La “lunga durata” al servizio di una biografia
Jaques Le Goff (1924-2014) è stato insigne rappresentante di quella scuola delle “Annales” che tanto ha dato alla storiografia; tanto non solo in termini contenutistici ma anche metodologici. La rivoluzione copernicana degli studiosi orbitanti attorno all’ École practique des hautes études (Braudel, Bloch, Duby, Delumeau) consistette nello scalzare la storia evenemenziale (cioè la storia “dei fatti”) dal piedistallo che fino a quel momento aveva occupato, a vantaggio di una storia – e di una storiografia – che guardasse piuttosto a fenomeni di “lunga durata”. Un piccolo esempio tratto dal saggio che diede il titolo a un libro di Le Goff che ha fatto epoca, Tempo della Chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel medioevo (1977, Einaudi). Il tempo così come lo conosciamo non è sempre stato tale. Nel Medioevo si fronteggiarono due concezioni, la prima era quella della Chiesa, legata alla liturgia e al ritmo naturale – ciclico – delle stagioni; la seconda era quella di una nuova figura sociale, destinata a un ruolo egemone nella storia a venire: il mercante. Il tempo divenne letteralmente denaro; e il denaro non si può scialare. Di qui la necessità di misurarlo in maniera sempre più precisa e puntuale, di scandire la giornata in modo diverso da quello imposto dai ritmi ecclesiastici: il tempo, da circolare e legato ai cicli naturali, divenne poco alla volta lineare; di qui inoltre – man mano che il mercante veniva conquistandosi il prestigio sociale (e la ricchezza) che lo avrebbe imposto a figura guida della società moderna – il venir meno – o quantomeno l’annacquamento – di determinati interdetti ecclesiastici nei confronti delle attività commerciali. I segnali di questi rivolgimenti sono indagati attraverso i documenti più impensabili (almeno per un profano: i manuali dei confessori, le prediche, lo studio delle torri campanarie…). Ma mi taccio per non rovinarvi il piacere di scoprire voi stessi – se vorrete – un libro di storia che si lascia leggere come un romanzo; e un romanzo dei migliori.
Ma cosa c’entra tutto questo con la Polonia?
Ebbene, Jaques Le Goff nel 1961 fu invitato a tenere delle conferenze a Varsavia; recatosi controvoglia a cena da una studentessa polacca conosciuta a Parigi l’anno prima, finì per conoscere inaspettatamente la donna della sua vita: Hanka Dunin Wąsowicz diverrà sua moglie nel 1962. Lo storico francese e la giovane dottoressa polacca si sposarono nella chiesa di San Martino a Varsavia, condivisero insieme una vita per quarantadue anni, fino alla morte di Hanka, giunta fulminea e inaspettata, sabato 10 dicembre 2004. Le Goff ha voluto raccontare questa lungo viaggio a due in un libro intenso e piacevole, uscito da Laterza nel 2008: Con Hanka; lo ha fatto tuttavia in modo consono al suo essere pur sempre uno storico. La storia di Jacques e Hanka diviene la storia di due paesi – la Polonia e la Francia – e di un continente diviso in due blocchi da una “cortina di ferro” che in fin dei conti si rivelerà non impenetrabile, anzi molto più permeabile di quanto si pensi. Così scrive l’autore (p. 26): ” Se è stato il nostro amore che ci ha permesso di superare questa divisione, ciò è potuto accadere sul fondo di realtà europee fatte di legami tra l’Est e l’Ovest“. Il socialista francese Le Goff vedrà confermate le sue intuizioni sulla natura oppressiva del cosiddetto “socialismo reale”; si stupirà tuttavia anche di come in tale sistema le coscienze critiche – tra gli stessi comunisti – potessero trovare spazi non indifferenti. Bronisław Geremek, giovane studente che fece da guida e interprete a Le Goff durante il suo primo viaggio a Varsavia (1959, antecedente all’incontro con Hanka), era un giovane appartenente alla nomenklatura del partito, nel suo ruolo di presidente dell’Associazione degli studenti Socialisti. Lascio la parola a Le Goff (p. 8): ” Ma quale non fu la mia sorpresa quando, in capo a pochi giorni, mi rivelò che era profondamente deluso da Gomułka, che l’auspicata destalinizzazione era stata insufficiente e di breve durata […]. L’idealista che era in lui, che si era fatto comunista, si sentiva frustrato, ingannato, diviso tra rabbia e inquietudine. Non vedeva solo l’ideale comunista infamato e tradito, ma anche la patria polacca (egli non separava l’uno dall’altra – là dove «hanno avuto successo», i comunismi dei paesi dell’Europa centrale e orientale sono stati dei comunismi nazionali) portata alla rovina. […] potei beneficiare di quella relativa tolleranza tipica del regime polacco (spettacolare il fatto che la collettivizzazione delle terre dei contadini polacchi non era portata pienamente a compimento), anche nel periodo «duro» dello «stato d’assedio»”.
Tra le figure di storici (e amici) polacchi che Le Goff ricorda, ne vorrei citare almeno tre che, mi pare, riassumano bene in sé le varie sfaccettature che l’opposizione al regime socialista assunse: il primo è Aleksander Gieysztor (1916-1999): storico dell’anno Mille, morì, per ironia della sorte, come l’autore stesso ricorda, alle soglie del nuovo millennio. Fu anche un importante studioso nel campo delle cosiddette “discipline ausiliarie” alla storia, come ad esempio la paleografia – il suo Zarys dziejów pisma łacińskiego [Lineamenti di storia della scrittura latina] non ha nulla da invidiare ai migliori manuali di paleografia diffusi nelle nostre università. Gieysztor fu convinto europeista, insieme a Kłoczowski di cui dirò e a Pomian, nella speranza che la Polonia potesse trovare definitivamente il proprio posto in Europa ma senza rompere del tutto il proprio legame con l’oriente slavo (era nato a Mosca). Gieysztor sovrintese inoltre ai lavori intrapresi negli anni ’70 per la ricostruzione del castello reale a Varsavia, completamente distrutto dai nazisti nel ’44 e ne fu a lungo direttore (Le Goff ricorda una memorabile visita al castello con Gieysztor come guida d’eccezione).
