Esorcizzare il passato per vivere il presente – A tu per tu con Jacek Dehnel

Dehnel

(Photo by Cezary Rucki)

Una conversazione con Jacek Dehnel, scrittore e poeta tra i più importanti della sua generazione. A proposito di letteratura, verità, e non solo.

di Salvatore Greco

*Articolo in collaborazione con Nova Books Agency

 

Jacek Dehnel è, senza mezzi termini, uno dei migliori scrittori polacchi viventi. Il suo primo romanzo, Lala, è uscito nel 2006 garantendo al suo autore un grande successo in patria e all’estero, considerate le numerose edizioni in lingue straniere. Compresa quella italiana, uscita nel 2009 per Salani nella traduzione di Raffaella Belletti e con il titolo di Sotto il segno dell’acero. Lo stile di Dehnel, maturato negli anni, si fonda su una ricchezza linguistica fuori dal comune e sulla capacità di trarre verità complesse e attuali da narrazioni apparentemente distanti dalla quotidianità.

Il suo ultimo romanzo, A z naszymi umarłymi (E con i nostri defunti, i diritti per l’Italia sono rappresentati da Nova Books Agency), uscito per Wydawnictwo Literackie nel 2019, compie proprio un esperimento estremo in questa direzione ponendo in modo originale e sconvolgente il tema del rapporto della Polonia con il proprio passato e l’idea che ha di sé stessa: il risveglio dei morti, in forma di zombie, in un cimitero fuori Cracovia.

Di questa scelta coraggiosa, e di tutto un modo di concepire la letteratura, abbiamo parlato direttamente con Jacek Dehnel che ci ha concesso questa ricca e interessante intervista.

Nel suo discorso per il Nobel, Olga Tokarczuk ha detto che bisognerebbe, cito, “abbandonare il concetto di letteratura nazionale”. I protagonisti del Suo ultimo libro vedono con i loro occhi quanto sia difficile rinunciare ai simboli nazionali, persino se appaiono nella forma grottesca di zombie. Cosa ne pensa? Condivide l’auspicio della Tokarczuk? E, in generale, le sembra possibile?

Guardo alla comunità nazionale, come del resto a tutte le forme di comunità su base tribale, con grande scetticismo. Trovo fastidioso sentire cose come “la Polonia ha vinto il Nobel per la letteratura”. No, la Polonia non ha vinto un bel niente, è Olga ad averlo vinto. Che io gioisca per un Nobel, come è stato per Olga Tokarczuk ma anche per Thomas Tranströmer un paio d’anni fa, non ha a che fare con la nazionalità degli autori, ma con quello che scrivono e come lo scrivono. E ciò vale per ogni riconoscimento artistico, del resto.

È pur vero che la letteratura ha una particolarità che la rende diversa da tutte le altre arti: si crea con la lingua. E la lingua ha un enorme peso sul modo in cui guardiamo al mondo, alle relazioni tra le persone e le cose, ai generi, ai colori, ai nessi di causalità e così via. Ovviamente i confini dei Paesi e quelli delle lingue non corrispondono sempre: ci sono lingue usate in molti Paesi e Paesi in cui si usano varie lingue e dialetti, magari ognuno con la sua letteratura. La lingua polacca e l’identità nazionale polacca in questo senso sono strettamente legate: chi scrive in polacco è sempre un polacco, che viva in patria o all’estero. E di solito vale anche il contrario: chi è polacco tendenzialmente scriverà in polacco, eccezion fatta per il caso di Joseph Conrad. Allo stesso tempo un autore che scrive in inglese non deve per forza essere inglese o cittadino britannico.

È per questo che io, a prescindere dal mio scetticismo verso il concetto di nazionalità e la mia aperta ostilità verso il nazionalismo, sarò sempre uno scrittore polacco. Non in senso nazionale, ma per il fatto che mi muovo nell’ambito della lingua polacca, con tutto il suo bagaglio di significati e di quello che ci sembra ovvio e universale, ma che non lo è affatto, perché non ci accorgiamo di quanta influenza abbia la lingua su queste cose.

Dal suo debutto con Lala sono passati 13 anni. Come è cambiata la letteratura polacca in questi anni? E come è cambiato Jacek Dehnel come uomo e scrittore?

