La pensione – di come andare oltre la memoria

la pensione

La Pensione di Piotr Paziński è un romanzo filosofico sulla post-memoria, in Italia per Mimesis Edizioni.

di Salvatore Greco

Le narrazioni dell’Olocausto fanno parte della letteratura polacca del secondo Novecento con una forza insopprimibile, motivata da cause contingenti di ovvia natura. Altrettanto vale per le riflessioni sulla memoria, delle quali per altro su queste pagine ci siamo spesso occupati. Il passo successivo era finora mancato, la riflessione sempre più pressante su cosa ne resta della memoria, quella dell’Olocausto ma soprattutto quella del mondo ad esso precedente, quando i suoi testimoni arrivano alla naturale conclusione delle loro vite. Il romanzo La Pensione, tradotto in italiano da Alessandro Amenta e uscito nel 2016 per i tipi di Mimesis Edizioni, è una prima risposta a questo problema.

La Pensione, uscito nel 2009 per l’editore Nisza con il titolo di Pensjonat, è l’opera prima di un promettente scrittore varsaviano di origini ebraiche: Piotr Paziński, classe 1973. 43 anni all’anagrafe che non hanno, per la verità, lasciato molte tracce sul volto di questo giornalista, studioso di Joyce e filosofo che con La Pensione ha scombinato un po’ le acque del panorama letterario polacco meritandosi il premio Paszport di Polityka e la candidatura al Nike nel 2009 oltre che il Premio Letterario dell’Unione Europea nel 2012.

la pensioneLa pensione che dà il titolo al romanzo è un fabbricato un po’ nascosto tra i boschi non lontano da Varsavia, un luogo di villeggiatura, un albergo di campagna all’antica. La vediamo in filigrana attraverso lo sguardo del narratore-protagonista che vi fa ritorno dopo tanti anni dall’ultima volta. Si tratta di un ritorno affettivo a un luogo dell’anima, ma anche di una missione importante di archeologia della memoria. Quella pensione, in cui il protagonista ha passato molte delle estati della sua infanzia in compagnia della nonna, è stato in passato un ritrovo di ebrei varsaviani scampati alla Soppressione del Ghetto e tornati con fatica a una forma di normalità. Quello che il protagonista ritrova, nel suo ritorno lì, è un posto quasi abbandonato, con pochi ospiti che nulla hanno della vivacità della compagnia che ricordava: sono confusi, impauriti, quasi ostili nei suoi confronti. “Io sono di qui” sono le uniche parole che riesce a pronunciare di fronte allo scetticismo di chi lo accoglie, parole sincere fatte di un’empatia reale e atavica e che gli aprono, un po’, le porte. Una volta arrivato alla pensione il protagonista non fa nulla, non dipana una vera e propria vicenda, ma vive le storie che quel posto è in grado di rievocare e raccontare, anche se sono bisbigliate, sbiadite, confuse come fossero state scritte con inchiostro leggero su carta sottilissima. Inizia un viaggio pacato e non sempre lineare nella memoria di quel luogo, al contempo intima e sociale, politica e personale. La memoria di uomini e donne ebrei nella Polonia del dopoguerra.

La vicenda diventa un Decameron un po’ spettrale in cui il narratore entra ed esce dal presente, affonda nelle storiela pensione passate e se ne fa cornice e palcoscenico. In un caravanserraglio di evocazioni antiche riappaiono, a volte proprio come se fossero ancora lì, il docile dottor Khan, la burbera signora Tecia, i battibeccanti eterni Leon e Chaim:  tutti lì,  incastrati in un passato sbiadito come una vecchia foto troppo esposta alla luce, intenti a giocare a carte, leggere il giornale, dibattere di sionismo e socialismo, del Bunt, di precetti religiosi e dell’irrisolvibile dilemma dell’identità ebraica. Il narratore sente incessantemente le loro voci nei corridoi deserti della pensione, li vede mentre rievoca se stesso nei suoi ricordi d’infanzia: le proverbiali Madeleine proustiane qui diventano vecchi giornali, quadri, scorci boschivi e persino dettagli anatomici come la fronte sottile dell’anziano signor Jakub il cui potenziale evocativo è insospettabile quanto evidente. Le leggi del tempo sembrano sospese, la penna leggera di Paziński spazia con candore tra il presente della narrazione, il passato dei ricordi del narratore e quello ancora più lontano evocato dai ricordi degli assenti, dalle fotografie mangiucchiate, dalle lettere rovinate, dall’assordante silenzio dei corridoi e delle sale deserte in cui rimbombano decenni di ciarle, battibecchi, racconti e altre preziose cianfrusaglie di variegata umanità. Tutto sembra scivolare via inesorabile, scorre sfocata come un vecchio film in bianco e nero la memoria del dorato (in superficie) periodo tra le guerre, quello dell’impegno politico e di un moderato benessere, già esistente come sola memoria e, dopo la morte dei suoi reduci, sola “post-memoria”, faticoso mantenimento di un mondo già abbondantemente scomparso, fatto delle ombre nascoste che la pensione custodisce gelosamente.

La Pensione è un libro curioso, fitto fitto nelle sue 171 pagine dove si disvela un mondo intero e al contempo non succede quasi nulla, quasi a dire che nel mondo degli ebrei polacchi non c’è quasi più nulla che possa ancora succedere – solo un passato da preservare. Paziński nutre la sua opera di stimoli apparentemente distanti, ma che rendono piacevole la lettura che pure non è sempre facile. Non si può non sentire l’influenza di anni dedicati allo studio di Joyce nella leggiadria esperta –talvolta irritante- con cui svicolano i flussi di coscienza del suo narratore, o la caparbia furbizia con la quale si intrecciano discorsi diretti e indiretti. Al contempo, però, si propone anche come un descrittore maniacale: ogni scena è cesellata nel minimo dettaglio come è naturale che sia in una battaglia disperata per il mantenimento della memoria. Ma non è solo di quello che si tratta. C’è un gusto nel raccontare le piccolezze, nel pennellare piccoli elenchi di grandi verità, camuffate da apparenti minuzie, che non può che riportare il pensiero allo scrittore-simbolo degli ebrei polacchi: Bruno Schulz. Le parole di Paziński, anche quando sembrano arruffate e incagliate in una confusa rete di vari livelli di storia e di realtà, sono pesate con un bilancino da gioielliere esperto, mai una di meno, mai una di più, sia quando devono descrivere un controsoffitto, sia quando raccontano un episodio alla pensione o un battibecco ironico, sia quando parlano della guerra, dei campi, della resistenza clandestina, degli insegnamenti della Torah.

Paziński ha messo assieme un’opera assieme intima e collettiva. Le emozioni che emergono dalla lettura de La Pensione non sono solo di sincera empatia per una storia umana raccontata con calore, e nemmeno soltanto di solidarietà per le sorti degli ebrei polacchi, ma riguardano anche un ragionamento più ampio, sulla memoria come strumento fondamentale per essere presenti a noi stessi, e sulla battaglia disperata contro l’inevitabile erosione del ricordo. Una battaglia fondamentale, fisiologica quasi, che va combattuta nonostante l’impossibilità di vincerla davvero. Come un novello Don Chisciotte che al posto dei mulini sfida foto sbiadite e ricordi di voci, questo romanzo scalda i cuori di chi non vorrebbe mai rassegnarsi all’abbrutimento e alla semplificazione, si fa strumento utile per affrontare la modernità, con il vantaggio di entrare comodamente nella tasca del cappotto.

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