La terza parte della notte è stato il primo lungometraggio del regista Andrzej Żuławski.
di Francesco CabrasAndrzej Żuławski (Leopoli 1940) è regista cresciuto alla scuola di Andrzej Wajda; iniziò con lui, facendogli da assistente, a muovere i primi passi sui set cinematrografici. L’esordio nel lungometraggio è datato al 1971 e porta il titolo apocalittico di Trzecia część nocy [La terza parte della notte]; ecco qui il frammento dall’Apocalisse giovannea da cui ha preso ispirazione il regista (8, 12): “Poi suonò il quarto angelo, e la terza parte del sole fu colpita e la terza parte della luna e la terza parte delle stelle affinché la loro terza parte si oscurasse e il giorno non risplendesse per la sua terza parte e lo stesso avvenisse della notte“.
Il film narra le vicissitudini di Michał (Leszek Teleszyński), intellettuale (veniamo a sapere nel prosieguo del film che ha compiuto studi giuridici) che durante l’occupazione nazista sfugge per puro caso insieme al padre alla morte, assistendo impotente all’uccisione per mano dei tedeschi della moglie Helena (Małgorzata Braunek), della propria madre e del proprio figlio. Fuggito allora dalla campagna in cui pensava erroneamente di potersi dalla violenza della guerra, prende contatto con la Resistenza. Subito tuttavia, per un caso fortuito – come fortuito era stato il suo scampare alla morte – incontra una donna (Marta) straordinariamente simile a Helena (interpretata dalla stessa attrice, Małgorzata Braunek): mentre Michał fugge disperatamente dalla Gestapo, s’infila in un palazzo, lanciandosi su per la tromba delle scale; gli inseguitori lo raggiungono ma sparano a Jan, il marito di Marta, colpevole soltanto di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato e di indossare lo stesso impermeabile di Michał, che sta assistendo nascosto alla scena dal piano superiore. Jan – gravemente ferito – viene arrestato e portato via dalla Gestapo mentre Michał si ritrova in una situazione paradossale: quella che lo vede solo e ferito in casa di Marta che proprio in quel momento sta partorendo. L’uomo è scioccato e – una volta nato il bambino che egli non può far a meno di considerare la reincarnazione del figlio morto (come Marta lo è della moglie defunta) – rivela alla donna la dinamica di quanto accaduto sulle scale. Di lì in avanti Michał si sentirà in debito verso Marta e il figlioletto e farà di tutto per prendersi cura di loro; infine tenterà – senza riuscirvi – di uccidere Jan, ricoverato in ospedale e sospeso tra la vita e la morte, ultimo ostacolo, a suo modo di vedere, tra lui e Marta. Il film si chiude con la morte di Michał, ucciso da un colpo di pistola…
Fin qui la trama, che ho scorciato un po’ per praticità; pure, anche a rimetterci i particolari che ho tolto, la fabula non ne guadagnerebbe troppo in complessità. Importa poco al regista il “narrare una storia”; molto di più è interessato invece a riflettere sul piano esistenziale. Questo film è sostanzialmente la storia di un uomo solo che si confronta con il letame (è impiegata esplicitamente la parola gnój “letame”) che è l’esistenza: la stessa resistenza armata all’occupante è completamente spogliata di qualsiasi epicità, scevra di qualsiasi retorica: anzi, gli invasori tedeschi hanno (anche visivamente) poca parte lungo tutta la pellicola: li si “vede” poco, spesso sono evocati nei discorsi dei protagonisti, altre volte inseguono Michał ma la macchina da presa è ossessivamente concentrata su di lui: senza impiegare la steadycam, la macchina pare essere sulle spalle di un ipotetico “compagno di fuga” di Michał, che lo segue o lo precede di poco, mezzo stilistico, questo, che esprime il disorientamento e la frenesia claustrofobica che attanagliano il protagonista.
Michał, per vivere “nutre” dei pidocchi in un istituto che conduce ricerche volte alla scoperta di un vaccino contro il tifo: si applica sulle gambe delle piccole gabbiette in cui sono contenuti i pidocchi, finché questi non iniziano a succhiargli il sangue; insieme a lui vi sono molti altri intellettuali che fanno lo stesso lavoro, unica ancora di salvezza per restare in vita, giacché la Gestapo fornisce loro documenti sicuri che permettono di restare in vita: la messa a punto di un vaccino contro il tifo è ben più importante della loro soppressione. Si tratta in realtà di un ricordo autobiografico: il padre di Żuławski faceva lo stesso all’istituto Weigl di Leopoli per mantenere la famiglia durante l’occupazione. Al di là di questo particolare però, la consuetudine con i pidocchi indica evidentemente lo stato di abbrutimento a cui si è ridotto l’uomo nel “letamaio” che è divenuta l’esistenza; ed è davvero straniante l’effetto prodotto sullo spettatore da questi intellettuali che, tra una bevuta di vodka e gabbiette per pidocchi, finiscono a discettare di poesia e sul ruolo che la cultura possa avere nella società…
L’amore stesso, come Marta sostiene davanti a un Michał annichilito e passivo, si definisce soltanto per via negativa: è negazione di tutto ciò che ci ferisce, fuga dall’oscena crudeltà che ci circonda; negare prima che tutto ciò che è “fuori” di noi ci deluda e ci ferisca. Ma ciò che emerge dal film è che se la realtà circostante è divenuta un “letamaio” in cui l’unico sistema per sopravvivere è la capacità di adattamento, è anche vero che i fantasmi più minacciosi sono dentro ognuno di noi: Michał sfugge da se stesso, dai sensi di colpa per non essere stato un padre e un marito all’altezza, per non aver saputo amare la propria moglie e nemmeno volere il proprio figlio – in una scena lo vediamo insieme ad Helena mentre discutono sull’eventualità di avere un bambino, osservati e ascoltati – in una scena surreale – dal loro stesso figlio: alle ragioni di Helena, per cui “l’amore più grande è quello per ciò che non è ancora nato”, egli oppone le ragioni più banali e autoassolutorie della contingenza: “non è tempo di avere un bambino, ora…in queste condizioni”; quando Marta gli racconta cosa sia l’amore, egli risponde di “non essere abbastanza maturo” per darle questo amore. In un’altra occasione, davanti all’assurdità di un ragazzo ucciso a bruciapelo per un motivo incomprensibile, assistiamo a un monologo di un compagno di Michał, scioccato non solo dalla brutalità della violenza (nazista? Ma non è forse piuttosto il caso di parlare di Violenza in assoluto, visto quanto detto finora?) ma forse soprattutto dalla sua insensatezza, inizia a farneticare che “Non può andare così, deve esserci qualche legge, qualcosa…”, scioccato dall’eventualità che queste leggi stiano attecchendo, quelle per cui una persona può essere ammazzata a sangue freddo in mezzo alla strada. E qui sta uno dei messaggi del film: tolta la retorica patriottica, ridotto il Male alla sua essenza (di nazisti, come ho detto, se ne vedono abbastanza pochi), negato al divino il ruolo salvifico che la fede gli riconosce, l’Uomo nudo deve confrontarsi con il Male e con i propri fantasmi senza più certezze pregresse, senza paradigmi di riferimento.