Antesignano del grande reportage, Kazimierz Nowak è stato un viaggiatore indomito e narratore straordinario del continente africano.
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di Lorenzo Berardi
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“Questa è un’opera davvero eccezionale. Il suo contenuto e la personalità del proprio autore la rendono avvincente. E in quanto tale dovrebbe ottenere maggiore attenzione e un più ampio riconoscimento (…) Spero davvero che trovi il suo posto fra i grandi classici del reportage polacco”.
L’approvazione di Ryszard Kapuściński in copertina è un bel biglietto da visita per un libro, per quanto talvolta abusato. Non però in questo caso. ‘Rowerem i pieszo przez Czarny Ląd‘ (In bicicletta e a piedi attraverso il Continente Nero) di Kazimierz Nowak è davvero uno di quei libri che restano impressi. Un’opera e un autore che potrebbero dire poco al lettore italiano, e forse anche a quello polacco, ma per i quali un processo di riscoperta internazionale sembra essere in corso. La dimostrazione sta nella splendida edizione inglese del libro, intitolata ‘Across the Dark Continent‘ e tradotta da Ida Naruscewicz-Rodger. L’opera è stata pubblicata dall’editore polacco Sorus con il patrocinio della Fundacja im Kazimierza Nowaka a fine 2017, a diciassette anni dall’uscita dell’edizione originaria. E il sito ufficiale dedicato a Kazimierz Nowak è una miniera di informazioni in sei lingue: polacco, inglese, tedesco, francese, arabo e italiano.
I fatti dicono che Kazimierz Nowak attraversa l’Africa con la sua fedele bicicletta, già compagna di escursioni a pedali europee, fra il novembre del ’31 e il novembre del ’36 percorrendo un totale di quarantamila chilometri. Imbarcatosi a Napoli e approdato in Libia – allora colonia italiana – arriva a Capo di Buona Speranza in Sudafrica due anni e mezzo dopo. Qui l’avventuroso polacco rifiuta un biglietto aereo offertogli per rientrare in Europa e decide di compiere il percorso inverso sud-nord seguendo un nuovo itinerario: arriverà ad Algeri trenta mesi dopo.
Un’Africa dalle mille contraddizioni
Un totale di cinque anni di avventure, incontri ed esplorazioni africane documentate in un diario e in decine e decine

Photo by: Paulina Stanik
di lettere spedite alla moglie Marysia che lo aspetta a Poznań. Nowak è anche un talentuoso fotografo che per interesse personale e necessità di auto-sostentamento scatta circa diecimila immagini durante il proprio viaggio con una macchina Contax. Molte di queste fotografie in bianco e nero trovano posto sia in ‘Rowerem i pieszo przez Czarny Ląd’ che in ‘Across the Dark Continent’ e meriterebbero un libro tutto per loro. I soldi per Nowak sono un problema sin dall’inizio e vendere foto o brevi reportage a quotidiani polacchi e tedeschi consente di proseguire il viaggio. Lo Stato polacco non aiuta il viaggiatore finanziariamente – forse per il suo rifiuto a perorare le timide ambizioni coloniali della madrepatria – né lo fanno i privati. L’unica eccezione è la ditta Stomil che regala a Nowak una fornitura di copertoni per la sua bicicletta.
L’Africa incontrata dal ciclista polacco è un continente in transizione, sospeso fra antiche tradizioni millenarie e i visibili effetti di decenni di occupazioni coloniali in quasi ogni suo angolo. Un continente in cui esattori delle tasse al soldo dei belgi visitano villaggi di capanne di fango i cui abitanti non conoscono il significato del denaro e si rifugiano nella savana per sfuggire allo scocciatore. Ma anche una realtà nel quale mercanti arabi in un’oasi del deserto libico danno le proprie figlie in sposa negoziando una dote in lire italiane.
Kazimierz Nowak è contrario in termini generali alla presenza dalle potenze europee nel continente, rallegrandosi a più riprese che la Polonia non abbia colonie (un commento che ritornerà in ‘Ebano’ di Kapuściński). L’autore è però quasi benevolo nei confronti delle autorità coloniali italiane in Tripolitania né critica mai apertamente il modo – oggi tristemente noto – in cui è amministrato il Congo belga. Un atteggiamento spiegabile, forse, dall’aiuto ricevuto dalle autorità coloniali in momenti di emergenza, ma anche dal loro controllo esercitato sui suoi scritti.
Paradossalmente è l’Egitto inglese a indispettire il solitario ciclista che lo ritiene un Paese corrotto. E nel descrivere le città minerarie o gli avamposti coloniali abbandonati che incontra lungo il proprio percorso, Nowak sembra rallegrarsi per gli effetti della Grande Depressione che hanno restituito angoli di Africa ai loro legittimi residenti.
