A tu per tu con Julia Fiedorczuk, autrice del romanzo-rivelazione Sotto il sole e teorica dell’eco-critica.
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Intervista con Julia Fiedorczuk a cura di Salvatore Greco
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Sotto il sole è un romanzo che sfugge alle nostre categorie, di quei libri che si finisce di leggere con una sensazione di incanto e piacere che non si è subito in grado di afferrare. Questo perché è un romanzo un po’ rivoluzionario, opera di una scrittrice di grandissima sensibilità letteraria e dalle visioni innovative sul ruolo della letteratura: Julia Fiedorczuk, scrittrice, poetessa e docente della cattedra di teoria della letteratura all’Università di Varsavia.
Ne abbiamo parlato con lei per dare i contorni a quello che a detta di molti è uno dei libri più belli usciti nel 2020, ricco di grazia e sostenuto da una scrittura notevole oltre che da una prospettiva teorica completamente nuova.
Sotto il sole, il cui titolo originale è Pod słońcem, è uscito nel 2020 per Wydawnictwo Literackie ed è ancora inedito in Italia dove i diritti per la traduzione sono liberi e rappresentati da Nova Books Agency.
Innanzitutto grazie del suo tempo. Nel suo lavoro di accademica lei si occupa di eco-critica, un campo in grande crescita nel mondo anglosassone ma ancora poco noto in Italia. Ci può dire in breve in cosa consiste? Il suo romanzo Sotto il sole ne è un’applicazione pratica?
Detta nel modo più semplice possibile, l’eco-critica è uno strumento della teoria della letteratura che ha come scopo portare in primo piano i rapporti tra genere umano ed elementi non umani della narrazione, quelli che potremmo chiamare ‘natura’, anche se non amo questo termine. Si tratta dunque di uno sforzo critico per uscire dalla prospettiva antropocentrica.
Visto che questi temi mi interessano molto, è naturale per me che la mia scrittura come autrice li rifletta. Alla base di quello che scrivo, che si tratti di critica o dei miei romanzi, c’è una domanda fondamentale su chi siamo come esseri umani, in particolare in relazione al resto di quello che ci circonda.
Perché non ama la parola natura? Le sembra che abbia una connotazione idilliaca da arcadia? O forse tutto il contrario, la associa a qualcosa di nefasto e ineffabile?
Non la amo proprio perché nelle culture occidentali assume dicotomicamente questi due significati: idealizzata fonte di ogni bene o forza cinica e aliena a ogni morale. Sono due facce della stessa medaglia, narrazioni dalle forti radici cripto-teologiche ed entrambe imperfette, perché colgono solo un lato della grande ricchezza reale del mondo extra-umano e di tutto l’universo simbolico che ne deriva.
Quando ci riferiamo a elementi extra-umani con parole come bello o brutto, buono o cattivo e tante altre, proiettiamo categorie umane su elementi che non le prevedono. Non è facile liberarsi di questa cosa, perché equivale ad accettare di non essere l’ombelico del mondo, ma è una prospettiva per me estremamente affascinante.
Trovo molto interessante che questo allontanamento dall’antropocentrismo nella sua opera si svolga comunque nel mondo fisico e non in una dimensione metafisica. È reale tutto ciò che è fisico, tutto che è sotto il sole, per citare il suo titolo?
A partire dal titolo, Sotto il sole è costruito attorno a citazioni dal Qoelet, il meno metafisico dei libri della Bibbia, che di Dio non parla mai al di fuori degli ultimi versi, che per altro sono quasi certamente apocrifi. È un libro che riguarda il ritmo della vita fisica e terrestre, sotto il sole appunto e nel quale conta tutto ciò che è fisico e terreno. E il mio romanzo si costruisce attorno a questo assunto.
Nonostante questa dimensione totalmente fisica, i suoi personaggi sono metafisici nell’ambizione che hanno verso qualcosa di più, che si realizzi nella religione o in una visione del mondo. Come vanno d’accordo questi due elementi?