La seconda figura di storico che vorrei ricordare è quella di Henryk Samsonowicz (nato nel 1930). Insieme a Geremek fu a capo del dissenso antisovietico tra gli studenti e dopo il 1989 ministro dell’Istruzione nel governo Mazowiecki.
Jerzy Kłoczowski (1924) fu esponente di rango nel mondo cattolico. Le Goff lo incontrò per la prima volta a Lublino: “Andava formandosi tra i comunisti, ma anche tra i non comunisti, e spesso in collaborazione segreta tra loro, una dissidenza, una resistenza al comunismo sovietico ufficiale, ormai guidato da un Gomułka assai deludente. […] Kłoczowski mi fece conoscere in particolare due realtà polacche essenziali: nella fondamentale componente cattolica dello spirito polacco, c’era una minoranza attiva, aperta, i cui laici avevano un ruolo importante. Lublino, inoltre, era la dimostrazione del fatto che la Polonia (come anche la Cecoslovacchia e l’Ungheria) non era all’«Est» ma al «Centro-Est», che essa apparteneva a un’area europea molto più centrale di quanto non facesse credere nell’immaginario geografico-storico, la nozione criticabile e pericolosa di «Europa dell’Est» (pp. 13-14).
Quanto Le Goff scrive è avvertibilissimo non appena si acquisti familiarità con il mondo polacco; capita infatti sovente di sentirsi corretti su questioni di terminologia geografica, a cui a tutt’oggi molti sono ipersensibili. Non è possibile collocare la Polonia nell’Europa dell’Est, giacché Est significa, nella percezione comune, Russia, Unione Sovietica e l’esperienza politica del comunismo, che paesi come la Polonia, l’Ungheria o l’ex Cecoslovacchia sentono estranea; a volte addirittura l’etichetta di “paesi slavi”, linguisticamente ineccepibile, viene guardata con sospetto: i polacchi sono consapevoli delle storture che ancora esistono nel “nostro” modo (cioè di noi occidentali) di intendere quest’aggettivo: ancora una volta, “slavo” significa re ipsa “comunismo”.
Se queste sono state le amicizie polacche che hanno accompagnato la coppia lungo la propria esistenza, lasciando a voi il piacere di seguire Jacques e Hanka nei viaggi in giro per il mondo che sostanziano di sé la seconda parte del libro, mi preme qui mettere in luce alcuni aspetti della personalità di Hanka così come della storia della sua famiglia che aiutano in certa misura a comprendere determinate dinamiche sociali (in parte valide tutt’ora): anzitutto, la famiglia di Hanka era una famiglia nobile per quanto, all’altezza degli anni ’60 del ‘900, ormai decaduta. Situazione comune a quasi tutte tali famiglie, che videro un progressivo e inarrestabile declino delle proprie fortune lungo tutto il XIX secolo; Hanka imparò il francese – che non parlava prima di conoscere Jacques – dalla madre, la quale ebbe, come tutte le famiglie nobili, una balia francese. Il francese era per la nobiltà polacca (e russa) la lingua di cultura. L’unica possibilità di riscatto sociale per tali famiglie andava ricercata nell’esercizio delle professioni liberali, ciò che comportò anche la necessità di spostarsi fisicamente dalla campagna (luogo d’elezione della szlachta “nobiltà) alla città.
Il padre di Hanka era morto nel 1948; rimasero solo donne in casa ma, scrive Le Goff, la società polacca conservava (allora) una forma mentis a doppio binario: se da una parte era riconosciuta da sempre la forza e la libertà delle donne nella gestione della casa e nell’educazione dei figli, era richiesto l’avallo formale del capofamiglia maschio per tutte le decisioni più importanti (come il matrimonio). Ecco che allora, mancando il padre, si “ricorse” allo zio Karol, per “formalizzare” la decisione di concedere la mano di Hanka a Jacques. Oggi, va da sé, se ancora possono verificarsi situazioni in cui il futuro sposo chiede al padre della sposa la mano della figlia (naturalmente con il consenso dell’interessata!), il Paese si avvia a una rapida “modernizzazione” e situazioni simili divengono sempre più rare; ciò che resta però – e che ancora si percepisce – è, in generale, una forte indipendenza e spirito d’iniziativa nella popolazione femminile, probabilmente dovuta anche alla storia passata di questo popolo: le donne polacche, soprattutto nell’800, erano costrette a occuparsi integralmente della vita familiare durante i lunghi periodi d’assenza degli uomini, impegnati in spedizioni militari o insurrezioni.
Ultimo spunto di riflessione: la grande dignità di Hanka (ma, va da sé, dei polacchi in genere) davanti alla storia, per cui, p. 43 “fu preparata ad assaporare i momenti di felicità e a piegare la schiena, senza cedere, nei periodi di disgrazia“. Nella Polonia di oggi, lo scrivo senza vis polemica, questa grande forza interiore, questa capacità di sorridere (che è diverso da “ridere”) delle proprie tragedie, pare a volte cedere a un’autocommiserazione poco costruttiva.
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