Un sentimento che talvolta si scontra con una mentalità figlia della sua epoca secondo cui il progresso tecnologico e la fede cattolica sono comunque necessari per elevare il tenore di vita degli indigeni. Proprio gli incontri con i missionari europei – compresi quelli polacchi a Kasisi, nell’allora Rhodesia e attuale Zimbabwe – sono particolarmente apprezzati da Nowak. Imbattersi in un indigeno che ara la terra canticchiando un inno cristiano polacco tradotto nella propria lingua è per il viaggiatore assieme motivo di conforto e di nostalgia verso casa.
Da Tripoli a Città del Capo
Contraddizioni episodiche che però non tradiscono la visione di fondo dell’autore: pur affetto dai sintomi della malaria e spesso ridotto alla fame, Nowak preferisce dormire sotto le stelle tenendosi alla larga dalle grandi città. Quando è costretto a trascorrere qualche giorno in un centro abitato dall’aspetto occidentale – per beghe burocratiche o in attesa della sua corrispondenza dalla Polonia – l’autore è insofferente ai lussi della vita coloniale e brama gli ampi spazi aperti. Più volte, inoltre, Nowak condanna l’abitudine degli europei di sfruttare i locali come portatori o servitù arrivando al punto di lodare i coloni boeri perché coltivano da sé la terra. Per lui la frugalità, la non ostentazione, l’arte di arrangiarsi con poco sono le vere virtù. Ecco perché il viaggiatore polacco si sente più simile alle popolazioni locali, per quanto le loro abitudini igieniche o alimentari (lo sterco bovino nelle acconciature, il burro fatto cagliare con l’urina di vacca) lo lascino talvolta perplesso.
Nel viaggio da Tripoli a Città del Capo non mancano le disavventure. I momenti in cui l’autore ammette di essersela vista brutta in preda ai sintomi della malaria o si salva dalla disidratazione per la provvidenziale apparizione di un’oasi sono molti. Eppure in questo contesto, il reporter sui generis non si piange mai addosso e anzi regala al lettore pagine intere di preziose osservazioni.
Illuminanti, ad esempio, le pagine dedicate all’aspetto di città come Tripoli o Bengasi oggi semidistrutte dalla guerra civile seguita alla dittatura di Gheddafi e già allora gestite in maniera autoritaria dai ‘coloni’ italiani (Nowak sente le note dell’inno fascista ‘Giovinezza’ provenire dai cortili delle scuole, cantate a squarciagola).
Meravigliosa e lirica la descrizione della città vecchia di Ghadamès, perla del deserto libico, e in seguito divenuta patrimonio dell’umanità protetto dall’UNESCO. Alla luce del genocidio avvenuto nel ’94 nel piccolo Paese africano, merita un plauso particolare la descrizione della struttura sociale del Ruanda incontrato da Nowak. Alcuni degli elementi di cui scriveranno Ryszard Kapuściński prima e Philip Gourevitch poi sono qui anticipati con chiarezza a cominciare dalla netta separazione di ruoli esistente fra Tutsi e Hutu. Nowak ammira sia i primi – che definisce dal profilo simile a quello degli antichi Egizi – che i secondi – ritenuti inclini alla bonomia. Tuttavia nota e descrive anche il fenomeno della ‘vendetta di sangue’ diffuso in tutto il Paese e che giocherà un ruolo chiave nel propagarsi su scala inimmaginabile degli orrori ruandesi.
Da Città del Capo ad Algeri
La copertina tanto dell’edizione polacca quanto di quella in lingua inglese del libro mostrano Kazimierz Nowak intento a trascinare la propria bici carica di bagagli su un terreno sabbioso. È uno scatto emblematico perché i chilometri percorsi in sella dal viaggiatore nei suoi cinque anni africani sono relativamente pochi. Le strade assenti o accidentate, deserti, laghi e fiumi da attraversare, l’occasionale obbligo imposto delle autorità portano Nowak a spostarsi su canoe e barche a vela, in treno, automobile o a cavallo e persino in groppa a un dromedario. Senza dimenticare gli infiniti chilometri percorsi a piedi tra dune, paludi, savana e giungla o un’escursione d’alta quota per raggiungere le nevi del monte Stanley fra Congo e Uganda.