Dipende dal modo in cui intendiamo la spiritualità, non è detto che debba realizzarsi in uno spazio metafisico. La spiritualità dei miei personaggi è nelle relazioni che creano con l’altro, è in quell’universo simbolico che realizzano le loro aspirazioni spirituali, e non serve una vita ultraterrena perché accada.
Per come la vedo io, spiritualità e materialismo non sono in contraddizione. Rifiutare una spiritualità metafisica non equivale a credere in un materialismo post-darwinista, arido e grigio.
Infatti Sotto il sole è un libro pieno di luce e di colore, dove i protagonisti riescono comunque a trovare un senso alla loro vita pur in condizioni difficili. Ho avuto l’impressione che ci riescano soprattutto le donne, è vero?
Non l’avevo mai vista in questo modo, ma in un certo senso è senz’altro così. Pensandoci a posteriori, possiamo dire che i personaggi maschili cercano soluzioni all’esterno, viaggiando, fuggendo o cercando delle relazioni, mentre le donne provano a risolvere le questioni all’interno di sé stesse e della loro rete.
Nonostante sia un libro che si svolge nel Novecento polacco così denso di storia, Sotto il sole è un romanzo senza date. È una scelta precisa?
Sì, anche se poi gli eventi storici che segnano passaggi precisi ho cercato di descriverli in modo preciso. Per restituire bene lo spazio ambientale nei giorni prima dello scoppio della guerra sono anche andata a controllare che tempo facesse nell’agosto del 1939. Ho evitato le date per non sottolineare troppo la linearità del tempo e accentuarne invece la dimensione ciclica, tipica del mito e del tempo della natura del resto. Poi ho voluto giocare con il fatto che spesso gli eventi delle vite dei personaggi ne evocano altri, in ben altri momenti. Il tempo alla fine è forse il vero protagonista della storia.
A proposito di protagonisti, la quarta di copertina ci dice che i protagonisti di Sotto il sole sono Michał e Miłka. Ma è davvero così? Dopo tutto quello che abbiamo detto dell’antropocentrismo?
No, infatti direi che sono protagonisti allo stesso modo tutti coloro che si trovano sotto il sole.
In un certo senso Michał focalizza su di sé la narrazione, le cornici temporali sono dettate in buona parte dalla sua vita. Se dovessi per forza indicare un personaggio umano come protagonista, farei il suo nome, anche se è un personaggio piuttosto passivo, che agisce poco e vede le cose accadere attorno a lui.
A differenza dei personaggi femminili…
Una cosa di cui mi sono accorta io stessa solo a stesura finita è che Michał non parla mai in prima persona. Lo fanno solo, in un paio di occasioni, alcuni personaggi femminili. Michał concentra le attenzioni su di sé, ma non ha l’incombenza di dover portare avanti la storia, quel ruolo spetta a tutti i personaggi, umani e non umani, tutte le entità sotto il sole. È un romanzo collettivo.
Vorrei proporle un confronto ideale con I vagabondi di Olga Tokarczuk, i cui protagonisti sono in continuo movimento, direi che proprio vivono nel movimento. Mentre i personaggi di Sotto il sole, a parte qualche breve fuga, i restano più o meno stabili. È perché lo vogliono o perché sono in qualche modo condannati a restare?
Non direi che tutti restano al loro posto nel mio romanzo. La famiglia di Michał all’inizio del romanzo vive in Polonia, ma parla più volentieri il dialetto locale. Si tratta di una generazione che viveva in quelle terre quando ancora c’era l’impero russo e che non ha mai avuto una coscienza collettiva nazionale, ma solo quella dei loro villaggi, fatta di dialetto e fede ortodossa. È la stessa generazione che, all’inizio della prima guerra mondiale, l’esercito russo ha fatto sfollare verso l’interno per fare terra bruciata davanti al nemico, e che quando è potuta tornare nelle proprie case le ha trovate in Polonia. Uno stato nuovo, con leggi scritte in polacco e il cattolicesimo come religione principale.
