Kubaterra, prove tecniche di slowcore polacco.

Kubaterra

Esordienti e attivi tra New York e la Vistola, i Kubaterra riproducono fra tradizione e originalità lo spirito del miglior slowcore mondiale.

 

di Salvatore Greco

 

Quando ormai una decina di anni fa scoprii i Low mi feci trascinare facilmente in quella musica così ostentatamente lenta, dilatata, malinconica e persino un po’ spirituale; uno spazio dove le potenzialità sonore della musica rock e una genuina vena intimista nella scrittura riuscivano a completarsi alla perfezione. Un critico non sempre amato ma al quale non si può non riconoscere una certa attenzione come Scaruffi definisce i Low “l’equivalente rock dell’haiku giapponese o del mantra tibetano”. Sono innumerevoli dagli anni ’90 a oggi i gruppi e gli artisti che cercano di ricreare quel tipo di musica, sono veramente felice che tra gli esperimenti più riusciti del genere ci siano i polacchi Kubaterra.

KubaterraKubaterra è un progetto talmente giovane che è persino difficile reperire informazioni a riguardo, quello che scopriamo arriva dalla loro pagina facebook, dall’account bandcamp e da un breve ma molto gradevole documentario indipendente realizzato dal film-maker Włodek Markowicz che sostiene di aver contattato Kubaterra perché voleva che scrivesse le musiche per un suo film sulla Georgia e poi ha sentito il bisogno di raccontarne un po’ la storia, peccato solo che si fermi a pochi dettagli. Quel poco che apprendiamo è che i nostri Kuba Dobrowolski, Jan Rey, Sebastian Kaszyca, Wojtek Gasiorowski e Szczepan Garstka vivono (o sostengono di vivere) a New York (ma non sembrerebbe proprio dall’intervista fatta a Dobrowolski in un polacco impeccabile) e che l’unico album per ora all’attivo, uscito nel giugno 2014 per l’etichetta Impressum (ma da altre parti si parla di “self-published”), è stato scritto interamente durante un viaggio di sei mesi in Australia, viaggio di stacco e di scoperta creativa dai risultati eccellenti a quanto ci è dato vedere. Kubaterra è il nome dell’album oltre che del progetto, nome di cui è difficile discernere le origini; se per la parte “Kuba” è facile ricondursi al nome del leader della band, la parte “terra” così prepotentemente italianeggiante nel suono non ci è dato capire che storia abbia.

Kubaterra è un album composto da otto brani tutti in inglese e la brevità dei titoli assieme alla scelta iconografica di copertina e loghi continua a farmi pensare ai Low senza soluzione di continuità.

Il disco si apre con If I will, una ballata dai toni strumentali ovattati e da due versi che si ripetono –guarda un po’, Scaruffi- come un mantra cantato a due voci: “So I am far away from place/Where I’ve been all my story”. Rispetto alla purezza estensiva dei primissimi Low, qui Kubaterra dimostra comunque una vena diversa che permette di spaziare sulle tonalità e di staccarsi dal ritmo mantra per concedere più libertà alla formula. Se vogliamo, dai Low il riferimento passa ai Rivulets.

Tono più volto alla forma canzone che si conferma anche in Don’t keep me low in cui è il ritornello Don’t keep me low/Just let me go a riassumere le canoniche vesti slowcore su una base di arrangiamenti che fa comunque delle basse frequenze la sua forza compositiva. La cosa procede con Streams, brano tutto strumentale in cui la scelta di distorsioni e accellerazioni di ritmo dell’intro ha qualcosa di deliziosamente post-rock e che poi si placa in un letto sonoro che se fosse un po’ più disarmonico potrebbe far pensare ai My Bloody Valentine. Molto interessante la prova di Can you hear it, molto fedele all’ortodossia slowcore seppure letta in chiave molto personale, mentre la vena cantautoriale riprende il sopravvento nella ballata romantica We are everything che seppure giochi su un lirismo un po’ stucchevole è ben composta e interpretata. Quay, che segue, è un altro intermezzo strumentale in cui Kubaterra si diverte a sperimentare le sonorità lo-fi con risultati promettenti per un eventuale –augurato- prossimo album, mentre Endless try è per me il pezzo più riuscito di tutto l’album e merita di parlare da sé:

A conclusione dell’album un altro brano piacevolissimo, Shy on life, che con un uso cantilenante delle chitarre acustiche e una buona scelta di arrangiamenti ulteriori chiude con perfetta coerenza il mix sonoro di Kubaterra nella sua interezza.

Per il resto basta solo aspettare, voci dall’ambiente indipendente polacco raccontano che Kubaterra sia (siano) già impegnati nel remix di alcuni brani del primo album e nella scrittura dei prossimi. Se le premesse sono queste, li aspettiamo davvero con ansia.

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