Storia di Michał Kwiatkowski, ciclista polacco più forte di sempre e vincitore della Milano-Sanremo 2017.
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di Salvatore Greco
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Tra Milano e Sanremo corrono 291 chilometri dal gusto un po’ epico. Dal capoluogo lombardo verso la costa ligure, muovendosi attraverso Pavia, Voghera, Tortona, Volti, Savona, Aiasso si passano in rassegna alcune tra le località più belle del nord-ovest italiano, evocazione di villeggiatura da boom economico e foto in bianco e nero seghettate ai bordi di famiglie italiane in vacanza. Ma tra Milano e Sanremo corre anche la più classica delle classiche tra le corse ciclistiche, talmente classica da essere classicissima per definizione. E il nome, come nella tradizione del ciclismo, è sobrio e preciso: è la Milano-Sanremo.
Le classiche della bicicletta sono le gare di un giorno, diverse per preparazione e per filosofia rispetto ai grandi giri a tappe. Nelle classiche la tattica di lungo termine non serve, tutto si gioca nel giro di ore passate a pedalare, alla mattina si parte e la sera è già tutto finito. Le classiche, ben più dei giri a tappe, sottolineano la grande solitudine del ciclista, tra gli sportivi quello che più si illude di avere una squadra e quello che più si ritrova alla fine dei conti solo verso il traguardo. Nelle classiche contano la gamba, la furbizia e in parte anche il cinismo. Tutte caratteristiche che appartengono al penultimo iscritto nell’albo d’oro della Milano-Sanremo, Michał Kwiatkowski da Chełmża.
Di Chełmża non c’è poi molto da dire, è una città come tante in Polonia, un centro di quindicimila abitanti alle porte di Toruń. Se non fosse per la cattedrale medievale che ospita, Kwiatkowski sarebbe la cosa più importante da attribuirle. E per l’appunto Kwiatkowski ci è nato, il 2 giugno del 1990 e ne è diventato presto il volto più famoso anche se i suoi esordi ciclistici, datati quando aveva undici anni, avvengono nella vicina Działyń la cui Chiesa è molto più recente e gli abitanti registrati meno di ottocento. È con il club locale che Kwiatkowski inforca la sua prima bicicletta e corre le sue prime corse. Da juniores si alterna abbastanza tra strada e pista, specialità tanto vicine e tanto distanti come una scissione religiosa dell’alto medioevo, ma poi nel 2010 -ventenne- sceglie definitivamente la strada.
La sua avventura da professionista inizia sotto l’egida del team spagnolo Caja Rural, una squadra minore che poi lo lancerà verso i suoi primi piazzamenti di un certo livello: il suo primo campionato del mondo, che chiude al quarantottesimo posto, e il suo primo Tour de Pologne dove arriva secondo, staccato di cinque secondi dal posto che vale la gloria.
E poi arriva il 2013, l’anno della consacrazione per Kwiatkowski, che quell’anno veste la maglia della Omega Pharma-Quickstep, e alla fine della stagione con i colori del team belga arriva a giocarsi un mondiale, in Toscana. All’evento iridato Kwiatkowski arriva a conclusione di una stagione notevole per un ragazzo della sua età: al Tour de France ha fatto segnare un undicesimo posto in classifica generale condito da dieci tappe in maglia bianca, il riconoscimento concesso ai migliori giovani della corsa transalpina. Il mondiale quell’anno si corre a settembre, è la fine della stagione ciclistica, in Toscana fa ancora abbastanza caldo com’è giusto che sia a settembre e gli organizzatori decidono che la cronometro a squadre uomini si corra tra Montecatini e Firenze, 57,20 chilometri relativamente in piano, adatte a velocisti e squadre tattiche. La Quickstep è una di queste anche grazie a Kwiatkowski fra i suoi uomini e conquista l’oro.
Ma la crono a squadre è un riconoscimento strano in uno sport ingannevole come il ciclismo, dove tutti corrono staccati, ognuno sulle sue ruote, curvo sul suo manubrio, chiuso nei suoi pensieri. E allora per Kwiatkowski la conferma delle proprie qualità non può passare da una prova del genere, e infatti si dà poco tempo per godersi questa gloria. Nella stagione successiva, la 2014, parte forte conquistando il terzo gradino del podio nella classica delle Ardenne nota come la Freccia Vallone e poi anche nella ben più nota Liegi-Bastogne-Liegi. Al Tour de France non riesce a ripetere quanto di buono fatto l’anno prima, si definisce forse già lì la sua maggiore predisposizione per le classiche rispetto alle grandi corse a tappe. La conferma arriva a settembre, a Ponferrada, nella Spagna settentrionale dove si corre quell’anno il mondiale. La Quickstep non difende l’oro nella crono a squadre chiudendo solo terza, ma il meglio per Kwiatkowski arriva sette giorni dopo, sul percorso in linea che da Ponferrada parte e a Ponferrada torna mettendo sotto le ruote 254,80 km. Quel giorno Kwiatkowski fa una cosa che fanno bene solo i velocisti un po’ spregiudicati, decide di attaccare in discesa, a sette chilometri dalla fine, e all’ultima salita ha nove secondi di vantaggio sugli inseguitori. Non è una fuga epica come quelle che gli appassionati italiani ricordano legate a un Tour trascinato da un rimpianto ciclista in bandana, ma Kwiatkowski indovina tutto quel giorno, amministra il vantaggio, si mette dietro l’australiano Gerrans e l’esperto ciclista di casa Alejandro Valverde e vince l’oro. È il primo mondiale della sua carriera, e Kwiatkowski è il primo ciclista polacco nella storia a vincerne uno su strada.