La famiglia di Michał nasce dentro questa contraddizione, dentro questo movimento di ritorno in un posto cambiato. Mi sembra che ci sia una continua tensione tra l’aspetto locale e quello globale, tra lo spostamento e il radicamento. Quel radicamento, quel senso di casa, che Michał prova a costruire con la lingua. Nella lingua dei rapporti familiari e nel ricordo si costruisce il senso di casa che ognuno porta con sé.
Questo elemento della lingua è fondamentale. Michał lascia il suo villaggio grazie all’ispirazione del suo professore di russo, che gli insegna l’amore per la poesia con Puškin. Poi scopre l’esperanto, e quello è un altro mattone di identità e di strada da fare. È la lingua che li può salvare?
È difficile per me osservare queste cose in prospettiva, io stessa credo nel valore salvifico della lingua e apprezzo la letteratura che mette l’elemento linguistico in primo piano. Non sarei mai in grado di sacrificare la forma al contenuto. Del resto la lingua è l’elemento con cui facciamo conoscenza con il mondo attorno a noi. Il fatto di dare nomi alle cose, ma anche le metafore, i racconti, il modo in cui proviamo a spiegarci i fenomeni, è tutto linguistico.
Altri autori, che prima di lei hanno esplorato le regioni orientali della Polonia, hanno fatto un uso identitario della lingua, riempiendo la loro prosa di dialetto. Lei invece non ne fa uso. Come mai? Cosa è rimasto di quel mondo?
Temo che sia rimasto molto poco, e io stessa con molta di quella tradizione non ho avuto quasi nessun contatto. Ho scelto di non usare il dialetto nel romanzo sia perché non mi appartiene sia per non trattare la Polonia orientale come un mondo esotico e distante, perché gli avrei fatto un torto.
Vorrei concludere quest’intervista con una domanda semplice e complessa allo stesso tempo. Cosa legge Julia Fiedorczuk? Che libro c’è adesso sul suo comodino?
Leggo molte cose insieme. Ultimamente mi affascinano molto le letture scientifiche: manuali di etologia o saggi sull’evoluzione ad esempio. Nei limiti di quanto concede la mia formazione, provo ad arrivare all’osservazione scientifica sincera. Ho invece un certo scetticismo verso certe letture divulgative molto umanizzanti e antropocentriche, penso che non facciano un buon servizio.
Se invece parliamo di letteratura, leggo molta poesia americana, ne ho anche tradotta un po’ per un’antologia, e torno spesso ai miti come Virginia Woolf o Margaret Duras, ma anche Flaubert, anche se può suonare strano detto da un’autrice che vuole rivoluzionare la forma romanzo.
Chiudo con una curiosità: so che ha firmato il contratto con l’editore per il suo prossimo romanzo. Ci può svelare qualcosa?
Non so quanto di quello che dirò si confermerà all’uscita del libro, ma questa volta voglio affrontare un tema che mi accompagna da moltissimi anni, ovvero quello del pensiero filosofico al femminile e come una donna pensatrice viene trattata nella cultura europea e occidentale. Mi sembra che spesso il contributo femminile sia relegato al campo delle emozioni e autrici che si spingono oltre fanno fatica a essere presi sul serio. La stessa Olga Tokarczuk ha dovuto lottare molto per superare l’immagine di sé come autrice di storie un po’ bislacche. Per questo ho iniziato a lavorare su un romanzo ispirato a Ipazia, un’allegoria vivente della rivolta contro chi sminuisce sistematicamente le donne pensanti. Ipazia, linciata e uccisa dalla folla nel contesto della lotta di legittimità tra cristianesimo e paganesimo, mi sembra sia stata ancora più scandalosa in quanto donna. Inaccettabile che una donna provasse a pensare e mettere in discussione l’ordine costituito.
Partirò da questo, ma sarà un romanzo contemporaneo, non storico, e sospetto che sarà più duro e ruvido di Sotto il sole, perché è questo quello che serve adesso. Un romanzo adatto al nostro antropocene, a un passo dal disastro climatico che ci aspetta.