Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi. Caravaggio (1571-1610)
Racconto inedito di Anita Stojałowska. Traduzione a cura di Salvatore Greco e Mara Giacalone.
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Amo la vigilia di Natale. E il tempo subito prima delle Feste: una settimana di festoso caos, in corsa tra i negozi in cerca degli ultimi, di solito poco azzeccati, regali; il tempo dei foglietti con la lista della spesa che si ritrovano nelle tasche del cappotto fino a marzo; dei preparativi febbrili; dei litigi sulla grandezza dell’albero e sul colore degli addobbi e quell’irrimediabile senso di colpa per i bigliettini d’auguri ancora una volta non inviati.
È il tempo in cui associo l’aria che avvolge il tepore di casa con l’aria che profuma di neve e di freddo poiché lavare le finestre, incuranti del gelo pungente fuori, è una tradizione consacrata – un obbligo oltre che inaugurazione annuale del Natale.
Subito dopo sopraggiungeva l’odore della cera per i pavimenti. Un tempo la vendevano in piccole bottiglie di vetro che stappavo ogni tanto, ad esempio a luglio o in novembre, in un moto di irresistibile nostalgia per le Feste e lo annusavo con un piacere peccaminoso (adoro quell’odore), cercandovi quella magia dicembrina, quella gioiosa attesa, emozioni uniche nel loro genere, unione di fede, scetticismo e speranza, quel calore indefinito mescolato con il rumore della neve che scricchiola sotto le scarpe, di cose intime e sensuali, di quelle che si avvertono due millimetri sotto la pelle e che più tardi, per tutta la vita – da adulti – fanno venire la pelle d’oca.
E lo ammetto: nelle frivole prove di evocazione dello spirito delle Feste a luglio non ho mai provato soddisfazione, quanto più una vera e propria mancanza, tristezza e disillusione, che oggi mi sembra comprensibile perché ho capito che solo l’unione dell’odore della cera per pavimenti con il profumo del bigos che cuoce da giorni, solo la nota di trementina unita con quell’orgia odorosa di funghi, crauti, prugne secche, di neve fuori dalla finestra, di pino fresco e ancora selvatico e di cioccolata nascosta da qualche parte in fondo a uno stipetto, ecco, soltanto tutto questo, solo il mescolio per intero spargeva gli invisibili, selvatici, feromoni delle Feste.
In quel periodo nei negozi facevano capolino, inaspettate, le arance: il loro colore, il loro sapore e la loro succosità saranno sempre per me sinonimo di Natale, di lusso inaspettato e dell’eccezionalità della notte della vigilia. Proprio allora il miracolo della nascita di Cristo si legò per me indissolubilmente al miracolo del profumo delle bucce d’arancia e della cioccolata di Wedel, come i globuli bianchi e i globuli rossi, o il sacro e il profano o come le due facce della stella di Betlemme, una stella un po’ sbilenca, priva di alcuna grazia, che avevo ritagliato a fatica da una scatola di cartone, e poi avevo foderato con della carta dorata, presa da una confezione di dolci per poi metterla, con orgoglio, in cima all’albero incoronando l’opera.
Della cucina invece non parlerò. Non perché non la ami. Anzi. Adoro preparare da mangiare per le Feste. Per la verità solo in quell’occasione, poi potrei chiudere la cucina e dimenticarmene per un anno intero.
Scrivendo della cucina e delle portate del cenone entrerei nelle sabbie mobili delle animosità e differenze di noi polacchi. Come popolo ci dividiamo non solo in merito alle nostre opinioni sul Tribunale Costituzionale e sulla democrazia, alle nostre idee politiche o preferenze sessuali: è con leggera (per dirla eufemisticamente) condiscendenza che gli abitanti della zona intorno a Poznań guardano quelli della Pomerania riempire i piatti del cenone di zuppa di pesce anziché di frutta secca, mentre i cracoviani guardano increduli i varsaviani gustare barszcz rosso coi ravioli al posto della zuppa di funghi.
È un tema delicato, legato a valori senza nome, fragili ricordi d’infanzia e migrazioni volontarie o meno alle quali nel momento consacrato del Natale è meglio non fare riferimento per non spezzare un equilibrio già abbastanza delicato.
E così arriviamo lentamente all’istante santo, unico e inimitabile, quell’istante tra il caos e altro caos; un istante di silenzio in mezzo alla follia dei preparativi, all’ebbrezza degli odori, degli acquisti, delle imprecazioni nel preparare i pierogi e la soddisfazione per la zuppa fumante sul tavolo, il frastuono delle sedie che si spostano, il tintinnio delle posate, le chiacchiere di ogni anno sempre uguali: sulla carpa non cotta alla perfezione, sul cattivo tempo (sia che nevichi o anche che non nevichi), sulla superiorità delle aringhe sott’olio rispetto a quelle imburrate, sui propri malanni, sui principali senza speranza e sul bigos del giorno dopo.
Parlo di un istante più breve di un batter di ciglia o del riflesso della prima stella aspettata dai bambini, di quello che vedo sulla tavola piena fino ai bordi, coperto da una tovaglia bianca e apparecchiato tradizionalmente per una persona in più che potrebbe venire a bussare (e che mi mette sempre tristezza per quelli che se ne sono andati o che abbiamo lasciato per strada e quel momento in cui prendo in mano la tipica ostia natalizia per dividerla con i miei cari.
È una frazione di secondo di pura pace nelle nostre anime tremanti e inquiete, per molti impercettibile e troppo effimero in mezzo al quale ci fermiamo: in mezzo a ciò che è stato e ciò che sarà, prima di noi e dopo di noi, tra il passato e il futuro, tra il so e il non so. Intravedere quell’istante, sentirlo, così breve e timoroso, sperimentarne la magia nel bagliore delle luminarie dell’albero, nella lucentezza delicata dei piatti ancora vuoti è un dono diretto da Dio nascente.
E poi quell’istante svanisce. Ne sentiamo persino fisicamente la mancanza. Ci scivola via dalle dita come un amore mai realizzato e noi, fingendo con noi stessi che non sia successo nulla, spezziamo quel bianco e sottile pezzetto di ostia e con gioia fuori misura e con la gola strozzata ci auguriamo l’un l’altro salute, ricchezza e felicità – tutto ciò che appare (o forse no) indipendente dalla nostra volontà e dalle nostre più sincere preghiere, dopodiché affamati ci sediamo in fretta attorno al tavolo e mangiamo, chiacchieriamo, guardiamo come ogni anno “Mamma, ho perso l’aereo”, battibecchiamo di politica e di vecchie questioni mai risolte, mangiamo di nuovo, cantiamo i canti di Natale, poi ci scambiamo i regali, ringraziamo con allegria molto ben simulata per i soliti –come l’anno precedente- calzini di lana grigi o i soliti profumi che ancora una volta regaleremo a un’amica, plachiamo i bambini troppo eccitati, sparecchiamo, portiamo il dolce, salutiamo gli ospiti, laviamo i piatti, spegniamo le luci dell’albero e andiamo a dormire. Sì, miei cari, andiamo a dormire, già nel futuro, verso quello che ancora accadrà, iniziando la nostra attesa per le prossime Feste, attesa impaziente, piena di speranza e di sfiducia, verso il prossimo istante che ci darà l’illusione desiderata di poter afferrare il tempo, di poter afferrare l’assoluto o la felicità o Dio.