Di certo si è impoverito il mercato del libro in Polonia, sono diminuiti i lettori, si stampano sempre più titoli, ma in tirature sempre minori. È evidente il boom dei gialli e dei grandi casi letterari commerciali internazionali, il legame più stretto tra libri e internet come dimostrano i libri delle star di Instagram o le raccolte di status di Facebook. E poi sono cambiate le persone: hanno debuttato nuovi autori, altri sono morti o più banalmente sono passati di moda o hanno deluso le aspettative dei lettori che avevano conquistato con i titoli precedenti. Continua a essere molto forte il reportage letterario e abbiamo dei poeti notevoli che non legge nessuno.

E per quanto riguarda me, beh, negli ultimi tredici anni sono diventato uno scrittore professionista: ho pubblicato cinque romanzi, alcune raccolte di poesie e delle traduzioni. Mi sono sposato e ho scritto a quattro mani con mio marito tre libri gialli a sfondo retrò. Sono stato candidato a molti premi letterari e ne ho persino vinti un paio. I miei libri sono stati tradotti in varie lingue. Fra sei mesi farò quarant’anni e sono in quella fase in cui non si sa cosa ne sarà di me in futuro. 

Probabilmente i lettori, perlomeno in Italia, la conoscono soprattutto come romanziere, ma lei scrive anche poesie. In cosa si differenzia il Dehnel scrittore di prosa dal Dehnel poeta?

Non so, non vedo particolari differenze. Tanto la poesia quanto la prosa nascono nello stesso cervello e alla stessa scrivania. Magari con le poesie mi capita di scriverle prima a penna e poi ricopiarle al computer mentre la prosa la scrivo esclusivamente al computer, ma nient’altro. Trovo fittizia la differenza tra poesia e prosa, anzi vedo una linea di continuità che parte dai versi più normati (dal punto di vista della rima e del ritmo), passa dal verso libero e dalla prosa poetica per arrivare alla prosa vera e propria. Le dirò di più: mi capita di iniziare a scrivere qualcosa come poesia e che poi si sviluppa autonomamente in prosa. Oppure il contrario: magari ho in mente qualcosa di lungo e alla fine ne viene fuori una breve prosa poetica di non più di mezza pagina. È una questione che riguarda cosa voglio dire e scrivere e non chi sono.

Nella Sua opera e anche al di fuori, Lei è molto impegnato su temi sociali. Ritiene che un intellettuale, in particolare nei nostri tempi “liquidi” per dirla con Bauman, abbia o debba avere un ruolo sociale?

Il mio non è l’impegno di un intellettuale pubblico, concetto verso il quale nutro anzi un certo scetticismo. Il mio è l’impegno di un cittadino che ha il diritto, e forse il dovere morale, di occuparsi della comunità in cui vive. Chiaramente il fatto di essere uno scrittore mi dà possibilità superiori alla media: innanzitutto so come usare le parole perché arrivino alle persone e poi ho uno spazio pubblico da cui parlare perché scrivo sui giornali e il mio profilo Facebook è seguito da 40mila persone. È un vantaggio, ma anche un peso, nel senso che il fatto di avere avuto di più mi impone di pretendere di più da me stesso e impegnarmi a nome di chi nella mia comunità non ha la possibilità di fare sentire la sua voce. Perché non ne è in grado o perché magari una dichiarazione pubblica lo metterebbe più in pericolo di quanto non metta me.

La palazzina di Cracovia da cui parte il Suo ultimo romanzo A z naszymi umarłymi raccoglie sotto un unico tetto famiglie polacche di vario tipo, più o meno sane e più o meno socialmente accettate. Possono convivere solo in letteratura?

No, penso che anche in una società così divisa come è quella polacca di oggi, le persone in fondo abbiano un grande potenziale di collaborazione, al netto di ciò che le divide. Certo è che la regola del divide et impera è vecchia come il mondo e ha sempre aiutato il potere a consolidare la sua posizione. I nostri tempi non sono poi così diversi da quelli antichi: lo vediamo in particolare nel populismo la cui onda sta sommergendo l’intera Europa, gli Stati Uniti e i paesi dell’America latina. Il populismo adora dividere, non riesco nemmeno a pensare una forma di populismo che non nasca da una separazione tra noi e loro, e dalla promessa di soluzioni che colpiscano loro e aiutino noi. Questa frattura parte da fuori, ma entra nel profondo della società e mette in contrasto persone che potrebbero vivere in pace senza particolari conflitti.