A volte sono contrattempi e inconvenienti tecnici a costringere Nowak ad arrangiarsi. Difficile trovare pezzi di ricambio per la propria bicicletta nel bel mezzo di giungle e savana. Ecco perché quando la sua cavalcatura è impossibile da riparare, Nowak è costretto a mettersela in spalla o a impacchettarla alla bell’e meglio e a proseguire in sella a un cavallo. Accade per tremila chilometri fra la Namibia e l’Angola. Nella frazione di Gomuchab a Mariental, Nowak incontra un compatriota, il signor Wiśniewski, che gli dona un cavallo chiamato Rys (diminutivo di Ryszard, ma anche ‘lince’in polacco). La bicicletta, l’acqua e i bagagli del viaggiatore, invece, vengono trasportati da altri due cavalli, Żbik e Cowboy, fino a una fattoria di proprietà della nobile famiglia polacca degli Zamoyski.
Il resto del percorso verso nord è ancora più avventuroso con una combinazione di estenuanti scarpinate in solitaria, canoe indigene, barche a vela e poi di nuovo in sella alla propria bicicletta fino al lago Ciad. Per raggiungere le sponde del Mediterraneo, tuttavia, resta ancora da attraversare il Sahara. Per farlo, Nowak è costretto dalle autorità coloniali francesi a formare una propria carovana. Un obbligo e assieme una raccomandazione che probabilmente gli salva la vita.
Il reporter polacco scova un cammelliere locale e impiega cinque mesi per attraversare il deserto sul dromedario Uela. Di lì ad Algeri è tutta – metaforicamente – discesa. Kazimierz Nowak passa da sella a sellino percorrendo l’ultimo migliaio scarso di chilometri sulla fedele e scassata bicicletta.
Il (breve) ritorno a Poznań
L’arrivo ad Algeri nel novembre ’36 segna la fine di un viaggio durato cinque anni. Nowak compra vestiti invernali e si imbarca per Marsiglia. Seguono alcune settimane di ristrettezze finanziarie e problemi con i visti necessari per tornare in Polonia. Solo grazie all’intercessione della moglie Marysia e della fabbrica di copertoni Stomil, Nowak riesce a ottenere un prestito dal console polacco necessario per pagarsi le spese per il ritorno in Polonia. La notte prima della Vigilia di Natale ’36 il viaggiatore è finalmente a Poznań accolto da una folla di amici in stazione. Nei mesi successivi Nowak è instancabile. Organizza conferenze etnografiche, presentazioni e proiezioni di fotografie fra la propria città natale, l’Università Jagellonica di Cracovia e Varsavia.
Lavora su due progetti: da un lato vuole riunire i materiali raccolti in Africa in un libro e pubblicarli, dall’altro sogna di organizzare una nuova e ancora più ambiziosa impresa ciclistica, in India e Asia meridionale. Purtroppo, però, le sue condizioni di salute si aggravano presto. Gli attacchi di malaria si susseguono. A peggiorare la situazione arriva un’infiammazione alla gamba sinistra che lo costringe a operarsi. In ospedale contrae una polmonite che, in un organismo già debilitato dai sintomi malarici, si rivela fatale. Sono passati appena dieci mesi dal suo rientro in Polonia.
Kazimierz Nowak ha pagato a caro prezzo il viaggio di una vita. Non sapremo mai come sarebbe stato il libro sull’Africa che il viaggiatore-reporter aveva intenzione di pubblicare e resta il rimpianto per quel viaggio in India che non si è mai concretizzato. Facile ipotizzare che l’incombere della Seconda Guerra Mondiale (l’invasione tedesca della Polonia inizia 23 mesi dopo la morte di Nowak) avrebbe compromesso la preparazione e l’esito di quella spedizione. Tuttavia, a ottantuno anni dalla sua scomparsa, l’eredità di questo viaggiatore-reporter sui generis è più che mai viva. Chi arriva in treno alla stazione centrale di Poznań Główny, noterà una placca commemorativa a forma di Africa dedicata a Nowak e inaugurata da Ryszard Kapuściński nel 2006.
Sul fronte editoriale, i libri legati ai cinque anni africani del reporter su due ruote non mancano. ‘Kochana Maryś!’ (Mia cara Marysia!) riunisce in tre volumi le lettere inviate da Kazimierz Nowak alla moglie durante la sua permanenza nel continente nero. Il già citato ‘Rowerem i pieszo przez Czarny Ląd’ propone una narrazione lineare cronologica ricostruita con un mix di lettere, diario e reportage affiancati a fotografie scelte scattate da Nowak. ‘Afryka Kazika‘ a cura di Łukasz Wierzbicki, è invece una raccolta di storie per i più piccoli ispirate al viaggio di Kazimierz Nowak. Vi è poi un’ulteriore opera, ‘Polska Kazimierza Nowaka‘ incentrata sulle escursioni polacche dell’autore, precursore del cicloturismo anche in Europa. Una voce sincera e originale che va ad arricchire il già ricco filone del reportage polacco e che meriterebbe una chance editoriale in Italia.