Gioiello nella carriera di Dorota Kędzierzawska, Jestem è un film garbato che parla di solitudine e speranza attraverso storie di bambini.
di Salvatore Greco
La sensibilità del cinema polacco alle ferite del contemporaneo non è certo un fenomeno ignoto ai lettori di PoloniCult, ma un filone che abbiamo raccontato via via con spunti sulla disabilità, la fede religiosa, l’alcolismo o l’alienazione totale. Jestem di Dorota Kędzierzawska è un film che continua in questo solco attraverso una storia che parla di identità, solitudine e della disperata ambizione alla pace attraverso gli occhi di un undicenne.
Uscito in Polonia nel 2005 e nel 2009 addirittura arrivato in Italia in dvd, Jestem ha incontrato i favori della critica in festival come quello di Berlino o il Toronto Film Festival e, come dimostra l’attenzione di una casa di distribuzione del calibro di 01 Distribution, anche quelli del grande pubblico. Il trucco, come spesso accade, risiede nella bravura dell’attenta Dorota Kędzierzawska, attenta nel confezionare una pellicola di significativa qualità artistica ma anche in grado di incontrare emozioni e desideri di un pubblico piuttosto ampio e solitamente allergico ai film di un certo respiro.
Jestem racconta un momento significativo nella storia di un ragazzino senza nome e apostrofato lungo tutto il film come kundel, bastardo, appellativo che si sovrappone in tutto e per tutto al suo nome inesistente. Il nostro Kundel vive in orfanotrofio pur non essendo orfano, ma solo figlio di una madre sciagurata che scopriremo dedita a una sessualità ipertrofica nonché totalmente incapace di confrontarsi con sentimenti appena più complessi di un istinto. Il figlio invece dimostra da subito grande sensibilità, all’inizio del film recita una poesia religiosa del famoso poeta polacco Cyprian Norwid e cerca di spiegarla a compagni e docenti suscitando solo grande ilarità. La vita in orfanotrofio inoltre è viziata dal fatto di non vivere la condizione di vero orfano, ma quella probabilmente peggiore di figlio abbandonato per inettitudine dalla madre. Basta una battutaccia di un compagno durante il pranzo a solleticare un nervo scoperto e convincerlo a scappare. Il tentativo di tornare dalla madre è una danza macabra di immaturità emotiva che prende forma in poche brevi sequenze di brutale efficacia e il protagonista si trova così in un limbo di disumanità, sfuggito all’orfanotrofio, impossibilitato a tornare dalla madre e persino detestato con una rabbia cieca dagli altri bambini del paese che appena lo vedono iniziano una caccia all’uomo di inusitata crudeltà.
A Kundel resta un’improbabile soluzione di ripiego: vivere in una chiatta abbandonata, ormeggiata alla riva del fiume vicino. La vita così si compone di piccoli gesti ripetuti di disperazione e candore: la ricerca di cibo, ogni volta strafogato con la brama della vera fame, il frugare mesto tra le cianfrusaglie e i rifiuti alla ricerca di rottami ferrosi da rivendere al robivecchi del paese in cambio di pochi spiccioli, le parole dure e insolenti con cui scaccia la paura di tornare in orfanotrofio.
Qualcosa cambia radicalmente quando appare inaspettata una ragazzina bionda, con la fessura tra i denti e un sorriso impudente. Si tratta della figlia minore della famiglia benestante che abita la villa di fronte alla quale è ancorata la chiatta di Kundel: una bambina con un disperato bisogno di attenzioni, che beve di nascosto scadente birra in lattina e soffre di un complesso di inferiorità nei confronti della sorella maggiore che sembra più vicino a un trauma che a una semplice gelosia, eppure la trascina continuamente un irresistibile quanto insensato sorriso.
L’incontro tra Kundel -rigettato dal mondo e costretto a una povertà che si avvicina a un esercizio di sopravvivenza minima- e la ragazzina -benestante quanto alienata- assume una dimensione dialettica inaspettata e i due iniziano un rapporto curioso, un punto di incontro indefinibile tra amicizia, complicità, e pietas che sa di amore, seppur tra creature ancora troppo giovani per conoscerlo come tale.
La latitanza sulla chiatta di Kundel è destinata a concludersi, il suo ruolo nel mondo ancora a non trovare uno spazio, ma solo una condizione primaria. Al poliziotto che lo interroga nella scena finale del film, alla domanda “e che ci fai a questo mondo”, Kundel risponde semplicemente “Esisto”, Jestem per l’appunto. Non è una posizione di rimessa, ma una rivendicazione di semplicità, di purezza da cui ripartire. Su una chiatta e mangiando di straforo cibo rubacchiato, Kundel ha conosciuto un po’ di felicità, a cos’altro servirebbe un’identità fatta di dolorosissimi nome e cognome?
Il lavoro di Dorota Kędzierzawska è davvero un gioiellino filmico, interpretato splendidamente dai due giovanissimi Piotr Jagielski e Agnieszka Nagorzycka. La regia fatta di momenti di silenzio, intensi primi piani e un continuo dominare di tonalità seppia “smaschera” facilmente la provenienza della regista dalla scuola di Łódź e, se in alcuni elementi è persino troppo scolastico, rende alla perfezione l’universo emotivo e morale in cui si muovono gli antieroi di Jestem. Kundel è un vero e proprio personaggio picaresco, costretto a rinfoderare la sua sensibilità e le sue ambizioni (“da grande farò il poeta” racconta durante una delle loro dolci conversazioni sulla chiatta alla bambina) in una vita sciagurata, fatta di stenti e amore negato. Anche la sua piccola amica, non da meno, è destinata a dover soffocare il grande bisogno di affetto che una famiglia borghese e benestante non riesce a darle e che, nella sua indifferenza, arriva persino a lasciare che una bimba di dieci anni beva birra per dimenticare e per mantenere il candore acritico del suo sorriso. I due ragazzini, nella piccola intimità che ricreano rifugiati dentro la chiatta, è quasi come se ballassero un valzer di salvezza riservato soltanto a loro due, in quei progetti di fuga e goffo affetto che si dimostrano l’un l’altra trovano la pace che il mondo nega loro, allo stesso modo seppur da direzioni diverse.
L’espressività degli attori e le impeccabili scelte di fotografia rendono al massimo risultato possibile questo ritratto di periferia con nature morte di vite malriuscite in cui la speranza però arde luminosa e calda in contrasto con il tenue grigio del mondo circostante, come la luce sfacciata e isolata nei bui quadri del Caravaggio. Per il resto nessuna definizione di genere o dichiarazione di stile si presta alla collocazione di questo film, consigliabile praticamente per chiunque, perché Jestem proprio come il suo protagonista si limita a manifestarsi per quello che è, si limita a esistere e a resistere.
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