Intervista con Marian Ostafiński, difensore storico del Ruch Chorzów, per parlare di calcio, di Slesia e della generazione d’oro degli anni ’70-’80.
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di Alberto Bertolotto, giornalista e scrittore, autore di A ritmo di Polska e Il mundial di Karol.
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Kazimierz Deyna il più grande calciatore polacco di ogni tempo? Forse. La nazionale medaglia d’oro ai Giochi Olimpici del 1972 tra le più forti di tutti i tempi? Non esattamente. Non si è registrato uno spunto banale arrivato dalla chiacchierata con Marian Ostafiński, difensore classe 1946, ex portacolori del Ruch Chorzów e, soprattutto, campione a cinque cerchi a Monaco di Baviera con i biało-czerwoni. Nativo di Przemyśl, a pochi chilometri dall’allora Unione Sovietica, l’ex calciatore ha voglia di parlare, di raccontare la sua storia e quella del calcio polacco di allora.
Il luogo di ritrovo non poteva che essere Chorzów, a un passo dallo Stadion Śląski: a fungere da intermediario Leszek Błażyński, giornalista di Przegląd Sportowy, una delle penne di spicco del pallone dell’Alta Slesia. E a tal proposito va sottolineato come l’area rappresenti il luogo-culla del calcio polacco: è un fatto che nessuno osa mettere in dubbio, per quanto da anni trionfi il Legia Warszawa e la nazionale giochi al Pge Stadion Narodowy. È soprattutto qui, nell’area di confine, in una regione che risente ancora di alcuni influssi tedeschi, che lo sport più popolare non ha tanto affondato le sue radici quanto ha visto i maggiori successi, quelli degli anni ’70, la decade d’oro del movimento biancorosso. Qui, allo Stadion Śląski di Chorzów, la Polonia ha fondato le sue qualificazioni ai campionati mondiali del 1974, del 1978 e successivamente del 1982. Ma non solo. Dei dieci titoli nazionali in palio dal 1971 al 1980 sei sono stati vinti da una compagine dell’Alta Slesia: uno da parte del Szombierki Bytom (1980), due dal Górnik Zabrze (1971 e 1972) e tre dal Ruch Chorzów (1974, 1975 e 1979). All’interno dell’area, industrializzata e ricca per la Polonia dell’epoca, i club venivano finanziati dalle miniere (il Górnik) o dalle acciaierie: è il caso del Ruch, in cui militò dal 1972 al 1977 Ostafiński.
Il calcio in Alta Slesia la fa ancora da padrona nella mappa del calcio polacco: otto club tra Ekstraklasa e Pierwsza Liga.
“Questione di tradizione. La nostra area, in origine, era sviluppata e aveva numerosi investitori privati pronti a finanziare. Le società erano connesse alle industrie della zona. Tutto questo portò le squadre a un buon livello e i tifosi, in un mondo privo di svaghi, erano naturalmente molti: le partite erano coinvolgenti, l’interesse alto. Inoltre la nazionale giocava a Chórzow: qui, al tempo, si trovava stadio con la maggior capienza di tutta la Polonia”.
A proposito: ha mai giocato allo Stadion Śląski con la maglia biancorossa?
“Purtroppo no, solo col Ruch. Avrei dovuto scendere in campo nel 1975 con i Paesi Bassi. Purtroppo mi infortunai in uno degli allenamenti prima della gara. Subii una brutta botta in un contrasto: fu talmente forte che persi conoscenza mentre stavo andando al bagno. Il massaggiatore della nazionale, che era cieco, si spaventò non appena toccò dove mi feci male (alla gamba, ndr). Peccato, quello con gli oranje fu una delle partite mito del nostro calcio (la Polonia vinse per 4-1, la gara era valida per le qualificazioni ai campionati Europei del 1976, ndr)”.
Ostafiński, lei militò in nazionale dal 1970 al 1975, senza però partecipare ai mondiali del 1974, coincisi col terzo posto: che ricordi ha?
“Collezionai undici presenze, la maggior parte delle volte in cui fui convocato rimasi in panchina. Non so perché non giocai di più, si trattarono delle mie migliori stagioni e militavo in uno dei club più forti della Polonia. Non so perché Kazimierz Górski, il ct, non mi chiamò per i campionati iridati: due anni prima presi parte ai Giochi Olimpici. Forse non piacevo al suo vice, Jacek Gmoch, che avevo affrontato più volte quando lui giocava al Legia Warszawa: con lui furono sempre scontri molto accesi”.
