Esordio partito sottovoce, Pustostany ha sorpreso tutti vincendo premi su premi e lanciando Dorota Kotas verso un ruolo di primo piano.
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di Salvatore Greco
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Varsavia è una città cannibalizzata dal suo stesso ruolo. Capitale amministrativa, economica e finanziaria di un Paese in crescita, mastica ambizione, ingoia aspettative, digerisce frustrazione. E la letteratura che ha Varsavia sullo sfondo, la quasi totalità dei romanzi polacchi contemporanei, riflette questa cosa. Un mondo laccato di caffetterie alla moda, appartamenti moderni, ristoranti sofisticati e successo, successo che traspira da ogni poro. Il ritratto di questa borghesia, realizzata o ambita, nasconde sotto le sue pieghe un’altra Varsavia, che non trova molto spazio sulle copertine. Come il gemello cattivo di Bart che in una celebre puntata dei Simpson la famiglia tiene nascosto in soffitta nutrendolo di teste di pesce. Su questa Varsavia nutrita di (metaforiche) teste di pesce, ha preso la parola un’autrice fino a ieri completamente sconosciuta, Dorota Kotas. Ha scritto un libro, l’ha chiamato Pustostany e l’ha riempito di tante cose che Varsavia non racconta, o non ama raccontare, di sé.
Pustostany è una parola polacca che indica le case abbandonate, spesso lasciate in cattivo stato, a volte trasformate in squat. Dorota Kotas ha vissuto a lungo in un posto del genere e l’ha reso protagonista della sua storia, in un romanzo breve e un po’ atipico pubblicato dall’editore indipendente Niebieska Studnia. Un libro uscito quasi in silenzio, nutrito dal passaparola e arrivato lontano, visto che ha vinto il prestigioso premio Gdynia, e il premio Conrad destinato al migliore debutto narrativo di ogni anno.
La storia, o forse sarebbe meglio dire l’universo di storie, di Pustostany gira attorno a una vecchia palazzina di Grochów, isolato del quartiere di Praga, uno di quelli che si trova al di là della Vistola e che non pochi a Varsavia trattano con un distacco che sfocia nello snobismo. In questa palazzina abbandonata, la protagonista vive con il suo cane e delle altre donne in uno spazio dai confini poco definibili in una cornice narrativa tradizionale. Leggendo il libro di Dorota Kotas infatti si ha l’impressione che la realtà sia sopravvalutata, e che la verosimiglianza di luoghi e persone come anche la coerenza degli stessi sia qualcosa di cui si può fare a meno. Quello che la protagonista vive, anche e soprattutto attraverso la sua emotività complessa, esiste a prescindere. Come esistono del resto alcuni elementi fondanti del mondo che la circonda, il microcosmo di Grochów. I lettori di PoloniCult forse ricorderanno che questo quartiere nel quartiere ha già ispirato un romanzo che era anche quello l’esordio di una giovane scrittrice: Toximia di Margo Rejmer. E alcuni elementi tra la Grochów di Toximia e quella di Pustostany ci sono: povertà, modestia di mezzi e di pensiero, sbiaditi resti di Polonia socialista accanto a posti che cercano di non perdere il treno della modernità, alcolismo, violenza, alienazione.
La differenza sostanziale tra i due mondi è nell’accettazione che se ne fa. Se i protagonisti di Toximia erano un affresco grottesco di umanità per la quale infine provare compassione, la protagonista di Pustostany si tiene sempre a galla nonostante tutto. Il romanzo di Dorota Kotas è un libro sul farcela in condizioni difficili, giocando un po’ dentro e un po’ fuori dalle regole di un capitalismo maturo e arrivato a mostrare feroci contraddizioni, lasciando fuori dalla porta con serenità sentimenti come l’ambizione, la brama, e il produttivismo. La protagonista di Pustostany, vivaddio, detesta lavorare, lo fa male, lo fa poco, e non ci vede nulla di male. Vive giocando al ribasso e rifugiandosi dal mondo, mostrando fatica ma anche disinteresse nell’accettare le regole di un vivere sociale che non capisce del tutto.
In qualunque altro romanzo, sarebbe stata una disadattata, la scheggia impazzita di un sistema perfettamente funzionante. Ma in Pustostany no, perché questa giovane donna un po’ bislacca, a volte apatica, che mangia quello che capita e ruba gli zerbini ai vicini morti o andati via, non è mai un personaggio per il quale provare compassione, del quale ridere, o con il quale lottare. La protagonista senza nome di questa anti-avventura picaresca dal lettore non vuole nulla, come nulla o quasi vuole dalla vita. Eppure, nel raccontare una quotidianità apparentemente consueta, grida forte che il re è nudo e mostra con il sorriso il giocattolo rotto di un mondo che ha perso di senso.
La lingua di Pustostany è un polacco fatto di parole semplici e riferimenti immediati, tuttavia non è mai spoglio. Come la sua omonima Masłowska, Dorota Kotas dipinge quello che vede attraverso gli oggetti di consumo (o di non consumo) che la circondano, da un vecchio pigiama ai panini al tonno e cetriolo preparati in serie e serviti dal banco di una caffetteria alla moda; dal cibo irrancidito trovato nel frigorifero di una vicina morta sola alle riviste e sigarette mai vendute dietro il vetro a scomparsa di un chiosco di giornali. Il risultato è un libro che non pesa quasi niente, composto com’è di cose minute, eppure ammantato di una malinconia irresistibile, che a volte si camuffa da ironia, ma mostra il vuoto di senso reale di molte cose che sembrano averne. Come una palazzina abbandonata, appunto, come i Pustostany.
Per Dorota Kotas il difficile inizia adesso. Essere all’altezza di sé stessa in futuro, per brillare come nuova grande voce della letteratura polacca. Oppure non farlo, perché di brillare non sembra avere nessuna voglia, ma almeno continuare a infilare il dito nelle ferite che la modernità vorrebbe nascondere.