PoloniCultori: Angelika Kuźniak – io e Papusza.

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Intervista con Angelika Kuźniak, autrice della scuderia di Czarne specializzata in ritratti di donne speciali. Uno su tutti : Papusza.

di Salvatore Greco

[Clicca qui per leggere un estratto in traduzione italiana]

Papusza è un personaggio che sfugge alle definizioni. Come potrebbe essere altrimenti con una poetessa polacca di etnia romani nata non si sa bene quando e non si sa bene dove e che, se non fosse stato per l’opera divulgativa di Jerzy Ficowski, sarebbe rimasta una perfetta sconosciuta? Eppure, o forse proprio per questo, Papusza è un personaggio che affascina e colpisce, una donna incolta e semplice, sofferente e profonda. Una donna che è stata raccontata in un film del 2013 firmato da Krzysztof Krauze e un anno prima anche da un libro perfettamente calibrato tra delicatezza e approfondimento uscito per Czarne e firmato da Angelika Kuźniak. Il titolo? Semplicemente e genuinamente, Papusza.

Per andare a fondo di quello che, nonostante le indicazioni di collana lo chiamino reportage, è un libro che sfugge alle definizioni tanto quanto la sua protagonista, abbiamo incontrato l’autrice per parlarne direttamente con lei. La Kuźniak è una scrittrice che ormai da tempo si è specializzata in libri che sono dei grandi ritratti affrescati a parole di donne, ognuna a suo modo, notevoli, categoria nella quale Papusza rientra senza alcun problema.

Come ha scelto di scrivere proprio di Papusza? Come è nato tutto?

Non lo ricordo con esattezza ma ci sono due versioni di questa storia: una più “romantica” e un’altra più concreta. La prima dice che tutto è nato da un libro di poesie di Papusza che mi è stato regalato e che mi abbia fatto venire in mente di approfondire il personaggio. La seconda versione è legata al fatto che io sono cresciuta a un’ottantina di chilometri dalla città dove Papusza ha passato la maggior parte della sua vita. Frequentavo la città, ci andavo spesso, e Papusza era in qualche modo presente, anche nei ricordi degli altri zingari del luogo. Non so come spiegarlo, ovviamente era già morta da tempo, ma era come se ci fosse ancora. Possiamo dire che è un po’ una fusione di queste due cose, il libro di poesie e questi ricordi assieme hanno fondato in me qualcosa di profondo ed emotivo. Del resto, scrivere un libro è un’attività che occupa diversi anni e non riesco proprio a immaginarmi di passare anni in compagnia di una persona che non sopporto o che non mi interessa in nessun modo.

È stato difficile condurre un reportage soltanto fatto di fonti indirette?

In qualche modo sì, ma anche più facile. Mi spiego meglio: amo parlare con le persone, è fondamentale in questo lavoro e mi piace molto, ma non sento la necessità di riportare nel libro ogni singola persona con cui ho parlato. Faccio un esempio banale: il frammento in cui racconto come si fanno le corde dell’arpa, ho parlato con tre artisti di musica popolare per descriverlo. Ovviamente questo il lettore non lo sa e magari pensa che abbia al massimo letto qualcosa a riguardo, ma non è così, semplicemente a me interessa di più raccontare quello che succede e non tanto il fatto che io magari sono andata qui o là a parlare con questo e quello. A volte sono costretta a svelarlo per spiegare da dove ho avuto quel materiale ma preferisco quando sono i personaggi a far parte del libro più di me e meno cognomi ci sono dentro e meglio è.

Questo ci porta alla prossima domanda: Papusza è un reportage atipico. Per i temi, per le sue emozioni in prima fila e per lo stile del libro è più narrativo che reportistico a volte. Come si pone a riguardo?

Infatti dico sempre che i miei libri non sono reportage ma un qualche genere “spezzato”: c’è un po’ di reportage, un po’ di romanzo -anche se non credo sarei capace davvero di scriverne uno- e chissà che altro, ma sicuramente è vero che il genere del reportage in senso canonico non è una cosa che mi appartiene. Da lettrice non lo amo nemmeno tantissimo, anche se stimo molto l’enorme lavoro che c’è sempre dietro. Ho un profondo rispetto per i reporter che ad esempio svelano storie cupe, scandali e così via, ma sarò sempre più vicina ad autori come Hanna Krall o Wojciech Tochman, gente capace di descrivere la sofferenza anche con una parola sola.

Quali sono quindi le sue preferenze di lettura? C’è un genere che da lettrice la appassiona più di altri? O un autore?

