosa mi aveva preso? L’intuito attribuiva la colpa ai miei genitori, forse per quella pressione esagerata su di me, da bambino. O erano stati i miei antenati a trasmettermi questa ambizione nei miei geni. Non saprei dirlo. Ad essere sinceri, anche se ci pensavo tanto quando lavoravo al palmeto, non sono mai riuscito a capire perché volessi così tanto raggiungere il successo. Volevo proprio questo, e volevo riuscirci in fretta. Come si fa quando si vuole prendere un libro dallo scaffale più alto, ci si mette sulle punte, si tirano le mani più su che si può e quasi ci si arriva, i polpastrelli sfiorano il dorso di carta. Io avevo la sensazione di essere rimasto in quella posizione abbastanza a lungo da poter togliere quel libro da lì e prendere nota del suo titolo.

Logorarsi in quel desiderio non era cosa semplice nella realtà, dimensione in cui il tempo di crescita e di sviluppo di una foglia può durare fino a un anno, e poi far crescere bene una pianta non è che si possa incorniciare e firmare come un’opera d’arte. Ero perciò sconvolto da una potente tensione e Helena non l’aumentava affatto con le sue domande, tipo: “a che stai pensando?”, ma neanche l’alleggeriva con parole come: “ti va di parlarne?”. Helena faceva come niente fosse, manteneva la calma, continuava il suo lavoro certosino e ogni tanto mi accompagnava a qualche serata al cinema, al teatro o al ristorante. Restavamo in silenzio per la maggior parte del tempo che passavamo insieme, ci tenevamo la mano o ci davamo anche dei baci su qualche panchina di qualche parco. Pensavo di non aver bisogno di altri diversivi.

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