I vagabondi – frammenti di vita in cammino

Osservazioni su I vagabondi, l’ultimo romanzo di Olga Tokarczuk, premio Nobel per la letteratura 2018

di Mara Giacalone

Olga Tokarczuk – che a me piace chiamare Pani Olga – non è di certo la prima volta che fa la comparsa su PoloniCult; non avevamo bisogno del Nobel per credere in lei e nella sua scrittura. Siamo davvero contenti del riconoscimento che ha ricevuto, il premio letterario più importante. E siamo davvero contenti che se ne parlerà di più d’ora in poi. L’accademia di Svezia le ha conferito tale merito per la sua immaginazione narrativa che, con passione enciclopedica, rappresenta il superamento dei confini come una forma di vita. Chi conosce Pani Olga si renderà conto che la motivazione calza a pennello. La sua predisposizione ad andare al di là delle cose ovvie, la sua curiosità che vaga in ogni direzione senza porsi scrupoli o barriere sono caratteristiche proprio sue. Come in La quiete del tempo, quando giocava a nascondino con e tra i vari personaggi saltando fuori e dentro lo spazio, sempre ammesso che lo spazio-tempo sia qualcosa di reale, o in Opowiadania Bizarne in cui ci ha regalato tanti microcosmi surreali, bizzarri, stranianti. Il libro che l’ha portata nell’occhio del ciclone, I vagabondi (edito in italiano da Bompiani per la traduzione di Barbara Delfino) contiene tutta la sua carriera.

Lo ammetto fin da subito, non è il mio libro preferito dell’autrice e ho fatto una gran fatica a leggerlo ma a distanza di giorni – l’ho finito proprio la sera prima che venisse annunciata la sua vittoria – credo di iniziare a comprendere meglio tutte quelle pagine, tutti quei pezzi che sembrano non incastrarsi l’uno con l’altro. Ci sono libri che, una volta finiti, ti mancano perché ti hanno tenuto compagnia come dei veri amici; ci sono altri che è facile riporre sulla mensola e poi ce ne sono altri ancora che non ti danno pace. I vagabondi è questo. Non riuscivo a capacitarmi del suo successo stravolgente durante la lettura, solo ora che lo vedo da lontano e dall’alto, riesco ad intravedere l’immagine di quel puzzle.

È impossibile cercare di delineare una trama perché, semplicemente, non c’è. Non si può nemmeno parlare di veri e propri racconti, piuttosto di istantanee di vita, polaroid che sfuggono dalle mani, biglietti di aerei o della metro trovati per terra, cartoline con immagini sfuocate. A parte alcuni casi, incontriamo tanti sconosciuti, vediamo tante persone di sfuggita e di queste memorizziamo solo un particolare, quello che più ci ha colpiti ma che svanisce appena la persona esce dal nostro campo visivo. Come quando siamo in stazione o all’aeroporto e nella confusione di tutte quelle vite che si mescolano e scontrano ci cade lo sguardo su una persona particolare, così mi viene di descrivere quello che fa la Tokarczuk in questo libro. Ho avuto spesso in mente Augé con la sua definizione di non-luogo e farei un calco di questo termine per utilizzare quello di non-storie. Così come il noto sociologo definisce determinati luoghi per la loro fluidità e incapacità di trattenere le persone, per la loro configurazione di apertura su tutti i lati, per quella vita che li attraversa senza arrestarsi, allo stesso modo i vagabondi della Tokarczuk sono personaggi fluidi, in movimento, che non si fermano a raccontarci la loro storia ma ci abbozzano solo un timido o sgarbato sorriso di circostanza mentre le nostre vite si scontrano per puro caso, senza che questo incontro si trasformi in una relazione. Il titolo, si capisce bene, non potrebbe essere più preciso.

Mi vengono in mente tante lezioni di letteratura polacca in cui si parlava della bezdomność (il non avere casa) come caratteristica della modernità, questo essere senza casa che si tramuta in un’assenza di radici che significa poi assenza di ideali, paura, fluidità – come la intendeva Bauman – questa nostra incapacità di trattenere le cose e le persone perché tutto è diventato così veloce, così usa e getta che alla fine diventiamo davvero tante mono-isole, tanti vagabondi sempre alla ricerca di qualcosa – felicità, amore, soldi, fama o l’ultimo modello di cellulare. Vaghiamo un po’ alla cieca senza sapere dove andare. Pani Olga queste cose ce le aveva già raccontante, ma se ad esempio in Opowiadania Bizarne, tutto ciò era ammantato da un’aurea surreale quasi distopica, la particolarità di I vagabondi è che queste non-storie potrebbero appartenere a ciascuno di noi. Ad un noi sempre in fuga e in movimento, perché l’immobilità crea oppressione, trasmette senso di vuoto e freddo. Fermarsi equivale a morie. Noi dobbiamo sempre viaggiare. Il mondo deve sempre progredire…la mancanza di movimento è morte.

