Profilo di Leszek Kołakowski, marxista indomito in terra polacca
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di Roberto Reale
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Capita di essere apprezzati all’estero più che in patria, o comunque in modo diverso e per ragioni diverse. Di essere dunque oggetto di una lettura che muta a seconda del punto di vista, e che del complesso di un carattere o di una personalità preferisce trascegliere ed evidenziare questo o quell’aspetto, trascurando il resto: o perché di quel complesso la lettura, la “narrazione” non sa darsi ragione come di un tutto unico, o perché esigenze ideologiche o di preservazione identitaria prevalgono più o meno marcatamente sull’obiettività storica.
E spesso, paradossalmente, la lettura nazionale, endogena, è quella che meno giustizia rende al pensiero o all’autore che ne è oggetto, appunto perché i fattori ideologici o identitari hanno qui un “peso specifico” maggiore, e facilmente ci si presta a correggere il tiro. Un terreno particolarmente fertile per fenomeni di questo genere sembra essere la Polonia, forse perché specialmente intricato è in questo paese il rapporto con il proprio passato e con alcune correnti di pensiero che oggi specialmente sono avvertite come estranee all’identità nazionale; benché certo si potrebbe obiettare che correggere la storia non è il modo migliore per conquistare una serenità di giudizio critico.
Questa sorte di “lettura scissa” fu anche di Leszek Kołakowski, uomo dalla carriera complessa, ma senza alcun dubbio tra i maggiori pensatori politici che non la sola Polonia, ma l’Europa ha avuto nel XX secolo. L’adesione giovanile al PZPR gli costa oggi in patria quasi una damnatio memoriae in sordina, benché quello stesso entusiasmo, quella stessa sincerità di sentire che egli mise nella prima parte del suo sviluppo umano nel servire le idee in cui credeva lo abbiano spinto poi, in seguito alla “perdita dell’innocenza” conseguente alla morte di Stalin, a rivolgere altrove la ricerca delle sue fonti, meritandosi la fama di uomo scomodo che pagò con l’espulsione dal partito prima (1966) e dall’insegnamento universitario due anni dopo.
Altre fonti, si diceva: e infatti è nel pensiero etico, non alieno di scetticismo, della tradizione europea che Kołakowski trova una sponda preziosa al proprio bisogno, ormai non più sopprimibile, di interrogarsi sul senso delle posizioni ideologiche; in Erasmo dunque, ma anche in Spinoza, in Cartesio, in Pascal. Il nucleo della sua riflessione tuttavia non diverge dal marxismo, anche negli anni del forzato esilio in terra inglese; e anzi egli ne va elaborando una declinazione in cui ai temi classici si sovrappone una concentrazione sempre più spinta sulla condizione umana.
Del 1976 è la monumentale Główne nurty marksizmu. Powstanie, rozwój, rozkład (Correnti principali del marxismo. Origine, sviluppo, declino), considerata, specie nel mondo anglosassone, un’opera imprescindibile (si veda ad es. il necrologio che The Telegraph gli tributa; oppure l’articolo retrospettivo su The Nation); e notevole è il rifiuto di abbandonare la lingua materna per concedersi a un più spigliato inglese, contrariamente a quanto faranno altri (Bauman, per citare il prototipo dell’opposta tendenza). Quasi dieci anni prima dell’opus majus, però, era uscita una raccolta di saggi, Kultura i fetysze (Cultura e feticci), apparsa quasi inosservata e persa nella gran mole di scritti di Kołakowski, eppure di importanza, io credo, cruciale.
E non soltanto perché il 1967, l’anno della prima edizione di Kultura i fetysze per i tipi di PWN, fu lo snodo della crisi che violentemente “staccò” il suo autore dalla “sua” Polonia. Ma perché è in questo testo che compiutamente prende forma quella personalissima declinazione del marxismo, anzi di un umanesimo marxista, che è la cifra del Kołakowski maturo.