Diciamo che in generale leggo molte cose legate a quello di cui mi occupo in quel determinato momento, ma per il resto leggo cose molto varie, con la vecchiaia ho reimparato a leggere per il gusto di farlo. Ma se devo fare un nome, per me una maestra indiscussa resta Małgorzata Szejnert e anche se il suo polacco a volte può sembrare un po’ vecchio stile è talmente bello che io consiglierei di leggere i suoi libri anche solo come esempio di bella scrittura, c’è tanto da imparare da lei. In generale devo dire che sono molto colpita dalla forma: se un libro è scritto bene, indipendentemente da quale sia il suo genere, io lo leggo volentieri.

Quanto ritiene che oggi come personaggio e come poetessa sia apprezzata Papusza in Polonia?

Quando ho scritto il libro se ne parlava poco, l’attenzione si è alzata anche grazie al film di Anna Krauze al quale ho lavorato come consulente, ma prima era un personaggio ai margini. Gli stessi zingari -io uso questa parola perché lo faceva la stessa Papusza, non lo uso affatto in senso denigratorio- erano restii a parlare di lei o faticavano a ricordarsene, adesso è molto diverso, oggi le stesse poesie di Papusza sono tradotte in molte lingue. Per me è una grande soddisfazione come autrice aver contribuito ad averle dato una nuova giovinezza, nuova vita, anche se ora è un po’ scemata alla gente il suo nome suona familiare.

Tornando alla questione delle fonti, il libro riesce a produrre un senso di vicinanza estremamente efficace se confrontato con il fatto che per ovvi motivi non ha potuto incontrare Papusza.

Questo lo rende un lavoro intrigante e particolare se vogliamo, ho avuto accesso a grandi quantità di materiale e ho ricostruito il personaggio nel modo in cui l’ho sentito meglio. Il monologo iniziale, ad esempio, non l’ho riportato trascrivendo fedelmente una registrazione, ma è l’effetto di quello che potremmo definire un montaggio radiofonico. Prima ho ascoltato e trascritto svariate ore di testimonianze e poi le ho montate in relazione ai vari temi. E la cosa più importante è che, di chiunque scriva, mi circondo di loro. Nel caso di Papusza ho ascoltato quelle registrazioni più e più volte concentrandomi anche sui rumori di fondo o facendo caso, ad esempio, a quando lei si ferma per sorridere e questo causa un senso di vicinanza. Quando leggiamo le sue lettere possiamo immaginarci i suoi stati d’animo indubbiamente, ma con una certa distanza, così credo che si sia reso più vivido il suo stato d’animo.

Amo lavorare in questo modo, immergendomi nel materiale, è allo stesso tempo più facile e più difficile rispetto a parlare con le persone dal vivo. Se incontri cinquanta persone diverse, avrai di tutte loro un’impressione diversa, invece lavorando così ho modo di costruire le mie con una maggiore distanza e secondo me a volte si riesce a creare un’intimità superiore a quella che ci sarebbe incontrando di persona l’oggetto del proprio lavoro.

Come si affronta un personaggio la cui emotività è tanto strettamente legata a uno specifico retroterra culturale? Ha dovuto studiare la cultura rom per capire Papusza?

Ho avuto una vera e propria guida a Papusza che mi ha accompagnato nella comprensione del mondo zingaro, fondamentale per il libro. Papusza prima di essere una poetessa era una zingara e questo è ineludibile. Se non fosse stato per Ficowski, sarebbe rimasta semplicemente una zingara che cantava agli alberi, nessuno l’avrebbe mai pubblicata, sarebbe rimasta patrimonio di se stessa e della sua cultura. E proprio per questo è stato importante conoscere meglio quel mondo, parlare con loro, anche se Papusza per la comunità rom è ancora un personaggio scomodo, a metà strada tra la riconoscenza e il sospetto.

Come ha scelto i momenti della vita di Papusza che sarebbero diventati centrali per il libro. Naturalmente sono quelli più importanti, ma perché lo sono?

Proprio perché i miei libri sono tanto concentrati sulle emozioni mi piace definirli ritratti piuttosto che biografie, non ho alcun interesse nel mettere in fila una serie di eventi e via. Per esempio di recente pare sia stato scoperto l’effettivo anno di nascita di Papusza e qualcuno ha scritto che sarebbe bastato consultare non so che documento, cosa che io non ho fatto. Ma che differenza fa per la storia di Papusza il fatto che sia nata nel 1909 o nel 1910? È bene saperlo, ma non cambia niente nel valutare la sua sorte, non mi interessa sapere con esattezza quando è nata ma cosa ha causato il fatto che abbia avuto la vita che ha avuto e magari non un’altra.