“ciò che non si muove è soggetto alla disintegrazione, alla degenerazione e a ridursi in cenere, mentre ciò che si muove potrebbe addirittura durare per sempre”

Lo slancio vitale – Bergson! – è tipico dell’uomo. E una volta giunti al capolinea, una volta che la nostra corsa si è arrestata, possiamo continuare ad essere nel mondo attraverso quello che rimane – il corpo. Una delle particolarità del libro sono le digressioni sui preparati chimici per la conservazione dei feti, di parti malformate. Ci sono diversi focus su questi aspetti così concreti, così tangibili che quasi sono in contrasto con quella fluidità di cui sopra. Ci racconta per esempio di Verheyen, l’anatomista che denominò il tendine del tricipite tendine di Achille e del suo problema con la gamba amputata; veniamo poi a sapere della storia della sorella di Chopin che fa arrivare il cuore del fratello nascosto fra le pieghe della gonna; apprendiamo l’incredibile carteggio di Josephine Soliman a Francesco I d’Austria che aveva fatto imbalsamare il corpo del padre perché “di colore” in modo da esporlo nella sua wunderkammer. Ma la storia più curiosa rimane quella legata alla collezione dei preparati destinata allo Zar ma che mai arrivò…

C’è qualcosa di affascinante nello studiare il nostro corpo. Qualcosa che meraviglia e spaventa, per la sua perfetta complessità, perché rimaniamo ancora dei segreti imperscrutabili nonostante il progresso. E questo ci intriga. Nei secoli il corpo è stato smontato, analizzato in ogni parte eppure ancora non abbiamo risposto né alla domanda “da dove veniamo?” né tanto meno a quella “dove andiamo?”. Restano incognite. Ma se non conosciamo né l’inizio né la fine è perché quello che davvero importa è l’oggi, è l’andare. Il vagabondare. Senza meta. È credere così tanto nella vita da essere in grado di camminare senza una mappa. D’altronde non l’abbiamo mai avuta e – per fortuna – mai l’avremo.

Pani Olga crede nel mondo. È una sostenitrice dei cambiamenti, difende i diritti della comunità Lgbtq+, fa parte del partito polacco ambientalista e, chi la conosce, sa che è molto vicina alla natura. Al primigenio. Seppure I vagabondi non abbia quel sapore “tipico” della sua penna, quel misticismo moderno che le compete e che la fa sembrare sorella di Schulz, c’è qualcosa di simile anche in questo romanzo…  un’attenzione all’uomo e alla sua relazione con il mondo di oggi. Iperconnesso. Drammatico. Fatto di voli low cost. Di vite spezzate. Di arrivederci.

All’inizio ho detto che non è di certo il mio libro preferito dell’autrice, questo perché a primo impatto, leggendo non la si trova. Io cercavo la Pani Olga di quelle storie che l’hanno fatta diventare una delle mie scrittrici preferite e non l’ho trovata. Nonostante tutto quello che ci siamo detti sopra. Perché forse poteva dirlo meglio. Forse poteva usare quel suo alone pseudo-magico che ci fa pensare ad una sacerdotessa pagana devota a Svetovid (dio del raccolto e della guerra) o a Borevit, il dio dei boschi. Manca quella penna così schulziana che sa di storie antiche, quelle che profumano di muschio e notte invernale…

Quelle storie periferiche, che arrivano come echi, come notizie passate da orecchio ad orecchio…d’altronde lo ammette lei stessa nel romanzo “i miei sintomi si manifestano con un’attrazione verso tutto ciò che è rotto, imperfetto, difettoso, screpolato”. E I vagabondi è un perfetto patchwork di vita e di vite. Di “forme imprecise, sbagli nei lavori creativi, vicoli ciechi”. Qualcosa che “avrebbe dovuto svilupparsi ma per qualche motivo è rimasto incompiuto”.

Il viaggio che ci porta a fare con questo suo testo può risultare estraniante, non si trovano i fili, ma i nodi sì. Nodi cruciali, quelli che si sciolgono solo con altre domande.

“Nella mia scrittura la vita si trasformava in storie incomplete, racconti onirici, trame non chiare, compariva da lontano in insolite prospettive dislocate o in sezioni trasversali – e sarebbe stato difficile trarre qualche conclusione”.

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