Di Kultura i fetysze non esistono, a quel che mi consta, traduzioni italiane; il lettore che non intendesse affrontare il testo originale, peraltro non privo (anzi!) di dignità letteraria, può rifarsi alle raccolte in inglese Toward a Marxist humanism: essays on the Left today e Marxism and Beyond. (Va segnalata peraltro un’ottima riedizione in polacco, sempre per PWN, nel 2009).
I saggi che il volume raccoglie sono ben lungi dal configurarsi come dei tristia, nonostante il difficile “dato” vitale di quegli anni; al contrario, in essi la contrapposizione tra kapłan, il “sacerdote” custode di un dogmatismo ufficiale, e błazen, il “buffone” portatore sano di un dubbio radicale, e cui non è estranea l’erasmiana follia, quella contrapposizione cioè che animava i primi scritti di Kołakowski, matura in una dicotomia netta, addirittura ontologica tra un assoluto cognitivo e lo scetticismo che dinamicamente ne denuncia il limite.
E nei saggi di Kultura i fetysze Kołakowski affronta una varietà di temi, in una progressione che dal riesame critico dei fondamenti e delle possibilità del pensiero filosofico (Zakresowe i funkcjonalne rozumienie filozofii, che potrebbe tradursi come Finalistica e funzionalismo in filosofia) trascorre ai temi classici di etica marxista (Karol Marks i klasyczna definicja prawdy, Definizione classica della verità in Marx; Etyka bez kodeksu, Etica senza codice) giungendo a trattare direttamente il tema dello scetticismo in relazione al marxismo (in Cogito, materializm historyczny, ekspresyjna interpretacja osobowości, da rendere magari con Materialismo storico ed interpretazione “espressiva” della personalità). Su questo punto val la pena citare l’anonimo estensore della recensione del testo su lubimyczytac.pl:
Dla polskiego czytelnika uderzający jest szczery szacunek dla myśli Marksa, oparty na dogłębnej lekturze i prawdziwym zrozumieniu, oraz niechęć do wszelkich upraszczających interpretacji Marksowskiej filozofii.
“Non potranno non colpire il lettore polacco il rispetto sincero per il pensiero di Marx, sulla scorta di una lettura approfondita e di una comprensione reale; nonché la riluttanza a banalizzare in qualsiasi modo l’interpretazione della filosofia marxista”.
Ma particolarmente interessante è la seconda parte della raccolta, in cui centro della riflessione diventa l’uomo in senso globale, nel senso cioè in cui lo descrive l’antropologia culturale, con le sue molte dimensioni: sovrastrutture sì, se vogliamo attenerci ad una lettura canonicamente marxista; ma sovrastrutture la cui importanza supera di fatto quella delle strutture economiche pure e semplici. Kołakowski scrive così di Osobowość w sakralnej i ekologicznej wizji społeczeństwa (La personalità nella visione religiosa ed economica della società), di Prawda i prawdomówność jako wartości kultury (Verità e veridicità come valori di cultura), di Symbole religijne i kultura humanistyczna (Simboli religiosi e cultura umanistica), di Wielkie i małe kompleksy humanistów (Complessi grandi e piccoli degli umanisti). Perché di umanesimo ormai si tratta, a pieno diritto; raggiunto attraverso una progressione che è un percorso di iniziazione oltre che lo svolgimento di un pensiero sistematico, e forse non lontano da un personale Bildungsroman.
E l’umanesimo di cui Kołakowski si fa portavoce, pur senza staccarsi dalle premesse fondanti del marxismo (economiche, etiche, politiche), è un umanesimo integrale, nel senso che investe l’uomo nella sua totalità. E in quanto tale è anche una paideia, ossia un progetto di educazione, nel senso alto della parola.
Diverse sono ovviamente le premesse rispetto a chi, come Werner Jaeger, appena prima della guerra guardava all’antichità classica ed omerica come ad un modello alto da proporre nuovamente all’uomo contemporaneo; ma non diverso è il fine che Kołakowski si propone. Spingere l’uomo alla ricerca del suo sviluppo radicale, egli ci dice, si può fare senza abbandonare alle ortiche la grande utopia marxista; purché di quell’utopia si sappiano denunciare gli a priori attraverso il ricorso assiduo alla ragione, a quel logos cui soltanto va dato ascolto.