Ida, ovvero dell’identità.

Ida PoloniCult photo 1

Il capolavoro di Paweł Pawlikowski sulla scoperta di sé in un contesto complesso e drammatico.

di Francesco Cabras

Uscito nel 2013, Ida di Paweł Pawlikowski è stato letteralmente coperto di premi: il Lux Prize conferito dal Parlamento Europeo; Miglior film agli European Film Awards, competizione che lo ha visto trionfare anche nella categoria Miglior regista e Miglior Sceneggiatura – entrambi a Paweł Pawlikowski, il secondo in condominio con Rebekka Lenkiewicz; Miglior fotografia a Justine Wright); entrambe le due attrici (Agata Trzebuchowska e Agata Kulesza) sono state invece nominate per il titolo di migliore attrice. Dal Toronto Film Festival 2013 la pellicola se n’è andata con in tasca il premio FIPRESCI nella categoria “Special Presentation”; dal London Film Festival 2013 con il Grand Prix come Miglior film; ai Golden Globe è arrivato alla short list della categoria. Svariati i premi raccolti in patria, tra cui il Grand Prix al Warszawski Międzynarodowy Film Festiwal 2013 [Festival Internazionale d’Arte Cinematografica di Varsavia]; aggiungo, per autolimitarmi come fatto con i premi internazionali, anche una buona serie di Orły [letteralmente: “Aquile”], come comunemente sono indicate le statuette assegnate annualmente dalla Polska Akademia Filmowa [Accademia Polacca d’Arte Cinematografica], corrispondente grossomodo al nostro David di Donatello; ebbene, Ida è risultato vincitore nelle categorie: Miglior Film (Paweł Pawlikowski); Migliore Attrice Protagonista, (Agata Kulesza); Miglior Regia (Paweł Pawlikowski); Miglior Montaggio (Jarosław Kamińskiego).

Tanta la selezionata – ché molti altri se ne potrebbero aggiungere – caterva di premi. Ma al di là di un’enumerazione di premi – invero alquanto noiosa, per il compilatore e per il lettore, di per sé non necessariamente indicativa del valore intrinseco al film, la storia di Ida è quella di una novizia che viene mandata dalla Madre Superiora del convento a conoscere l’unica parente di sangue rimastale. In una conversazione di poche parole immersa nella luce che fatica a coprire di sé le pareti della stanza (la fotografia di Łukasz Żal e Ryszard Lenczewski lascia davvero il segno), si viene a sapere che la novizia protagonista del film si chiama Anna (Agata Trzebuchowska) e che la zia, Wanda Gruz (Agata Kulesza), pur più volte richiestane, non ha potuto recarsi di persona a conoscere la nipote. Di qui la necessità, per Anna, di un viaggio fuori dalle mura monastiche, alla scoperta delle proprie radici, quindi di sé stessa; infine del mondo. Viaggio di formazione, verrebbe da dire, che la stessa Superiora fa intendere di ritenere imprescindibile prima che la ragazza prenda i voti. Anna si mette e in viaggio e scopre dalla zia che in realtà il suo vero nome è Ida Lebenstein. Anna/Ida è in realtà un’ ebrea: rifugiatasi ancora neonata e insieme alla famiglia presso dei contadini polacchi che inizialmente avevano offerto loro protezione, salvo poi ucciderli e seppellirli nel bosco, è l’unica superstite della propria famiglia, risparmiata perché il boia che compì la strage non riuscì a ucciderla, impietosito per la sua tenerissima età; affidata alle suore che la educarono in convento secondo i dettami del cristianesimo, Anna/Ida è una donna cresciuta letteralmente “fuori” dal mondo, tra le mura “limitanti” del convento e della fede.

La zia è stata in un recente passato (negli anni ’50 dello stalinismo più duro, da quello che si può ricostruire; il film s’immagina ambientato nei primi anni ’60) un giudice, e un giudice sanguinario per sua stessa ammissione: “Krwawa Wanda. To ja” [La sanguinaria Wanda: sono io]; né si perita a riconoscere di aver mandato a morte molti imputati, “nemici della Nazione”.

Già nelle biografie dei due personaggi sta uno dei motivi d’interesse del film: risale al 2000 il volume di Jan T. Gross, poi ripubblicato nel 2002 con una nuova postfazione The Destruction of the Jewish Community in Jedwabne, Poland. Neighbors, non ancora tradotto in italiano. Il volume, opera rigorosa di uno storico, lungi dal restare confinato alla ricezione degli specialisti, divenne in Polonia un caso mediatico (e politico); Gross mise nero su bianco un dato: la complicità di una parte – e va sottolineato: di una parte soltanto – dei polacchi negli eccidi perpetrati dai nazisti ai danni degli ebrei. La storiografia aveva già iniziato a scavare in quella direzione – mi permetto di citare uno splendido libro di Christoper R. Browning, libro che, pur non essendo espressamente dedicato al tema, mette in rilievo alcuni episodi di collaborazionismo che s’instaurarono tra nazisti e una parte (insisto ancora a specificarlo) della popolazione locale: Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, Einaudi 2004, la prima edizione americana è del 1992 – ma è stato il volume di Gross a sollevare un vespaio di polemiche.