Nel 2016 passa a Sky, una squadra ancora relativamente giovane e che ha bisogno di un corridore da classiche da mettere a fianco al mostro delle salite Chris Froome. Il britannico, uno da 120 pedalate in pendenza contro la media umana che non supera spesso le 90, è già nel 2016 ritenuto uno dei più forti della storia ma la potenza sovrumana che Froome è in grado di sprigionare in salita e nelle gare a tappe non si esprime -per potenzialità e per volontà- in quel mondo parallelo che sono le classiche. E Sky decide che per avere il suo uomo da classiche deve ingaggiare Kwiatkowski. Il polacco non onora subito le premesse e le aspettative del suo team: perde male la sfida contro lo slovacco Sagan al giro delle Fiandre e alle Olimpiadi di Rio chiude quattordicesimo.
È l’anno successivo quello che riporta il ciclista in alto, dopo il 2016 quasi sabatico passato ad aspettare e a scaldare la sua presenza con il simbolo di Sky sul petto. A marzo del 2017, alla Milano-Sanremo, Kwiatkowski si gioca un bel pezzo di carriera. La squadra corre per lui, ma c’è Sagan da battere e lo slovacco nelle classiche si sta dimostrando quasi imbattibile. Due ori mondiali di fila, a Richmond e Doha, e anche nella superclassica di quell’anno sembra partire con i favori del pronostico. E a ragione. A sei chilometri dal traguardo, subito dopo aver scavallato il Poggio di Sanremo, Sagan mette la gran potenza dei pedali sulla sua bici e decide di partire in volata, da solo, con un’aggressività commovente. Kwiatkowski gli sta in scia, letteralmente, assieme al francese Alaphilippe mentre il resto del gruppo di testa è ormai indietro. Sagan è il prototipo del ciclista solitario, sembra non conoscere tattica o alternanze, sembra non soffrire l’aria da spaccare in due tutta da solo, ma spinge come un forsennato, una pedalata dopo l’altra e si porta dietro gli altri due con un titanismo da eroe romantico. Kwiatkowski invece resta dietro, tattico, prende la scia e sembra pronto solo ad aspettare il momento giusto, con la furbizia di una faina. Tiene il ritmo e la testa bassa, attento e concentrato mentre Sagan affetta la strada. A due chilometri e quattro Kwiatkowski tenta, o forse finta, il primo attacco alla testa, il francese Alaphilippe ha chiaro il suo ruolo di nobile comparsa in quel duello rusticano tra slavi così diversi che si stanno contendendo la classica e a un certo punto si mette come da parte pur restando legato ai due avversari. Ci sono solo l’arrembante Sagan e l’attendista Kwiatkowski a contendersi un finale al fulmicotone, almeno nella percezione finale. Sagan allo scoccare dell’ultimo chilometro sembra cedere un attimo, perde un po’ del suo ritmo di pedalata, è impossibile scorgere lo sguardo del campione del mondo dietro gli occhiali a specchio ma qualcosa lo tradisce solo per un attimo e Kwiatkowski ne approfitta, si mette al suo passo, e negli ultimi cinquecento metri butta il proverbiale cuore oltre l’ostacolo e accelera sui pedali vincendo infine al photofinish. E fuor di metafora. La sua ruota si mette davanti a quella di Sagan per un soffio e al polacco va il titolo.
«Non conta solo vincere, ma anche il modo in cui vinci. Se ripenso a come ha vinto Kwiato l’anno scorso… io non sarei contento di una vittoria del genere, bisogna farlo onestamente». Con queste parole Sagan si è avvicinato alla Milano-Sanremo dell’anno scorso, dimostrando una ferita ancora aperta per la sconfitta al sapor di beffa dell’edizione precedente e raccontando un ciclismo ai gesti bianchi e con il coltello tra i denti di cui però il polacco non si sente esponente. «Nel ciclismo» risponderà Kwiatkowski pungolato dai giornalisti «non vince sempre il più forte, ma il più furbo». Di certo però al polacco della Sky non si può imputare un cinismo spietato da malato di agonismo. Sempre nel 2017, all’ennesimo Tour de France da gregario di Froom si impone in una scena cavalleresca favorendo il connazionale -ma avversario di squadra- Rafał Majka verso l’arrivo in una tappa che per lui non vale granché in termini di classifica. La scena fa clamore, e probabilmente non rende del tutto felici i tattici Sky, che però fanno buon viso a cattivo gioco di fronte a uno dei loro atleti di punta.
Senza avere la presenza impetuosa di Sagan o la potenza di Froom, Kwiatkowski si è ritagliato e continua a ritagliarsi un ruolo di primissimo piano nel ciclismo degli ultimi anni, da specialista silenzioso e tattico preciso di quelle classiche che sembrano un po’ oziose nel modo in cui riempiono la primavera degli appassionati. Quelle ore e ore di attesa apparentemente fine a sé stessa e la loro soluzione bruciante e beffarda nel giro di pochi minuti sembrano fatte apposta per uno come Kwiatkowski, maestro nella scelta dei tempi e concentrato sul risultato, solitario come sa essere solo un ciclista, pronto a prendersi il vento e le scie, e a guardarsi di lato cercando maglie del suo stesso colore ma consapevole che alla fine sui pedali c’è solo lui.