I lettori polacchi sono sempre più sensibili al tema della verità in letteratura. Il reportage è il genere forse più letto, e le fascette “ispirato da una storia vera” sono una chiave di successo editoriale. Dall’altro lato della barricata, Lei ha scritto un romanzo in cui l’apparizione degli zombie irrompe nella quotidianità. Significa che Lei crede nel ruolo della fiction nonostante tutto?

Sono da sempre dell’idea che scriviamo fiction per arrivare alla verità più profonda e più difficile da mostrare. Oggi sappiamo che persino Ryszard Kapuściński, padre nobile del reportage, non di rado cambiava dei dettagli delle sue storie, univa tra loro dei personaggi, accentuava dei tratti perché la verità più profonda venisse fuori e arrivasse ai lettori. E non è nemmeno l’unico a farlo, cosa che negli ultimi tempi in Polonia ha portato a dibattiti vivaci sulla quantità di verità nel reportage. Questo però non è il mio campo. Tornando alla fiction: non vedo il senso di scrivere un romanzo storico che non parli di qualcosa di essenziale per i tempi in cui viviamo, dei nostri problemi e della nostra società. Allo stesso modo, non vedo il senso di scrivere un romanzo sugli zombie che non sia una metafora chiarificante alcuni aspetti della nostra vita. Sarebbe un puro esercizio di stile, una perdita di tempo. Tuttavia, il romanzo è una forma lunga, e i lettori a volte dimenticano quanto tempo si impieghi a scriverlo, più che a leggerlo. Se decido di consacrare a qualcosa uno, due o cinque anni della mia vita, che non mi verranno restituititi, non intendo sprecarli per vuoti giochi stilistici, ma proprio per avvicinare me stesso e i miei lettori a una qualche forma di verità.

Che rapporto ha con i suoi lettori? Prova a soddisfarli, a stupirli, a confrontarsi con loro?

Li penso, mentre scrivo, ma non li blandisco, non cerco di assecondarli: personalmente da lettore amo imparare dai libri che leggo e scoprire qualcosa di più sul mondo e non solo cose che conosco già; quindi non sono disposto a cambiare mai nulla nella trama o nella lingua che uso perché sia “più facile”. Se qualcuno vuole qualcosa di più facile, può accendere la tv.

E credo di essere disponibile con i lettori, la gente può contattarmi su Facebook o per e-mail, organizzo molti incontri e presentazioni, circa 50 o 60 all’anno. A volte sono incontri interessanti, altre decisamente no, ma sono parte del mio lavoro e in un certo senso della mia missione di scrittore.

Le è mai capitato di pensare di un libro “Ah, avrei tanto voluto scriverlo io!”? E ci può dire quale?

Sì, mi è capitato molte volte. Nel mio lavoro di traduttore ho il privilegio di avere a che fare con libri scritti in altre lingue a me note, e nel tradurli è come se li riscrivessi da zero in polacco. Con molte delle mie traduzioni, come quella di Giro di vite di Henry James, o le poesie di Philip Larkin o anche il suo romanzo A Girl in Winter e così via è stata una gioia enorme riscriverli in polacco, dopo che mi avevano entusiasmato in inglese. Purtroppo non sempre riesce, ho molti libriccini di Edward Gorey e delle poesie di Carl Sandburg che ho tradotto, ma non so se troverò mai un editore interessato.

Visto che abbiamo parlato di zombie, le propongo un piccolo gioco: se avesse l’occasione di prendere un caffè con uno scrittore o una scrittrice del passato, con chi le piacerebbe farlo?

A dire il vero, temo che quelli che più stimo da un punto di vista letterario sarebbero insopportabili, o l’incontro stesso sarebbe un supplizio per loro. Del resto, non amo particolarmente gli scrittori come categoria professionale; mi piacciono pochi romanzieri e quasi nessun poeta. In compenso ho rapporti di grande amicizia con due farmacisti.

 

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