Con una dimensione culturale così importante, secondo lei Papusza potrebbe vivere anche ai giorni nostri?

Direi di sì, in fin dei conti ci sono diversi poeti di lingua rom attivi oggi che scrivono e pubblicano, ai tempi di Papusza faccio fatica a immaginare che una zingara “qualsiasi” potesse recarsi da un editore e chiedere di stampare le proprie poesie. Ovviamente non succede neanche oggi, ma sicuramente c’è maggiore apertura. Ho iniziato a interessarmi un po’ di poesia contemporanea in lingua rom, ho letto qualcosa, ma non ho trovato nessuno dello stesso valore di Papusza.

Ci sono dei momenti del libro a cui è più legata?

Da quando ho intrapreso questa carriera ho sempre scritto gli incipit alla fine, con Papusza è successo il contrario, forse anche per questo ho un legame importante con il monologo che apre il libro, c’è tutta la sofferenza, il dolore e anche la grandezza di questa donna.

Quando ha capito che aveva già abbastanza materiale per poter scrivere? Quando ha posato tutte le carte e preso la penna, insomma?

Io di solito inizio a scrivere mentre cerco ancora i materiali, quindi non saprei definire con esattezza il momento. Forse in questo modo ci sono delle cose che mi sfuggono, come quel fatto della data di nascita, e poi arrivano critiche che però più invecchio più imparo a prendere con le pinze, ho deciso che quando scrivo lo faccio prima di tutto per me stessa e arrivare con la consapevolezza di aver dato a quel libro tutto quello che potevo.

Posso chiederle come ha iniziato a scrivere?

Mi piace dire che ci sono arrivata… in bicicletta. Sono cresciuta in una cittadina vicino al confine tedesco e una volta ho visto una targa su un cimitero accanto a una Chiesa che diceva: “qui giacciono uomini e donne che hanno perso la vita in modo insensato”, allora mi sono incuriosita e sono venuta a sapere che in quel paesino alla fine della guerra tutte le donne si suicidarono temendo stupri e violenze da parte dei soldati dell’Armata Rossa che stava arrivando, ci fu persino una madre che impiccò la figlia piccola al soffitto. Lo scrissi a Gazeta Wyborcza per segnalarlo e loro mi dissero di scriverne. Ho iniziato così.

Se dovesse dire a chi si ispira a quali nomi penserebbe? Chi considera dei maestri?

Beh, la Szejmert come detto sicuramente, per la scrittura e per quello che è stata per me, Hanna Krall ha una grande capacità di sintesi, Tochman per la capacità di descrivere il dolore. Kapuściński è stato un riferimento per me, ora molto meno, resta certamente un maestro, ma non ha un influsso diretto sul mio lavoro.

Ci sono alcuni che dicono che di un reportage non serva che sia scritto bene, io non sono d’accordo, non si tratta solo di riferire dei fatti, ci sono cose che vanno espresse bene, la lingua che veicola i messaggi è importante ed è quello che cerco.

A volte gli autori così legati ai propri personaggi, fittizi o reali, faticano ad allontanarsene a scrittura finita. Lei come si è sentita dopo aver concluso Papusza?

Una volta quasi mi ammalavo nel dare l’addio ai libri, oggi lo tollero meglio, ma questo è stato un libro dannatamente difficile da scrivere, Papusza mi somiglia in qualche modo, siamo entrambe molto permalose ad esempio. Ci sono temi nella sua vita come la solitudine e l’amore che sono temi di tutti, universali, e anche in questo probabilmente è stato meglio non averla incontrata. Per affrontare con qualcuno temi così profondi e delicati bisogna metterci tutti sé stessi e fare un esame di coscienza; mi sono dovuta chiedere: quando ho avuto paura o mi sono sentita sola nella vita come mi sono comportata? Cosa ho sentito? La scrittura di un libro così è come un’operazione a cuore aperto. Da un certo punto di vista è stato un sollievo, amo molto il mio Papusza e anche se ci sono errori o cose che possono essere cambiate non lo cambierò mai, non ci penso nemmeno a un’edizione aggiornata, penso che lì si veda anche chi ero io nel 2013, i miei libri fra qualche anno saranno certamente diversi perché io sarò diversa. E questo perché con questo libro ho affrontato anche i miei bagagli emotivi e credo che questa cosa gli dia valore.

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