I Polacchi, il Cristo fra le nazioni, l’agnello sacrificale del XXI secolo, messi sul banco degli imputati? Fu un duro colpo, niente affatto assorbito. Basta farsi un giro tra i siti che pubblicano recensioni di questo stesso film per imbattersi in accuse di “antipolonità” alla pellicola. Ora, che simili accuse – francamente campate in aria nei confronti di questo film, diciamolo subito – vengano mosse dalle frange più estreme del nazionalismo polacco non è certo difficile da immaginare; eppure resta un tema delicato, anche senza andare a pescare in ambienti nazionalisti: non è un caso che Agnieszka Graff abbia criticato severamente il film in questione accusandolo, sostanzialmente, di essere troppo poco “politico”; di mettere la sordina al giudizio morale che su quegli avvenimenti (così come sulle responsabilità delle persecuzioni perpetrate dai funzionari ebrei comunisti durante lo stalinismo di cui dirò) sarebbe dovuto essere obbligatorio – anzi di non formularlo affatto. Due opposte tendenze si sono unite nella critica al lavoro di Pawlikowski: da una parte alcune voci nazionaliste (minoritarie, va detto, ché a conti fatti, con sfumature diverse, il film è piaciuto in modo abbastanza trasversale) e – dall’altra sponda – chi invece chiede a gran voce un dibattito su queste questioni, chi non si accontenta di quanto si è detto e ritiene sia ancora troppo presto per accantonare i discorsi etici e politici su questo passato.

Il personaggio di Wanda è liberamente ispirato, per ammissione dello stesso regista, a Helena Libińska Brus (1918-2008): ebrea, attivista comunista durante la guerra, riuscì a fuggire dal ghetto di Varsavia per unirsi prima alla Gwardia Ludowa e poi all’Armia Ludowa, formazioni militari comuniste che durante la seconda guerra mondiale non confluirono nell’AK, l’esercito di liberazione clandestino che costituiva il grosso delle forze della resistenza. Dopo la guerra, divenuta procuratore, fu protagonista di diversi processi politici e fece condannare a morte un gran numero di persone.

Non furono infatti pochi gli ebrei che entrarono a far parte dell’apparato di controllo e repressione (servizi di sicurezza e tribunali), ma poi anche negli stessi quadri del partito, messo in piedi dai comunisti nell’immediato dopoguerra; un apparato repressivo che – mi baso su Lukowski-Zawadzki, Polonia. Il paese che rinasce, Trieste 2009: 284 – emise tra il 1945 e il 1956 cinquemila sentenze capitali per ragioni politiche, di cui la metà fu eseguita. Per chi fosse interessato ad approfondire il tema, è d’obbligo partire dal capitolo dedicato alla PRL di Davies, God’s Playground, Vol. II (di cui abbiamo già parlato).

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Vorrei chiudere questo intervento con un paio di considerazioni sul film: se una parte delle critiche che sono venute a questa pellicola riguardano la sua poca “politicità”, ciò non significa che la scelta del regista sia meno degna di cittadinanza: Ida è un film sull’identità, e la storia della Polonia gli fa da sfondo. Anna deve andare oltre il limes (non a caso ho usato all’inizio l’aggettivo “limitante”) che il convento costituisce per scoprire la propria identità; per perdere quello che credeva il suo nome, per rimettersi in discussione; Wanda al contempo si scopre a dover fare i conti con una umanità repressa, con un passato che ritorna con degli affetti trascurati per sacrificarsi a un ideale che l’ha delusa e abbandonata; e credo che alcuni mezzi stilistici non siano casuali: spesso le protagoniste non sono al centro dell’inquadratura ma ai margini di essa; altre volte la macchina indugia su particolari del volto (esemplare la scena di Wanda che si trucca nella toilette dell’albergo, mai inquadrata per intero), quasi la cinepresa volesse cogliere le pieghe più riposte dell’animo o trasmettere a chi guarda la parzialità dello sguardo (mi si perdoni il gioco di parole): l’identità è sfuggente, liquida, impossibile da cogliere. La totalità resta un miraggio e Ida, uscita dal rassicurante convento, vedrà crollare le proprie certezze, compreso il rifiuto di pensare ai “peccati carnali” di cui la zia, furbescamente, le chiede in un dato momento del film; ma volutamente non ho svelato tutti i risvolti di una trama che, nello spirito della parzialità e di un’impossibile totalità, si chiude con un finale aperto…

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