Kontrasty – Camminando sull’acqua. In memoria di L. Cohen

Leonard Cohen

Natura morta con porcellane, flauto, libri e arance. Cristoforo Munari (1667-1720)
Racconto inedito di Anita Stojałowska. Traduzione a cura di Salvatore Greco e Mara Giacalone.
Clicca qui per la versione originale in polacco.

Avete mai mangiato delle arance cinesi? Io no, e spero proprio di non provarle mai. Eppure nel 1981, nella grigia e triste Polonia della legge marziale, esse evocavano in me una nostalgia pari solo a quella che possono risvegliare in un viaggiatore delle mappe del mondo sparse sul pavimento. È quell’istante lì, quello in cui l’inquietudine non ha ancora ceduto il passo alla curiosità, e da quelle carte lacere per il tanto sfogliare si pregustano le avventure, quel vento sconosciuto e i profumi di terre nuove.

Proprio nel 1981 ascoltai per la prima volta Suzanne di Leonard Cohen. Non posso certo tacere di come non sia stato un anno felice per nessuno, soprattutto per noi, studenti quasi maggiorenni del migliore liceo di un piccolo capoluogo. Sulle labbra avevamo costantemente il sapore della libertà dell’anno passato e i nostri cuori, scaldati in continuazione dal ricordo dell’agosto dell’80, si raffreddavano piano, troppo piano. Ci avevano tolto la speranza e, per noi che ci eravamo appena inebriati di quella boccata di aria fresca, fu come se ci avessero messo in testa delle buste di plastica e ci avessero obbligato a fare respiri profondi.
Ognuno di quei respiri, lo sapevamo bene, ci portava verso la morte.

Proprio per questo motivo l’odore delle arance cinesi era così inebriante e calmante. E non importava che proprio lì accanto, su quello stesso pontile, Gesù camminasse sull’acqua. Dopotutto noi non credevamo in Dio. Quel sapore, quel colore, la libertà, la libertà di un mattino soleggiato, il fiume che scorre pigro, l’amore all’ombra di una grande città, un vecchio impermeabile azzurro, un ballo con la rosa tra i denti, le calze verdi di Nancy, verdi come la candela accesa in una stanza a buon mercato, sì, erano quelli i nostri sogni, un inseguimento alla leggerezza della vita – anche se li cantava quel giovanotto dalla voce di un suicida risoluto e con il segno della depressione stampato in volto.

Qualche anno dopo, nel 1985, Leonard Cohen sbarcò in Polonia. Il concerto più vicino a noi si sarebbe tenuto a Poznań. Andammo con un gruppo di amici – allora eravamo studenti universitari, quasi senza soldi, senza biglietti e senza uno straccio di possibilità di entrare. Contavamo nella grazia di Dio, nel quale ovviamente e coerentemente non credevamo. Contavamo in un inesistente segno della provvidenza o in qualche miracolo sovrannaturale e un miracolo (e lì suonarono le campane!), quel miracolo avvenne. Nel parcheggio, poco prima del concerto, un uomo conosciuto lì per caso ci diede dei biglietti e per di più erano per la zona VIP. Così, all’improvviso e increduli, ci trovammo seduti davanti al palco, inebriati dalla miracolosa luce divina, incapaci di credere fino in fondo che fosse tutto vero e in mezzo a quella folla, ci sentivamo quasi come il popolo eletto.

Non ho più quegli amici attorno a me; il destino ci ha allontanati ma sono sicura che in questi giorni, al cospetto della morte di Leonard Cohen, ognuno di loro, ovunque si trovi, abbia pensato a quella serata magica: alla realizzazione dell’irrealizzabile, alla nostra gioventù traboccante di speranza e al fatto che i miracoli avvengono davvero.

È una storia a lieto fine? Ai lettori piace quando nel mondo tutto torna a posto. E rispondo di sì: è una storia a lieto fine. A dire il vero, vagando per la vita, abbiamo imparato che non si va avanti se non accettando le perdite. Abbiamo perduto amici, amori, soldi, salute e sogni. Eppure persino oggi, quando ascolto “Suzanne” o “Hallelujah” provo un indefinito senso di felicità per il fatto che Dio, che comunque non esiste, mi abbia permesso di intuire da qualche mandarino l’infinita bellezza del mondo e mi abbia dato la speranza che nel cercare quella bellezza, anche se dovrò camminare sull’acqua, non annegherò.

Per Leonard, a nome mio e di chi era accanto a me negli anni Ottanta.

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