Per molti ex calciatori Górski era una sorta di secondo padre: qual è la sua opinione?
“Era una persona molto lunatica, cambiava umore velocemente”.
Ai mondiali tedeschi convocò solo un calciatore del Ruch Chorzów vincitore del titolo polacco: Zygmunt Maszczyk. Come mai secondo lei?
“(allarga le braccia, ndr) Erano le sue idee”.
Facciamo un passo indietro: i Giochi Olimpici di Monaco del 1972, che rappresentarono il primo, vero, trionfo della Polonia calcistica.
“Io non giocai mai ma per me fu una grande soddisfazione. Durante la permanenza in Germania Ovest non avevamo una grande organizzazione, anzi. Questa fu la cosa che mi colpì maggiormente. Non eravamo controllati dallo staff tecnico. Ci venne data grande libertà e per me fu un’enorme sorpresa. Eravamo noi calciatori costretti a badare noi stessi: non avevamo, per esempio, un orario in cui mangiare tutti assieme. Ricordo bene che spesso il gruppo si incontrava agli allenamenti e alle partite. La vita del club, per fare un paragone, era totalmente diversa: c’erano regole ferree, da seguire”.
Tuttavia andò bene, arrivò la medaglia d’oro. Di chi il merito secondo lei?
“Vincemmo soprattutto grazie a Kazimierz Deyna. Non dico che tutto il resto sono chiacchiera ma… quasi. Fu lui a fare la differenza, non soltanto perché segnò nove gol di cui due nella finale con l’Ungheria. Era un giocatore molto forte”.
In campo un genio. Fuori, che persona era?
“Molto riservato, amava stare da solo, non gli piaceva parlare tanto. Era però molto umile, non aveva atteggiamenti da star. Era apprezzato per questo”.
Per molti è il calciatore polacco più forte di tutti i tempi: qual è la sua opinione?
“È difficile da dire. Io ho giocato con i più grandi, anche con Zbigniew Boniek. Per me Bronisław Bula, mio compagno di squadra al Ruch (centrocampista, 318 partite con gli slesiani, ndr), è stato un fuoriclasse. Sicuramente Deyna è stato quello che ha avuto il miglior rendimento in nazionale. A mio avviso il numero uno avrebbe potuto essere Włodzimierz Lubański, che però s’infortunò gravemente a 26 anni, nel corso della partita con l’Inghilterra vinta a Chorzów nel 1973. Si fermò nel suo momento migliore, in cui si vedeva che aveva ancora grandi margini di miglioramento. Certi incidenti hanno però la forza di stroncarti la carriera: così fu, perché non tornò più ai livelli di prima”.
Ostafiński, parlando della sua carriera, è soddisfatto? Non ha lasciato il segno in nazionale ma col Ruch vinse due campionati, una Puchar Polski e partecipò a due edizioni della Coppa dei Campioni.
“Un grande rimpianto che conservo è non aver fatto strada proprio nelle competizioni europee: sarei soddisfatto se fosse successo il contrario. Nel 1974-1975, alla nostra prima partecipazione all’attuale Champions League, ci fermammo ai quarti col Saint Etienne ma meritammo molto di più. Eravamo una squadra veramente forte. Devo però ammettere che la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Monaco fu un grande momento”.
Si ricorda un momento brutto della sua parentesi da calciatore?
“Certo. Allo Stal Rzeszów e al Polonia Bytom, club in cui giocai rispettivamente prima e dopo di approdare al Ruch Chorzów, mi pagarono soltanto in parte. Addirittura a Bytom, società nella quale chiusi la carriera, mi offrirono delle cravatte. I dirigenti volevano saldare così i loro debiti. Pensavo fosse uno scherzo”.
I soldi erano importanti.
“Non ero ricco. Quando giocavo non avevo la macchina: andavo all’allenamento in tram o a piedi. Per noi un’occasione importante per monetizzare erano le gare all’estero. Prima di partire acquistavamo in patria oro, cristalli, sigarette o vodka per poi rivenderli anche sino a dieci volte il prezzo che avevamo pagato. Era una pratica molto diffusa tra noi calciatori al tempo. Con quei soldi molti dei miei colleghi preferivano comprare vestiti per sé o da regalare alle proprie ragazze una volta rientrati in Polonia: io preferivo portare i soldi a casa”.
Molti club, al tempo, offrivano ai propri giocatori la casa.
“Nel 1974 grazie al Ruch Chorzów mi trasferii in un appartamento con tre camere a Katowice, di fronte al Park Śląski: vivo ancora lì”.